Dialogo col teologo Piero Coda
su alcuni nodi teologici scottanti
Una chiave trinitaria
può sbloccare l'ecumenismo?
a cura di Enrique Cambón
Attualmente nell'ecumenismo si sta assistendo a un doppio fenomeno. Da una parte cresce nei cristiani la coscienza dell'assurdo della divisione e la necessità di superarla. Però contemporaneamente si è giunti a un punto dov'è difficile avanzare soprattutto in campo teologico. Si son fatti dei passi avanti prodigiosi in questi decenni ma c'è come l'impressione che siamo arrivati ad uno «zoccolo duro» che umanamente sembrerebbe impossibile superare soprattutto su ciò che riguarda alcuni temi. Perciò la conversazione che presentiamo ha per scopo provocare il teologo con alcune domande alla ricerca di una prospettiva che possa aprire nuovi spiragli per portare avanti il dialogo e la realizzazione concreta dell'unità.
Trinità, modello della chiesa
GEN'S. Uno dei problemi
ecumenici fondamentali è l'esercizio dell'autorità nella
chiesa. Senza voler negare la necessità nella comunità
cristiana dell'autorità che viene da Cristo cioè di quello che
il BEM (documento del Consiglio Ecumenico delle Chiese su Battesimo-Eucaristia-Ministero)
ha chiamato «focus d'unità», si desidera in molti evitare l'autoritarismo e valorizzare di più la fraternità la
libertà l'uguaglianza
la conciliarità ecc. Una chiesa maggiormente concepita e vissuta
in chiave trinitaria non risponderebbe a queste esigenze aprendo
delle prospettive per certi versi inedite? Quali sarebbero le
caratteristiche fondamentali di un'unità e di una strutturazione
ecclesiale di tipo trinitario?
Questo emergere del «modello trinitario» in riferimento all'ecclesiologia, e di conseguenza al rapporto tra le chiese, oltre che al rapporto all'interno di ciascuna di esse tra le diverse componenti del Popolo di Dio, è una delle caratteristiche decisive dell'attuale stagione ecclesiale, che probabilmente sarà sempre di più messa a fuoco e avrà anche dei riflessi sul piano pratico. Ed è effettivamente una novità rispetto alle epoche precedenti della storia della chiesa. Certamente c'è stata qualche intuizione qua e là, ma non come una chiave fondamentale e per certi versi anche risolutiva dell'essere e dell'agire ecclesiale.
Ovviamente questa chiave trinitaria non dev'essere vista solamente come qualche cosa che piove astrattamente dall'alto, dalla «speculazione» sui rapporti tra le Persone della SS. Trinità, e che poi si può applicare in modo semplicistico, senza mediazioni, ai rapporti interpersonali e alla realtà delle istituzioni ecclesiali. Il discorso è più complesso, perché l'emergere di questo modello è in realtà fondato anche sulla più profonda comprensione della struttura della persona umana e quindi, delle relazioni interpersonali e istituzionali. Bisogna saperlo vedere dall'alto, da Dio, nella luce «discendente» della sua rivelazione, e allo stesso tempo bisogna farlo anche emergere dal basso, dalla struttura della realtà storica e umana. Questo - mi pare - è uno dei nodi più importanti e anche più delicati sia sul piano teorico che su quello pratico.
Ma in quale senso questo modello trinitario può dare un apporto alla soluzione del problema dell'autorità nella chiesa, e anche alla comprensione dell'unità della chiesa? Innanzi tutto, perché mette in luce due principi fondamentali.
Il primo è quello che con von Balthasar possiamo chiamare il principio della «positività dell'altro», della «positività della differenza», nel senso che il mistero trinitario ci dice chiaramente che in Dio l'Altro non è indifferente o inferiore: così il Figlio e lo Spirito, ad esempio, rispetto al Padre. Questa visione combacia con un valore che sta emergendo con forza nella coscienza antropologica e culturale del nostro tempo: il rispetto dell'alterità e della differenza, e l'intuizione profonda che un vero rapporto di unità non può prescindere dall'accoglienza e dalla valorizzazione della differenza. Qui sta anche una delle caratteristiche più nuove del Concilio Vaticano II espressa, ad esempio, nel decreto Dignitatis humanae sul principio della libertà religiosa. Si tratta di una svolta epocale nella comprensione del rapporto con Dio e tra le persone all'interno dell'esperienza stessa della fede.
