LA PREGHIERA DEL SIGNORE

 

Il "Padre nostro" è la preghiera per eccellenza del cristiano e, come dice Tertulliano, "è come un compendio dell'intero evangelo". Per questo, affrontarla, può far tremare! Sotto ogni versetto v'è un abisso di ricchezza e di luce; ma è pur vero, al tempo stesso, che il "Padre nostro" è una preghiera semplice e immediata, che non esige per la sua comprensione grandi commenti.

È una preghiera accessibile a tutti, fatta per tutti, anche per i non cristiani.

Questo commento è breve, senza divagazioni, collegato per l'indispensabile col resto della dottrina evangelica.

Del "Padre nostro" troviamo nei Vangeli due stesure con due premesse, una in Matteo e una in Luca.

Per quel che riguarda le premesse, Matteo 6,7 introduce così il "Pater": "Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. [...] Voi dunque pregate cosi: ...". Letteralmente sarebbe: non mormorate delle formule. I pagani attribuivano una sorta di virtù magica alla parola della preghiera, credendola quindi più efficace se veniva ripetuta per lungo tempo, velocemente, e a voce alta.

In Matteo, come si vede, il "Padre nostro" è congiunto a delle raccomandazioni sulla preghiera, nel contesto del sermone della montagna. Gli esegeti ritengono, però, che il "Padre nostro" sia stato pronunciato in altro luogo e in altra data, e sia stato inserito nel sermone della montagna insieme a varie altre raccomandazioni. Per affermare ciò si basano soprattutto sull'introduzione al "Pater" in Luca. Essa dice: "Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: "Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli"" (Lc. 11,1). Questa introduzione al "Pater" è ritenuta più esatta e l'episodio sarebbe quindi avvenuto storicamente dopo l'incontro con Marta e Maria, cioè verso la fine della vita di Gesù.

I due testi del "Pater", quello di Matteo e quello di Luca, presentano delle diversità non essenziali, ma importanti. Il testo di Matteo, per esempio, consta di sette domande; il testo di Luca di cinque. In questo manca, infatti, la terza domanda: "sia fatta la tua volontà come in cielo cosi anche in terra", e la settima: "ma liberaci dal male".

Vi sono anche altre differenze: Matteo usa "Padre nostro" e Luca semplicemente "Padre"; mentre Matteo dice: "il nostro pane [ ... ] dacci oggi", Luca afferma: "il nostro pane, dacci giorno per giorno". E ancora, mentre Matteo scrive: "rimetti a noi i nostri debiti", Luca invece: "rimetti a noi i nostri peccati". Ancora, mentre Matteo dice: "come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori", Luca invece: "giacché anche noi rimettiamo a colui che c'è debitore".

Ci si è domandati quale sia la versione più originaria: quella di Matteo o quella di Luca? I pareri sono discordi, però la gran parte degli esegeti propende per la versione matteana, anche perché è difficile pensare che Matteo abbia fatto delle aggiunte ad una preghiera cosi sacra, mentre è più concepibile che Luca abbia tolto due domande perché contenute nelle precedenti. Un altro argomento a favore di Matteo è la tradizione che, già nella Didachè, fa suo il "Pater" matteano; tradizione che sarà Poi ripresa dall'intera Chiesa.

 

Padre nostro che sei nei cieli

A) È la prima invocazione di Matteo, alla quale corrisponde in Luca la semplice invocazione: "Padre". Gli esegeti discutono se sia più originaria l'invocazione com'è riportata da Luca o quella di Matteo. I più sono concordi nell'affermare che la preghiera di Matteo e quella di Luca hanno un fondo comune al quale ambedue hanno attinto, dandone un'enunciazione diversa ma, come vedremo, dello stesso significato.

Il nome di Padre, per designare Dio, era noto ai pagani, che lo usavano per indicare il rapporto di Dio con tutti gli uomini e con il creato. Anche gli Ebrei nell'Antico Testamento usano il nome di Padre 14 volte per designare Dio soprattutto come Padre d'Israele; ma nel tempo successivo all'esilio si va compiendo lentamente l'individualizzazione di questo concetto, per cui anche il singolo è figlio di Dio. Rimane, però, nella concezione ebraica un fondo nazionalista, che non troviamo nell'espressione di Gesù .

I testi del Pater noster che abbiamo sono in lingua greca, mentre Gesù , come sappiamo, ha parlato in aramaico, sua lingua materna; possiamo con sicurezza affermare che egli ha usato la parola "Abbà".

Troviamo questa parola, infatti, nella preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi (Mc. 14,36): "Abbà, Padre! Tutto e possibile a te". La ritroviamo ancora in due lettere di Paolo: Gal. 4,6 e Rom. 8,15.

Ora, l'uso di questa parola nelle primitive comunità cristiane era determinato senza dubbio dall'uso che -ne aveva fatto Gesù , altrimenti non si spiegherebbe.

Quest'invocazione esprimeva il modo familiare con cui i fanciulli ebrei si rivolgevano al loro babbo; si potrebbe tradurre con "caro papà".

