lettura del Vangelo - Domenica 4a del Tempo Pasquale - Anno B

 

SCHEDA BIBLICA - 12

 

 

DAL VANGELO SECONDO GIOVANNI (10,11-18)

In quel tempo Gesù disse: (11) "Io sono il buon pasto re. Il buon pastore offre la vita per le pecore. (12) Il mercenario, invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; (13) egli è un mercenario e non gli importa delle pecore.(14) Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, (15) come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore. (16) E ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore.(17) Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita per poi riprenderla di nuovo. (18) Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio".

 

IL CONTESTO

Il brano continua il discorso di Gesù, Buon Pastore, insistendo in modo particolare sul perché è buono: egli dà con libertà la sua vita per compiere il comando del Padre che vuole la salvezza; cerca di riunire tutti i figli di Dio dispersi, superando la barriera del nazionalismo; si mantiene in relazione di conoscenza con i suoi discepoli (nell'immagine parabolica con le sue pecore). La conoscenza, dato caratteristico del brano, non è un semplice atto intellettuale, ma è esperienza e presenza e ha, perciò, la sua espressione nell'amore.

 

L'ESEGESI DEI TESTO

vv. 11-13: Nella letteratura dell'antico oriente "pastore" è apposizione del principe che svolge nei confronti dei suoi sudditi tutte quelle funzioni che il pastore ha verso il proprio gregge (pascolare, radunare, difendere). L'A.T. presenta il termine diretto di pastore, applicato a Jahwè, solo in pochi passi; tuttavia attribuisce di verse volte singoli tratti dell'attività del pastore all'atteggiamento di Jahwè verso il suo popolo. La più importante trattazione dell'allegoria del pastore è in Ez. 34. Nell'immagine del pastore come viene tratteggia o da Ezechiele, in primo piano si ha soprattutto la fedeltà di Dio verso il suo popolo, fedeltà fondata sull'alleanza. Solo a Jahwè viene attribuita l'attività del buon pastore, mentre i "pastori d'Israele" vengono sgridati per le loro omissioni. Su questo sfondo il termine con cui Gesù indica se stesso quale "buon pastore" per eccellenza acquista tutto il suo peso. Questa bontà del pastore viene specificata in modo particolare dalla frase seguente: l'immolazione della vita è il contrassegno predominante del "buon pastore". Il "mercenario", cioè quel pastore quasi sempre mal retribuito che pascola il gregge di un altro, è il prototipo del pastore malvagio

vv. 14-16: a questo punto viene nuovamente ripetuta la realtà della conoscenza reciproca tra pastore e gregge. La questione principale consiste nello stabilire chi potrebbe essere inteso in quel "altre pecore che non sono di questo ovile". Molto probabilmente sono dei credenti in Cristo che provengono dall'ambiente pagano. Dal sacrificio della vita del buon pastore sorge quindi l'unica nuova comunità composta da pagani ed ebrei.

vv. 17-18: si rifanno di nuovo al tema dell'offerta della vita. L'innalzamento di Gesù sulla croce rappresenta la sua glorificazione. La volontà del Padre è questa: che il Figlio, con l'offerta della sua vita, si dimostri il buon pastore, per dischiudere così agli uomini l'ingresso alla vita.

 

IL MESSAGGIO

La liturgia odierna presenta Gesù come "buon pastore" che offre spontaneamente la sua vita per le "pecore", a differenza di tutti gli altri, semplici "mercenari" che badano solo a sé.

L'immagine, proveniente da luna società rurale, forse dice poco agli uomini dell'era industriale. Nel commento a questo brano si corre poi sempre un duplice rischio: di presentare Gesù in modo idilliaco, o di limitare la sua ad una funzione semplicemente psicologica.

Quando Gesù afferma di essere il vero pastore, l'unico pastore, il suo discorso non ha niente di idilliaco: si tratta della rottura definitiva con i capi religiosi di Israele, mercenari a cui non importa delle pecore.

Ciò che viene messo in luce in questo brano è lo zelo del pastore, e non la docilità, a volte incosciente, delle pecore. Gesù non ci invita a rinunciare a noi stessi o a praticare una cieca sottomissione. Egli è il buon pastore, in opposizione a tutti coloro che si proclamano guide dei popoli, duci e capi, ma sono semplicemente attori in cerca di gloria. Cristo non è un capo che manipola le folle: propone a ciascuno l'amicizia del Padre. E non è d'accordo con noi, quando pretendiamo di fare un gregge chiuso e perfetto: lui va a cercare le pecore lontane.

Forse a noi non piace tanto essere paragonati a un gregge... Tuttavia l'immagine della pecora, sotto certi aspetti, suggerisce bene la nostra condizione: privi di qualsiasi mezzo di difesa contro il lupo rapace, e fra tutti gli esseri viventi senza dubbio il meno dotato di senso dell'orientamento.

La pecora si affida d'istinto al pastore perché la difenda e la conduca. Quando l'uomo peccatore, convertendosi, ritrova la strada dell'ovile, riscopre anche la vera libertà, nell'esperienza di amore che vive sotto la guida del vero pastore.

In definitiva, se il vangelo chiede ai cristiani il sacrificio del loro individualismo, in compenso garantisce loro lo sviluppo della loro personalità. La vocazione cristiana è infinitamente varia e diversificata: lontano dall'isolamento orgoglioso di chi pretendesse di vivere il vangelo restando separato dai fratelli in Cristo, ma anche lontano dall'anonimato passivo di chi, perdendosi nella massa, si accontentasse di un atteggiamento di inerte docilità.

La vocazione cristiana è il frutto dell'amore personale del Cristo per ciascuno di noi, semplici fedeli o pastori. Perché tutti quanto non siamo che pecore dell'unico pastore.