Il secondo principio base che viene messo in luce dal modello trinitario è quello che Bartolomeo I, nel corso della sua recente visita a Roma, ha chiamato «l'ethos kenotico», e cioè un rapporto di rispetto dell'alterità che non significhi una coesistenza semplicemente tollerante, e tanto meno una coesistenza di indifferenza, ma che sia espressione e conseguenza dell'unità attraverso la via vissuta da Gesù che «ha spogliato» (kenosi) se stesso per noi. Ciò si realizza se reciprocamente si fa spazio all'altro e si comprendono le sue ragioni. Anzi, trinitariamente, si dovrebbe dire che ogni realtà ha significato in quanto è a servizio dell'altra e, in qualche modo, «fa essere» l'altra.
A livello del rapporto tra le
chiese questi principi significano che l'unità futura di cui si
parla in tanti modi e di cui si intuiscono alcuni possibili modelli, dev'essere
compresa come un'unità reale e profonda, ma proprio per questo rispettosa
della differenza come espressione dell'unità; e allo stesso
tempo che ogni differenza è tale se sta in un rapporto
«kenotico» nei confronti delle altre, all'interno di uno spazio
d'unità. Anche se poi, praticamente, è talvolta difficile
riuscire ad esprimere che cos'è essenziale nell'unità e che
cosa è compreso in una differenza che esprime e costruisce l'unità.
In ogni caso, questi principi spingono a un superamento di quei modelli
che implicano una pura e semplice riconduzione a un unico principio.
Il tema dell'autorità
Per quanto riguarda l'autorità all'interno della chiesa, il principio trinitario illumina un fatto molto importante. E cioè, che anche l'autorità (e non solo l'obbedienza!), dal punto di vista evangelico è sempre espressa attraverso la kenosi. Il Padre, certamente, come sottolinea bene la teologia orientale, è Colui che è il principio senza principio nella Trinità: ma questa Sua realtà si esprime nel fatto che Egli è tutto per il Figlio, si «spoglia» completamente di Se stesso per far essere il Figlio. La sua è un'autorità kenotica. Il che evidenzia che nel rapporto tra le persone della SS. Trinità se il Padre è primo in un certo ordine, sotto un certo aspetto, il Figlio lo è sotto un altro aspetto e lo Spirito Santo sotto un altro ancora, anche in virtù di quella che la tradizione teologica chiama la loro pericoreticità.
Tutto ciò ha un riflesso ecclesiologico importante, perché significa che nella chiesa i vari ministeri e carismi non solo giocano tutti dei ruoli altrettanto importanti, ma anche che essi riconducono all'unità l'esperienza della chiesa sotto profili diversi. È un fatto sul quale non si è riflettuto abbastanza nella chiesa cattolica, ma in fondo anche nelle altre chiese, perché in fin dei conti si è privilegiato sempre il ministero ordinato o gerarchico. Mentre nel nuovo testamento, nelle liste dei servizi ecclesiali e dei carismi
che ad esempio ci offre san
Paolo, troviamo chiaramente non solo un pluralismo, ma una sorta di
polarità tra apostoli e profeti: il che significa una visione in
qualche modo policentrica dell'unità stessa, come ha sottolineato più
volte G. M. Zanghì. Questo non vuol dire che il ministero ordinato,
ad esempio, debba essere ricondotto a unità dal carisma
profetico sotto il profilo di ciò che è specifico del ministero
ordinato. Se il ministero ordinato ha il carisma del discernimento
degli altri carismi, questo rimane il suo compito specifico. Ma
il ministero ordinato dovrà essere aperto e percepire ciò che
gli altri carismi in quanto tali dicono e operano per la chiesa.
Collegialità o primato?