È un'innovazione incredibile. Gli Ebrei, per designare Dio Padre usavano la parola "Ab", più solenne, oppure "Abí", Padre mio, o più comunemente "Abinú", Padre nostro.

Con "Abbà" siamo lontani non solo dal Dio Padre dei pagani ma anche dal Dio Padre del Vecchio Testamento!

"Abbà" poteva significare sia Padre mio sia Padre nostro. Come Preghiera di gruppo la formula "Padre nostro" non è sbagliata e le ripetizioni di "noi" e di "nostro" nelle tre domande del "Pater" insinuano quest'interpretazione. La versione di Matteo, perciò, dove è esplicitamente detto "Padre nostro", non solo non è errata, ma esplicita quello che in Luca era contenuto nella semplice parola "Padre".

Ma se Gesù dice Padre Dio, dice di Dio che è Padre. Ciò non significa che tutti gli uomini siano già suoi figli. Non per nulla nell'intera tradizione sinottica, di fronte a molti passi in cui Dio è detto Padre, ve ne sono soltanto due nei quali gli uomini sono detti figli di Dio: "Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio" (Mt. 5,9); "... e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio" (Lc. 26,30). Questi due passi hanno entrambi un significato escatologico. Il rapporto filiale con Dio non appartiene alla natura dell'uomo in quanto egli è creatura, ma è una promessa escatologica, vale solo per gli scelti, per gli eletti. Ne deriva che "Padre" non è un concetto di rapporto con la creazione, che implichi dei figli, ma è una designazione di Dio in quanto tale. Soltanto Gesù è il Figlio in senso proprio.

B) In Luca, come si è visto, l'invocazione è semplice: "Padre", che abbiamo tradotto con "caro papà". Non bisogna però pensare ad una paternità divina tutta condiscendenza, pronta solo a compatire e piena di debolezza. Non bisogna dimenticare, com'è stato fatto osservare, che Gesù si riferisce al padre della famiglia patriarcale ebraica, nella quale egli era anche il padrone. La paterna bontà di Dio è perciò arricchita dalla sua signoria, dalla sua maestà; altrimenti sarebbe impossibile comprendere le invocazioni subito seguenti: "sia santificato il tuo nome", "venga il tuo regno".

Dio è un Padre che regna. Per questo si sente parlare, nel Vangelo, molte volte del regno del Padre: "Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del padre loro. Chi ha orecchi intenda!" (Mt. 13,43).

In Matteo, il "nostro" che accompagna la parola "Padre", oltre che esplicitare la preghiera in comune, distingue i figli dal Figlio.

Matteo aggiunge ancora, rispetto a Luca: "che sei nei cieli". È un'espressione tipicamente ebraica, e perciò si pensa che non derivi dalla bocca di Gesù ma sia un'aggiunta proveniente dalle comunità palestinesi, la cui tradizione viene mantenuta da Matteo. Ma Gesù non avrebbe potuto usare parole del linguaggio comune?

I Padri si sono presi cura di mostrare che se Dio non è rinchiuso nel cielo, com'era noto anche a tutti gli israeliti, quest'espressione, però, è utile all'immaginazione dei semplici. In realtà essa segna un grande progresso nel pensiero religioso: nominare il Dio "del cielo" significò distinguerlo da tutto da che è umano e mondano. Significò affermarne la trascendenza, riconoscere il suo ambiente regale.

Per sant'Agostino, "nei cieli" significa "nei santi".

Per tutti noi, è un innalzare lo sguardo verso l'infinito.

Questo Padre diventa così re, signore e giudice dell'uomo; spartisce i posti d'onore alla destra e alla sinistra del Messia (cf. Mc. 10, 40). Come giudice, condanna ogni parola inutile, e gli uomini saranno tenuti a renderne conto nell'ultimo giorno, quello del giudizio (cf. Mt. 12, 36). Sappiamo però che Dio non giudica le azioni esteriori ma l'intimo dell'uomo: "Egli disse: "Voi vi ritenete giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio"" (Lc. 16, 15).

C) Per avere una luce piena sulla parola "Padre", occorre ricordare che è Gesù il Figlio del Padre, che egli chiamò "Padre mio" (cf. Mt. 11,27;12,50; Lc. 2, 49). In tal modo Gesù distingue se stesso da tutti gli altri, ivi compresi i discepoli.

È da ricordare, ancora, che tutte le preghiere di Gesù , ad eccezione di quando Egli ripete il Salmo 22: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?", contengono l'invocazione al Padre (cf. Lc. 10, 21; Mc. 14, 36; Mt. 26, 39).

Questa divina filiazione viene da Gesù partecipata ai - discepoli, anche se non sarà identica: "Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare" (Mt. 11, 27). Per questo il Padre avrà una particolare provvidenza per essi (cf. Mt. 6, 32; 10, 29-30).

È di questa "filialità" che parla il "Padre nostro"! È una sintesi di tutto il Vangelo e nello stesso tempo getta luce su tutto il Vangelo: esso è talmente permeato della paternità di Dio che il nome "Padre" vi ricorre 177 volte, e sempre sulle labbra di Gesù .

 

Sia santificato il tuo nome

Faremo due considerazioni fondamentali, la prima riguardo alla forma, la seconda al contenuto.

A) Riguardo alla forma, c'è da domandarsi se questa preghiera di desiderio sia legata a quanto segue: "venga il tuo regno", come potrebbe sembrare ad una prima impressione. Infatti, ambedue le frasi hanno il verbo anteposto, non impiegano una diretta allocuzione a Dio, non sono unite con la congiunzione "e", ed hanno in comune l'aggettivo "tuo".

Luca, tuttavia, anziché legare "sia santificato il tuo nome" a "venga il tuo regno", lo unisce a "Padre": "Padre sia santificato il tuo nome".

La diversità delle due redazioni dà un senso diverso alla frase. Nell'ipotesi matteana, questa prima domanda sarebbe una richiesta accanto alle altre; nell'esposizione lucana, invece, si avrebbe una domanda a sé stante, che precede tutta la preghiera di Gesù e la riassume. È come un'aspirazione che include tutto non un desiderio espresso accanto agli altri!

Preferiamo lasciarla nella sua importante funzione di apertura e di anima di tutto il "Padre nostro".

Ancora riguardo alla forma, c'è da notare una differenza fra le comuni preghiere degli ebrei del tempo di Gesù e questa invocazione. Le preghiere degli ebrei iniziavano generalmente con una lode a Dio, prima che fossero poste delle domande. Anche una delle preghiere di Gesù è una preghiera di lode: "In quel tempo Gesù disse: "Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, poiché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli"" (Mt. 11, 25). Nel caso del "Padre nostro", invece, la lode è implicita. Chi prega, lascia a Dio stesso il compito di manifestare la sua gloria, rimettendo tutto nelle mani di Lui.

È normale d'altronde che, dopo l'invocazione al Padre, "caro papà", si trovi una domanda senza che vengano pronunciati inni di lode! Abbiamo visto, d'altronde, come tutte le preghiere di Gesù hanno la parola "Padre": forse è per questo che quasi tutte le preghiere di Gesù sono preghiere di domanda.

È da osservare, però, che con "sia santificato il tuo nome" Gesù non chiede, in senso stretto, ma esprime un voto, un desiderio, ben sapendo di essere esaudito in anticipo. Egli dice così la sua gioia nel testimoniare che Dio sta per essere santificato da Dio stesso.

B) Riguardo al contenuto, c'è da osservare subito che Dio non può essere reso più santo. Si può santificare il suo nome solo riconoscendo la sua santità.

Nel Vecchio Testamento con "santità" si afferma l'attributo assoluto e inaccessibile proprio di Dio, per il quale Egli è temibile per quelli che lo affrontano, a meno che Egli stesso non li ammetta alla sua familiarità (cf. Lev. 29, 23). Tuttavia in Ez. 36, 21-23 troviamo già una modificazione dell'antico concetto di santità: essa diventa la perfezione m orale assoluta, e quelli che Dio santifica sono resi perfetti nell'ordine morale. Quando Dio ha esercitato questa azione purificatrice sui suoi, essi lo santificano, riconoscono cioè la sua santità, irradiano la sua santità.

È in questo secondo senso che bisogna interpretare "sia santificato il tuo nome". Anche nel "Padre nostro" la santità di Dio ha perciò una relazione profonda con la santità degli uomini.

In questo senso il desiderio espresso al Padre è escatologico, perché ormai la sua azione è intesa come opera di santificazione nella quale sono coinvolti tutti i cristiani.

Riguardo al "Nome", esso significa, nel linguaggio biblico, Dio stesso. Era un modo per parlare alla divinità senza nominarla. Zaccaria ci dà un esempio di come sono intercambiabili Dio e il suo nome: "Il Signore sarà re di tutta la terra e ci sarà il Signore soltanto, e soltanto il suo nome" (Zac. 14, 9).

I Padri hanno compreso queste parole come una vera preghiera che, pur ritornando a nostro interesse, è una glorificazione disinteressata di Dio, e viene da puro amore. Si può infatti desiderare l'irradiazione della santità di Dio per se stessa, senza pensare ai benefici che se ne ricaveranno.

 

Venga il tuo regno

Anche i buoni Giudei chiedevano l'avvento imminente della signoria di Dio. Ma nella preghiera giudaica era sempre implicito il pensiero dell'esaltazione d'Israele e del suo riscatto dagli avversari politici.

Questa limitazione nazionalista è totalmente superata da Gesù .

È difficile comprendere esattamente il significato di questa domanda, poiché Gesù , del regno, ci dice che "è giunto vicino" (Mc. 1,15: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo"). Così pure, quando invia gli apostoli, nella prima missione, darà il comando di annunciare la venuta del regno (Mt. 10, 7: "E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino"). Lo stesso farà con i 72 discepoli (cf. Lc. 10, 11).