Un tema collegato a questo è quello della collegialità che certamente, nel suo intrinseco rapporto al primato, è presente come un'importante e direi (dal punto di vista della comprensione storica) sostanziale novità nel Concilio Vaticano II per quanto riguarda la chiesa cattolica, ma che è anche presente nella tradizione ortodossa e, in forma ancora diversa, in quella evangelica. Il principio di collegialità non dev'essere visto solo sotto il profilo del rapporto dell'episcopato con il primato, per esempio, nella chiesa cattolica, o sotto quello dei reciproci rapporti tra i vescovi nella chiesa ortodossa: si tratta infatti di un principio più generale, che esprime la concezione trinitaria di tutti i rapporti ecclesiali. Nel senso che la chiesa, in quanto è la presenza di Cristo risorto nella storia, è chiamata a rendere visibile e percepibile un tipo di esperienza e di relazioni reciproche che esprima la novità portata da Gesù Cristo. È quello che san Paolo esprime definendo la chiesa il Corpo di Cristo. Ciò significa avere dei ruoli diversi all'interno della comunità ecclesiale e convergere nell'unità, ma anche giocare questi ruoli in un rapporto di reciprocità.
Evidentemente, c'è la necessità
che qualcuno rappresenti all'interno di questa unità un punto di riferimento
autorevole e definitivo, che esprima la comunione collegiale col
sigillo che deriva dal suo particolare carisma di discernimento e
di guida. Ora, qui sta - mi sembra - la grande sfida che la chiesa
cattolica ha intrapreso alla luce del Concilio Vaticano II. Ma
questa è anche, per altri versi, la sfida che le altre chiese
hanno imboccato. La chiesa cattolica ha sempre sottolineato
l'unità e, soprattutto a partire dal Concilio, ha compreso come
questa unità dev'essere intesa in termini collegiali e comunionali.
La sfida, quindi, è per lei proprio quella di riuscire ad articolare
sempre meglio e in modo credibile unità e collegialità. Le
altre chiese sono partite da un punto di vista opposto, sotto
alcuni aspetti, a quello della chiesa cattolica, e cioè dalla
sottolineatura del principio della libertà, penso ad esempio
alla tradizione evangelica. Il pericolo è quello di non riuscire
più a mantenere ciò che è fondamentale nella testimonianza del nuovo
testamento, e cioè il fatto che questa libertà è autentica
solo in quanto esprime e, allo stesso tempo, converge
nell'unità. Questo pericolo lo ritroviamo anche nella tradizione ortodossa:
in essa è presente senza dubbio una concezione comunionale, ma bisogna poi
chiedersi se essa sia di fatto tradotta a livello delle strutture ecclesiali.
All'interno di ogni loro chiesa locale il modello - mi pare -
resta fortemente monarchico; e nei rapporti tra le chiese locali
il principio dell'autocefalia quand'è inteso in senso forte, rende
di fatto inoperante il principio della comunionalità. Quindi,
sulla via della realizzazione di questa collegialità in chiave
trinitaria, debbono camminare, in forme diverse, tutte e tre le
grandi tradizioni cristiane. Camminando su questa strada, se
ciascuna facesse una revisione di vita e s'impegnasse a lasciarsi
sollecitare più profondamente da questo principio, anche
partendo da punti di vista diversi, probabilmente si finirebbe
con l'arrivare più vicini a una meta comune.
Quali passi per il ministero petrino?
GEN'S: Nella sua enciclica
sull'ecumenismo, Giovanni Paolo II dice esplicitamente: «dobbiamo
cercare insieme le forme nelle quali questo ministero possa
realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli
altri» (n. 95). Quali accentuazioni nell'esercizio del servizio
petrino faciliterebbero l'accettazione di una sua funzione) universale
da parte dei fratelli di altre tradizioni?
Questa proposta che il papa fa è di grandissima importanza. La chiesa cattolica sottolinea, da un lato, che il ministero petrino è un dato irrinunciabile e costitutivo dell'essere e della missione della chiesa perché fondato nella testimonianza del nuovo testamento e nell'ininterrotta tradizione ecclesiale. Ma allo stesso tempo esprime oggi l'esigenza, attraverso il papa, che può e dev'essere rivista la forma concreta in cui esso è compreso ed esercitato. Il che significa un'apertura decisa e fiduciosa all'azione dello Spirito Santo che attualizza oggi la comprensione di questo ministero. Il fatto che il papa inviti i rappresentanti delle altre chiese a ritrovarsi insieme per dialogare e progettare la forma d'esercizio del ministero petrino, mette in luce la struttura dialogale e collegiale della stessa comprensione e attuazione della verità nella chiesa! Si può dire che, già questo fatto, implica una revisione della forma con cui è stato esercitato finora e in qualche modo un'indicazione dello stile nuovo secondo cui è possibile comprendere l'esercizio del ministero petrino.