Ma Gesù non ha mai detto esattamente cosa sia il regno. Occorre perciò fare un'analisi accurata dei Vangeli per comprendere meglio la domanda di Gesù nel "Padre nostro".

A) Pregare perché venga il suo regno, è domandare che Dio sia santificato, che riempia l'universo colla sua gloria. È lo stesso teocentrismo che troviamo nell'aspirazione iniziale. Si vuole che Dio assuma la regalità, che sia "tutto in tutti" (1 Cor. 15,28: "E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti"). Ma per realizzare questo disegno occorre cacciar via il demonio da questo mondo (cf. Lc. 11,20; Gv. 12,31); occorre che Gesù incateni il forte (Mc. 3,27: "Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire le sue cose se prima non avrà legato quell'uomo forte; allora ne saccheggerà la casa"). Per ora il dominio di Satana si contrappone alla piena realizzazione del regno di Dio. Solo al giudizio finale la vittoria sarà completa. Il regno di Dio, quindi, non potrà essere realizzato pienamente nel tempo storico. È per questo che nessun ordine sociale sulla terra potrà dirsi regno di Dio; e neppure la Chiesa può coincidere del tutto con il regno di Dio: essa è il popolo di Dio, il nuovo Israele che deve ereditare il regno, è l'assemblea di coloro ai quali il Regno è stato donato (cf. Lc. 12,32); è la comunità di Gesù, il luogo in cui si dischiude l'accesso al regno (cf. Mt. 16,19): ma non può essere identificata con il regno nella sua pienezza, quale si avrà solo alla fine dei tempi.

B) Il regno di Dio non è solo da intendersi in senso attivo, come signoria del re, ma anche in senso passivo, come "reame" di Dio. È logico, infatti, che se esiste una signoria di Dio sugli uomini, questi vengono per ciò stesso a costituire come un "ambiente" nel quale, giusti, risplenderanno (cf. Mt. 13,43), e saranno come gli angeli del cielo. Questo ambiente, pur essendo nel mondo, non è di questo mondo (cf. Gv. 18,36).

Quando il regno di Dio scende sulla terra, inizia una nuova terra. Gli uomini vi saranno beati (cf. Mt. 8,11); ma si può anche esserne gettati fuori, se indegni (cf. Mt. 8,12).

Il regno di Dio significa, perciò, da una parte sovranità di Dio, dall'altra "ambiente" di Dio e, infine, beatitudine per gli uomini.

Ma la preghiera a Dio insegnata da Gesù è soprattutto dominata dalla preoccupazione teocentrica. Gesù ha voluto insegnarci, nel formulare questa domanda, a tenere lo sguardo totalmente fisso a Dio.

C) Il regno di Dio è l'avvenire. Ma ciò che vi è di nuovo nell'insegnamento di Gesù è che questo futuro è anche passato e presente. La nostra richiesta sta nel centro di questa realtà, tra la fine dei tempi non ancora realizzata e il tempo nuovo già iniziato.

Si può dire che il regno di Dio è presente perché Gesù è presente, egli è la pienezza del tempo (cf. Mc. 1,15). Con la presenza di Gesù ha inizio il banchetto nuziale della salvezza (cf. Mc. 2,19).

Ci si potrebbe domandare se con l'invocazione "venga il tuo regno" si esprima il desiderio di vedere realizzarsi parzialmente, nel tempo, il regno di Dio, con gradualità. Gli esegeti sono d'accordo nel dire che non è così; sia dalla forma grammaticale del verbo, sia dal contesto, per regno di Dio si deve intendere il tutto. E infatti, essendo Dio solo l'unico oggetto di questa aspirazione, di Dio non si può chiedere nella preghiera una realizzazione parziale!

D) Ma chi potrà rivolgere una simile preghiera al Padre, poiché è del Padre il regno? Chi potrà domandare l'attuazione dell'escaton, del compimento totale di tutto, se non coloro che cercano solo il regno di Dio? Questa domanda diventa per ciò stesso un'esigenza di vita in chi la formula; solo chi ha il cuore puro e ardente potrà dire: "Venga il tuo regno!".

 

Sia fatta la tua volontà, come in cielo cosi in terra

Osserviamo anzitutto che solo Matteo riporta questa domanda. In Luca, la venuta del regno rimane la domanda per eccellenza.

Ci si è chiesti perché Luca omette questa frase: forse perché essa non è altro che una spiegazione della precedente? D'altra parte, come alcuni osservano, Luca si sarebbe permesso di sopprimere una parte del "Padre nostro"? Per questo motivo, alcuni esegeti hanno ritenuto che questa breve domanda sarebbe stata pronunziata da Gesù in altre circostanze, ed inserita da Matteo nell'orazione domenicale, quale giusto commento alle due prime invocazioni.