Quali accentuazioni possono essere sviluppate? Innanzi tutto, c'è da recuperare la concezione che il ministero petrino è comprensibile pienamente ed esercitabile in forma evangelica solo all'interno di una relazione di comunione con gli altri vescovi della chiesa. È evidente che nella testimonianza del nuovo testamento il rapporto tra Pietro e gli apostoli - o se vogliamo tra le chiese fondate dagli apostoli e la chiesa di Roma - è un rapporto in cui Pietro rappresenta un punto di riferimento fondamentale, ma dove si trova un ampio spazio dato all'identità propria delle altre chiese. In rapporto ad esse la sua funzione di punto di riferimento ultimo significa un discernimento autorevole e definitivo che coinvolge però l'apporto di tutti gli altri. Il Concilio di Gerusalemme, nella testimonianza degli Atti degli Apostoli - anche se la visione è un po' schematizzata - mostra una struttura di discernimento che implica l'ascolto reciproco e, alla fine, una decisione autorevole che viene da Pietro, ma come espressione di ciò che comunitariamente è emerso attraverso il discernimento guidato dallo Spirito. Questo è già un certo modello di esercizio.
Successivamente, è evidente che,
per la crescita dell'estraneità culturale e poi anche teologica tra
l'Oriente e l'Occidente e per l'impronta fortemente latina che ha
assunto la chiesa di Roma in riferimento alla tradizione del diritto romano,
il ministero petrino ha assunto una forma decisamene giuridica e
per precisi motivi storici, soprattutto a partire dal Medioevo e
in particolare dalla Riforma gregoriana, ha perso quasi
completamente la dimensione di relazionalità con il principio
della collegialità.
Il momento è favorevole...
Di conseguenza, il compito odierno è mantenere la sostanza evangelica di quanto è emerso nella tradizione a proposito dell'identità e dell'esercizio del ministero petrino nella chiesa cattolica - cosa che è stata poi sancita dal Concilio Vaticano I e ripresa dal Vaticano II -, mettendola in rapporto col principio che si è oscurato e che è stato rimesso in luce col Vaticano II: quello della collegialità. Questo fatto, senza modificare la sostanza del ministero petrino, non può non modificarne la comprensione e l'esercizio. Dire che modifica l'esercizio significa comprendere che nella visione cristiana anche delle strutture ministeriali non c'è una sostanza a sé stante a prescindere dalla relazione. Così come nella Trinità è la relazione che definisce le persone trinitarie anche il ministero petrino è definito dal modo con cui viene concepita la sua relazionalità con la collegialità. Non è un cambiamento sostanziale, ma una comprensione sostanzialmente più profonda e più aderente alla visione di Cristo.
Penso anche, in questo contesto,
che è difficile fare un ragionamento astorico, pensando astrattamente
che sarebbe stato possibile che il ministero petrino fin dall'inizio
si esercitasse in un altro modo da quello con cui di fatto si è realizzato.
C'è - nella dinamicità della vita ecclesiale - una progressione
di comprensione storica dello stesso contenuto sostanziale testimoniato
dal nuovo testamento, che esige una serie di esperienze e un cammino
guidato gradualmente dallo Spirito. Probabilmente oggi, per il soffio
dello Spirito Santo che fa comprendere in modo nuovo la Trinità
e quindi anche i rapporti interpersonali da una parte, e dall'altra,
per l'emergere di una coscienza storica più attenta a tutte
queste dimensioni, siamo nella condizione migliore (dal punto di
vista teologico siamo in un kairós) per capire di più ciò che
è sostanziale nel nuovo testamento. C'è qualcosa di nuovo che
emerge, che non è nuovo nel senso che non ci sia nel nuovo
testamento, ma nel senso che ci sono tutte le condizioni perché
si possa comprendere e realizzare ciò che sempre si è saputo,
in forma nuova. Penso che le diverse chiese e lo stesso ministero petrino
debbano perdere la paura di mettersi in gioco profondamente,
essendo radicati nella fedeltà al nuovo testamento e alla
propria tradizione, e allo stesso tempo con grande apertura e
totale fiducia nello Spirito che guida «verso la verità tutta
intera».