Nelle lingue semitiche la parola "volontà" ha un significato diverso dal nostro usuale. Mentre per noi la volontà è soprattutto la facoltà, propria dell'uomo, di tendere con decisione e piena autonomia alla realizzazione dei fini determinati, ai tempi di Gesù , nella sua lingua, la parola "volontà di Dio" indicava Il suo "beneplacito", ciò che è stabilito da Dio da sempre e nella cui attuazione Egli trova il suo godimento. Questa volontà di Dio è duplice: a) è la realizzazione del piano di salvezza; b) è la volontà imperativa di Dio sulle potenze del cielo e sugli uomini.

A) È anzitutto in cielo che si realizza la volontà di Dio: il cielo è il modello della terra. Per questo motivo si crea un intimo legame tra le domande precedenti e questa, acquistando essa cosi un senso escatologico. Quando inizierà il regno di Dio, vorrà dire che anche la sua volontà sarà fatta in tutto il mondo e sarà compiuta così come viene compiuta fin d'ora in cielo (cf. Sal. 103,21).

B) Come volontà imperativa, la volontà di Dio riguarda sia il demonio, che lotta contro Dio su questa terra (cf. Gv. 12,31), sia gli uomini che debbono compiere la volontà di Dio come fanno gli angeli in cielo.

La volontà di Dio non è manifestata solo dai precetti e dai comandamenti della legge mosaica, quanto da una conversione e dall'ascolto, nella fede, delle parole del Maestro Gesù . Pubblicani e peccatori o hanno capito e costuiscono così la famiglia di Gesù (Mc. 3,35: "Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre"). È l'inizio della comunità di salvezza della fine dei tempi.

La domanda che sia compiuta la volontà di Dio non dev'essere vista come una richiesta di grazie, ma una partecipazione umile al glorioso inno alla volontà di Dio che si celebra nell'universo. Essa abbraccia perciò cielo e terra, che perdono in certo modo la loro distinzione per diventare il luogo dove si compie la volontà di Dio - già perfettamente in cielo, in germe sulla terra.

Anche qui si affaccia la domanda: chi può pregare cosi? Solo il discepolo formato dalla predicazione di Gesù e spinto dallo Spirito; solo il discepolo che ha cambiato mente, si è convertito, e fa parte della nuova famiglia degli ultimi tempi.

 

Il pane nostro quotidiano dai a noi oggi

Dopo le invocazioni che riguardano Dio direttamente, si apre la serie delle domande che riguardano l'uomo. Al Tu infinito si sostituisce il noi umile e finito.

A) La prima domanda, già nella sua costruzione, sottolinea il desiderio del pane. Infatti, la parola "pane" è posta all'inizio della frase. Dobbiamo pregare per avere il pane.

Il termine "pane", anche se nella lingua di Gesù, come nelle lingue moderne, può significare il cibo in genere, significa qui, ci sembra, il cibo fondamentale, quello dei poveri, quello essenziale. Ci si illumina cosi, già fin dalla prima parola, come bisogna pregare, che cosa bisogna domandare: il necessario per la sussistenza.

Alcuni, rifiutando una domanda che apparirebbe profana dopo le sublimi aspirazioni della prima parte del "Padre nostro", hanno dato un significato metaforico alla parola "pane": esso significherebbe l'Eucaristia o il banchetto celeste della fine dei tempi. Stando però all'esegesi più aderente al testo, per pane, come s'è detto, si deve intendere il pane di farina o, addirittura, di farina di orzo che, per i poveri, era allora l'unico alimento.

A "pane" segue "nostro". "Nostro" è il pane che ci è sufficiente per vivere, dal quale dipende la nostra vita. E anche questa parola "nostro" si oppone ad un'interpretazione simbolica del termine "pane".

Viene poi "quotidiano". Qui c'è una differenza nelle traduzioni. Quotidiano (epioúsios) è stato preso dalla traduzione che la Volgata ha fatto del "Padre nostro" secondo Luca. Questa parola in Matteo, è tradotta dalla Volgata con "supersostanziale". Secondo il Vangelo detto degli Ebrei, si dovrebbe tradurre con "il pane di domani". La difficoltà è che epioúsios è un termine sconosciuto, che non si trova nella letteratura greca conservataci. Solo un frammento di papiro del sesto secolo lo riporta con un significato poco chiaro; dal contesto potrebbe significare: "necessario alla nostra sussistenza".

La traduzione esatta della domanda dovrebbe perciò essere questa: "Il pane nostro che ci è necessario da' a noi oggi".

Ma anche usando la parola "quotidiano", il significato sostanzialmente non cambia, giacché con essa chiediamo il cibo indispensabile, necessario per oggi.

Segue poi l'avverbio "oggi", alla fine della frase. Esso ci illumina anche sul termine precedente: esclude infatti che possa significare "quotidiano" in un senso stretto, poiché sarebbe una ripetizione; esclude ancora l'interpretazione del Vangelo detto degli Ebrei, poiché non si può chiedere il pane oggi per domani.