Gerarchia delle verità
GEN'S: Il riferimento del decreto sull'ecumenismo del Vaticano II alla «gerarchia della verità» (n. 11), è stato chiamato da ecumenismi e da cristiani non cattolici il testo ecumenicamente più significativo del Concilio; lo stesso Cullmann lo ha definito «chiave dell'ecumenismo». Si è scritto molto su di esso, ma ho l'impressione che col passare del tempo si sia annacquata la sua importanza.
Mi sembra che quello della «gerarchia delle Verità» sia un principio fondamentale per l'ecumenismo ma anche, in generale, per la comprensione della verità cristiana. È un principio che ha un valore teologico universale. Tant'è che il «Catechismo della chiesa cattolica» lo riprende e lo stesso Schönborn, attuale arcivescovo di Vienna, che ha lavorato alla redazione finale del Catechismo, lo richiama come uno dei cardini del suo impianto.
La sua importanza - a mio avviso - è prima di tutto di carattere metodologico. E questo può eliminare già da subito le paure di coloro che possono pensare che mettere in luce alcune verità come principali rispetto ad altre, in definitiva porti a minimizzare queste ultime. In realtà, dicendo che c'è una gerarchia delle verità, si vuole mettere in una prospettiva nuova la comprensione globale della verità cristiana. Si dice che c'è un centro - la rivelazione della Trinità in Cristo Gesù, nel suo mistero di morte, abbandono, risurrezione ed effusione dello Spirito, che ci partecipa e ci rivela pienamente la vita trinitaria come forma dell'esistenza umana - e che tutta la verità cristiana scaturisce da ed è comprensibile nell'orizzonte di questo centro. Affermare la «gerarchia delle verità» non significa per niente lasciare da parte alcune verità, ma anzi metterle nella giusta luce ed eventualmente scoprire il loro più profondo nesso con il centro dell'unica verità. Non è che si sottovaluti ciò che è più periferico, ma lo si illumina nella sua costitutiva relazionalità con il centro.
Un esempio importante, nel dialogo ecumenico, è quello della
mariologia. È inesatto comprendere il principio della gerarchia
delle verità puntando su Cristo e sulla Trinità e lasciando da
parte Maria, che non sarebbe così centrale e potrebbe quindi
esser messa tra parentesi per realizzare un dialogo proficuo.
Penso invece che mettere in luce il centro cristologico e
trinitario della fede cristiana, significhi scoprire qual è
l'intimo nesso che Maria ha con questo centro! E solo allora, dal punto di vista cattolico, riuscire a presentare la mariologia nella
sua realtà di fondo: per cui non si tratta di un principio
accessorio ma "radicato nel" e "illuminato dal" centro della fede. Ciò implica aiutare
eventualmente altre visioni teologiche a capire perché il sensus
fidei mantenuto e sviluppato dalla tradizione cattolica sia così
rigoroso nel richiamare la presenza di Maria nel mistero
salvifico. In realtà, è proprio la mancanza di una chiara
comprensione del principio della gerarchia delle verità che può
far sì che una certa presentazione del cattolicesimo metta in
rilievo in modo squilibrato Maria senza mostrarne l'intimo nesso
con il centro cristologico e trinitario della fede; e
all'opposto, che nella tradizione evangelica si possa diminuire
il ruolo di Maria all'interno della visione globale della fede.
Rapporto Scrittura-Tradizione
GEN'S. Si sa che uno dei nodi
teologici nel cammino ecumenico è il rapporto fra Scrittura e Tradizione. Tu insegni anche teologia fondamentale
e da tempo rifletti su questi argomenti. Come vedi il rapporto
tra queste realtà? Quali aspetti sarebbe importante approfondire
o in quale direzione muoversi per facilitare il cammino
ecumenico?
Si tratta di un problema certamente complesso e articolato. Del resto, su questo argomento, siamo in pieno movimento, sia nella teologia cattolica sia nelle teologie ortodossa ed evangelica. Però mi sembra anche che, proprio grazie alla funzione di stimolo critico, nel senso positivo del termine, che le diverse istanze teologiche e le diverse tradizioni svolgono le une nei confronti delle altre, ci troviamo a mettere a fuoco sempre meglio, alcuni punti importanti e comuni condivisi da tutti.