Gesù ci insegna ancora una volta a chiedere il necessario, il pane per il giorno presente.

Nessuna parola è superflua. E la frase ci rimanda alle parole di Gesù in Mt. 6, 34: "Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena". Il tempo che conta è il presente, perché, con la venuta di Gesù esso è diventato eterno, è tempo nuovo, è inizio del compimento finale. Per questo la dimensione umana del futuro non ha più un vero significato. È l'oggi che conta, non solo nella vita spirituale ma anche nella vita del corpo.

L'insegnamento diviene così profondissimo, e vi si ritrova il senso escatologico che permea tutto il Vangelo.

B) Ma a chi Gesù rivolge l'insegnamento di pregare così? Si potrebbe pensare, a prima vista, alle classi più umili del suo tempo, gli schiavi e i salariati. Ma sia gli schiavi che i salariati ricevevano il necessario durante il loro lavoro. Solo i mendicanti potevano formulare per sé stessi questa preghiera, solo coloro, cioè, che privi di lavoro vivono della provvidenza, coloro cioè che sono costretti alla povertà o la hanno scelta liberamente come appunto è dei discepoli.

Ci si illumina qui, con uno sprazzo di luce, qual era la vera vita di Gesù e dei suoi discepoli da un punto di vista materiale: erano abbandonati alla giornata, alla provvidenza: predicavano tutto il giorno e tutti i giorni, senza preoccuparsi del denaro, e chiedendo al Padre non l'abbondanza ma l'umile pane dei poveri. Del resto Gesù l'aveva già detto (Lc. 12, 22 e 31: "Poi disse ai discepoli: "Per questo io vi dico: Non datevi pensiero per la vostra vita, di quello che mangerete; né per il vostro corpo, come lo vestirete"... "Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma"").

La domanda del "Padre nostro", a questo punto, si inserisce nel piano salvifico di Dio, ed è tutt'altro che una domanda profana.

Il messaggio evangelico, però, non era rivolto solo ai discepoli; per questo, in un senso più ampio, le parole di questa preghiera valgono anche per coloro che ai tempi di Gesù non avevano potuto abbandonare casa e campi: anche per costoro valgono le parole del "Padre nostro", se essi vivranno tesi verso il regno di Dio, se a ogni cosa premetteranno il regno dei cieli. Ciò potrà portarli a volte ad abbandonare una professione remunerativa, ma non cristiana.

La redazione lucana del testo è un po' diversa. Egli ci ha trasmesso, infatti, la domanda per il pane adattata alla situazione di tutti i cristiani. In questa versione si domanda a Dio di dare il pane necessario non soltanto "oggi" ma "giorno per giorno".

 

E rimetti a noi i nostri debiti

Luca invece che "debiti" usa il termine, più chiaro ai lettori greci, di "peccati": "rimetti a noi i nostri peccati".

Bisogna però ritenere che Matteo. usando la parola "debiti", ha conservato il testo primitivo. Infatti, subito dopo, Luca stesso parla di debito. Dice infatti: "giacché anche noi rimettiamo a colui che ci è debitore".

V'è d'altronde tutta una serie di immagini nel Vangelo, nelle quali si parla di debiti e di debitori per rappresentare il rapporto dell'uomo con Dio. Per es., Mt. 18,23-27: "A questo proposito il regno dei cieli è simile a un re che vuole fare i conti con i suoi servi. Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. Impietositosi del servo. il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito". E ancora Lc. 7,41-42: "Un creditore aveva due debitori: l'uno gli doveva cinquecento denari, l'altro cinquanta., Non avendo essi da restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi dunque di loro lo amerà di più?".

Questi esempi ci mostrano l'incolmabile divario fra le esigenze di Dio e le nostre azioni. Gesù scorge la nostra colpevolezza non soltanto nella trasgressione della legge, come era per i Farisei, ma soprattutto nella mancanza dell'esigenza nuova che egli porta: l'amore. Esso è l'anima della morale di Gesù , sulla quale si verrà giudicati! Il debito nostro può diventare enorme: possiamo mancare alla nuova legge non solo quando ne trasgrediamo i precetti ma anche quando omettiamo il bene!

Per questo, la parola "debito" è particolarmente adatta all'etica cristiana.

Ma la richiesta formulata potrà essere adempiuta se i discepoli che pregano il Padre si sentiranno colpevoli; e questo non per stare nella colpa, bensì per fare penitenza e convertirci, non dando solo una soddisfazione giuridica, come indicherebbe il termine latino "poenitentia" e nemmeno con un semplice cambiamento di pensiero, come indica il termine greco "metanoia": si esige una "trasformazione totale", una "conversione" a Cristo.

Di fronte alle esigenze di Dio, però, l'uomo rimane un "servo inutile" (Lc. 17,10). L'unica salvezza si trova nella misericordia di Dio. Per non essere come il Fariseo che diceva: "Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di quanto possiedo", non si fa mai abbastanza.

L'atteggiamento col quale dobbiamo recitare il "Padre nostro" è quello del pubblicano: "0 Dio, sii misericordioso verso di me peccatore!".