Una delle acquisizioni fondamentali è la comprensione più profonda di quello che possiamo definire una sorta di principio di reciprocità (anche se asimmetrica) fra Scrittura e Tradizione. Oramai, ad esempio, il principio del primato assoluto della Scrittura, nella stessa tradizione evangelica, viene equilibrato dalla comprensione che la Scrittura è cristallizzazione della Tradizione apostolica primitiva. Così come, nella prospettiva cattolica, il principio critico del primato della Scrittura come norma «non normata» della fede della chiesa ha fatto sì che si distinguesse molto meglio il valore proprio della Scrittura all'interno del processo globale della Tradizione.
Un'altra acquisizione è stata guadagnata anche grazie a una comprensione maggiormente storica dell'approccio alla e della formulazione della verità, nella prospettiva di un pensiero ermeneutico con apertura ontologica alla verità. Oggi si comprende sempre meglio come l'accesso alla sostanza di verità che è contenuta nella Scrittura, è possibile solo attraverso l'attualizzazione viva della Parola scritta in un contesto comunitario, ecclesiale, e allo stesso tempo nella linea di una progressione storica che rappresenta non solo la trasmissione di un contenuto sempre uguale della Parola, ma un approfondimento reale della comprensione di quel nucleo di verità che è già sempre dato nella testimonianza del nuovo testamento. E ciò grazie all'azione dello Spirito e dei suoi carismi e, dal punto di vista umano, dello sviluppo delle categorie esistenziali e intellettuali. Quindi il principio della Tradizione è fondamentale per l'interpretazione attualizzante della Scrittura.
In questa prospettiva, la
Scrittura rappresenta il punto di accesso privilegiato, anzi
unico, all'evento della rivelazione. Per risolvere le questioni
che rimangono in sospeso nel rapporto tra Scrittura e Tradizione,
bisogna mettere in rilievo il terzo termine fondamentale al quale
si riferiscono sia la Scrittura sia la Tradizione: che è appunto
l'evento della rivelazione che giunge alla sua pienezza in Gesù
Cristo nella sua dimensione storica ed escatologica. La Parola
scritta è già una mediazione che introduce in quest'evento, ma
lo fa in modo normativo, perché posso «vedere» l'evento
solamente attraverso la «finestra» della Scrittura. Dall'altra parte,
la Tradizione rappresenta quella grande corrente di trasmissione
comunitaria della rivelazione in senso sincronico e diacronico
che, facendomi affacciare alla finestra della Scrittura, mi
permette di comprendere sempre più profondamente e attualizzare
sempre più pienamente tutta la portata e la pregnanza dell'evento.
Un ecumenismo «trinitario»
GEN'S: Tu sei europeo. Oggi in
campo ecumenico si ripete che, poiché la divisione è cominciata
in Europa e da qui è stata esportata in tutto il mondo,
costituirebbe un grande segno e si salderebbe in parte un debito storico
se l'Europa per prima ricomponesse l'unità. Quali prospettive
vedi per il futuro dell'ecumenismo europeo?
Una delle caratteristiche fondamentali della nuova evangelizzazione del continente europeo, nella prospettiva di Giovanni Paolo II, è proprio rappresentata dall'ecumenismo. Perché, storicamente, è evidente che le visioni prima teistiche - che prescindono da una rivelazione storica - e poi agnostiche e ateistiche, sono nate proprio in Europa anche sulla base dell'esperienza storica della conflittualità tra le chiese cristiane; qui c'è una ferita che tocca la cultura europea moderna nel suo stesso costituirsi. Di conseguenza solo là dove il cristianesimo riesca a mostrare che è compossibile l'unità reale in una reale molteplicità che la esprime, il messaggio evangelico da parte delle chiese diventa credibile e costruttore di storia nuova.
Ho presente quello che diceva alcuni anni fa Massimo Cacciari, quando nel Sinodo del '91 si parlava dell'Europa e della nuova evangelizzazione. L'Europa è alla ricerca per il suo verso, come tutti gli altri continenti per il loro - di un modello nuovo di unità e di pluralità. L'Europa ha questo modello nella sua radice cristiana (nella Trinità) - egli diceva. Ma tale modello deve diventare credibile e praticabile, e ciò sarà possibile solo se l'ecumenismo in Europa avanzerà in modo deciso, altrimenti il cristianesimo non sarà all'altezza di questa sfida storica - non solo sotto il profilo evangelico ma anche sotto quello culturale e sociale.