Infine, la remissione di quali peccati chiediamo? quella dei peccati quotidiani? Intesa in senso stretto, questa interpretazione contraddice la prospettiva escatologica che troviamo nel "Padre nostro". Il perdono dei peccati che viene domandato ha soprattutto il carattere della richiesta dell'avvento del regno di Dio e della santificazione del suo nome: è un avvenimento escatologico che si produrrà il giorno del giudizio universale. Ciò non toglie che in questa luce noi possiamo chiedere il perdono dei peccati di ogni giorno.

 

Come noi li rimettiamo ai nostri debitori

La traduzione esatta sarebbe: "come anche noi abbiamo rimesso ai nostri debitori".

Si nota subito un "come" che potrebbe indicare una comparazione; ma certamente Gesù non vuole indicare la misura con la quale si chiede di perdonare; la colpa propria è immensamente più grande.

Né il "come" indica il motivo, nel senso che il nostro atto di perdono possa rappresentare un diritto ad avere il perdono delle nostre colpe da parte di Dio.

Rimangono altre due interpretazioni: o il "come" esprimerebbe la condizione richiesta da Dio perché Egli ci perdoni o verrebbe significato che il perdono che noi accordiamo è una

conseguenza del perdono ricevuto, facendo seguito, così, a quello di Dio.

Il testo del "Padre nostro" da sé non basta a dirci qual è il senso giusto. Dobbiamo ricorrere allora al contesto del Vangelo. Troviamo in Mt. 18,23-35 che, a chi non ha condonato il credito di cento denari non verrà annullato il debito di diecimila talenti (una cifra enorme equivalente, oggi, a parecchi miliardi).

Troviamo ancora che quanti si ergono a giudici saranno giudicati dal tribunale di Dio (cf. Lc. 6,37). Chi rimette agli uomini le loro mancanze, avrà perdonate anche le proprie (cf. Mc. 11,25).

Possiamo cosi giungere a una prima conclusione su questo punto: il perdono di Dio è legato a certe condizioni che, in modo particolare sono il perdono del fratello e le opere dettate dall'amore. Non si tratta, infatti, nel testo di Mc. 11,25, di un nostro debito verso il fratello, ma di un debito del fratello verso di noi. Dobbiamo correre a perdonarlo, se vogliamo essere come Dio Padre, che fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti.

Non sarebbe però completa l'analisi del "come" se si volesse limitare il senso della parola al solo dirci la condizione per ottenere il perdono. Essa ci indica anche che dobbiamo perdonare come siamo già stati perdonati. La stessa parabola dei diecimila talenti (cf. Mt. 18,23-35) ci dice come dovrebbe essere facile condonare i cento denari. Vi è poi anche la parabola del grande e del piccolo debitore, che insegna come il perdono ottenuto suscita

molto amore. Lo stesso vale per la narrazione della peccatrice che unge i piedi del Signore, e dell'esuberante disponibilità di Zaccheo.

Troviamo cosi che il "come" del "Padre nostro", mentre esclude ogni condizionamento di Dio da parte dell'uomo, ci indica la condizione del perdono e la motivazione di esso. È perché ci è stato perdonato che possiamo perdonare agli altri, e per il fatto che perdoniamo ci è permesso di domandare il perdono definitivo.

 

Non ci indurre in tentazione

In senso generico la tentazione è il segno della debolezza umana. Essa può provenire dall'esterno e dall'interno dell'uomo, fino a comprometterne la stabilità spirituale.

La parola non ha un senso univoco, le sofferenze, le contraddizioni della vita possono essere considerate tentazioni , cioè pericoli che l'uomo si distanzi da Cristo; cosi pure si dica delle seduzioni diaboliche.

Nella Bibbia si conoscono due tipi di tentazioni: le tentazioni-prova e le tentazioni-insidia. La tentazione del Paradiso terrestre era una prova, come pure la scelta proposta ad Abramo. Ma c'è anche la tentazioni-insidia: la Bibbia conosce come tentatore per eccellenza Satana. La sua azione si ritrova dalle prime pagine del Genesi alle ultime dell'Apocalisse. La vita pubblica di Gesù inizia con la triplice vittoria su Satana (cf. Mt. 4,10-11); Luca osserva che. dopo la sua comparsa nel deserto, Satana si allontanò da Gesù per un certo tempo (Lc. 4,13: "Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato"). L'ora fissata giunse e, con essa, la potenza delle tenebre (cf. Lc. 22,53), allorché Satana entrò in Giuda. È in quell'ora che Satana ha ricercato i discepoli per vagliarli come il grano (cf. Lc. 22,31). L'Apocalisse, poi, è piena della presenza di Satana che lotta con il Bene.

La tentazione, però, non viene solo da Satana: "ognuno è tentato dalla propria concupiscenza" (Giac. 1,14).

Se vogliamo intendere, poi, che cosa significhi il "non ci indurre...", bisogna aver presente che a fondamento della domanda c'è una rappresentazione di luogo. Dio viene pregato di non condurci nel luogo della tentazione. Dio infatti non induce al peccato, conduce soltanto davanti ad esso.

La preghiera del "Padre nostro" corrisponde perciò perfettamente alle parole di Giac. 1,13: "Nessuno, quando è tentato, dica: "Sono tentato da Dio"; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male".

Varie possono essere le tentazioni, ma qui sembra si tratti di una tentazione precisa, la stessa che provò Gesù nel deserto: la tentazione di rinunciare a Dio, di riconoscere il dominio di Satana invece che quello di Dio. Questa interpretazione della tentazione del "Padre nostro" si ricava da tutta la preghiera domenicale, tutta centrata sulla santificazione del nome di Dio e la venuta del suo regno. Abbiamo ancora, dunque, un contesto escatologico; ciò che Gesù ci fa domandare è d'essere perseveranti per la grande tribolazione degli ultimi tempi che, ricordiamo, sono già iniziati con la venuta di Gesù .

 

Ma liberaci dal male

Coloro che articolano il "Padre nostro" in sette domande, pensano che l'oggetto di quest'ultima sia più ampio della precedente: Più che della tentazione della sesta domanda, intesa come male, si tratterebbe qui della malvagità stessa.

Altri, con san Cipriano, non vedono una domanda distinta ma un riassunto, un condensato delle altre.

Il termine usato è "ponerós", ed indica il male in senso generico, sia fisico che morale. Qui, però, si deve intendere il male soprattutto morale, il peccato.

Di per sé non si andrebbe contro lo spirito di Gesù se si chiedesse di essere liberati da questo o quel male terreno, tanto più che nelle parabole, nelle immagini che Gesù ha usato nel Vangelo) egli ci ha incoraggiato a formulare siffatte domande. Non è da intendere però che si chieda nel "Padre nostro" la liberazione da ogni disgrazia terrena. Esse fanno parte della vita del discepolo, il quale deve essere pronto a sopportare gli insulti e le calunnie e addirittura la croce.

Ma l'evangelista Matteo è stato ancor più esplicito, premettendo l'articolo tou, genitivo, a poneróu, lasciando così supporre che il male di cui si parla sia il Maligno.

I Padri greci, in genere, vi hanno scorto un individuo, un essere personale, preminentemente il demonio, ma senza escludere gli empi, i malvagi e i cattivi che agiscono sotto la sua influenza.

Di per sé poneróu si potrebbe intendere, con la Volgata, anche come neutro - il male. Entrambe le traduzioni sono possibili. Tuttavia il confronto, per esempio, con Mt. 13,19: "Tutte le volte che uno ascolta la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada", suggerisce l'interpretazione personale, come fa la maggior parte degli esegeti moderni.

Anche la parola "liberaci" può far pensare al Maligno. Infatti la traduzione esatta è "strappaci via". Viene spontaneamente da pensare al male come a una entità personale, una potenza personificata.

Può venire da chiedersi perché una preghiera così sublime si chiuda col nominare il male per eccellenza, se non addirittura il Maligno. Ciò si può spiegare col clima escatologico, che abbiamo visto permeare tutte o quasi tutte le domande. La lotta tra la Luce e le tenebre, ai tempi di Gesù e nella primitiva comunità cristiana, non era sbiadita come adesso. Niente di più logico, quindi, che trovasse il suo rilievo anche nella preghiera per eccellenza del Signore.

Come conclusione, vorrei riportare quanto ha scritto Heinz Schúrmann: "L'Orazione domenicale forma cosi un vero circolo: alla fine, essa sembra voler ricominciare dal suo punto di partenza: "Padre, venga il tuo regno!". L'ultimo grido di aiuto si leva dalla situazione di tentazione degli ultimi tempi; ma è precisamente in questa situazione, che noi impariamo ad invocare la venuta del regno. Solo colui che ha pronunciato con tutta la sua anima l'ultima domanda, può cominciare la preghiera e formulare sinceramente la sua prima, grande aspirazione. A dire il vero, a quest'ultimo appello di soccorso non può seguire nient'altro che il voto reiterato e ancor più ardente della venuta del regno che "abbrevierà" i giorni e metterà fine ad ogni pericolo (cf. Mt. 13,19s.). La preghiera del Signore è una preghiera circolare, perpetua, il cui finale richiede subito un nuovo cominciamento [ ... ]. Come tutte le parole di Gesù , anche questa preghiera non passerà (cf. Mc. 13, 31). Essa risuonerà fino al giorno in cui sarà riassorbita nella presenza del regno di Dio. Allora tutte le domande cesseranno la loro funzione, e il suo unico ed ultimo desiderio sarà esaudito. Rimarrà soltanto, in tutta la sua semplicità, l'inizio della preghiera, che per altro ne è sempre stato, segretamente, l'anima nascosta: "Padre, sia santificato il tuo nome!""

Pasquale Foresi