LA VENUTA DI GESÙ E LA MALATTIA

Se per Gesù Eucarestia si sono costruite in tutti i secoli meravigliose cattedrali, che hanno sfidato il tempo, per Dio, che vive nella nostra anima, dobbiamo curare il corpo come tempio suo.

Una cattedrale che ha per architetto Dio che l’ha plasmato

San Gregorio di Nazianzo era affascinato da questo mistero che l’univa al suo corpo: "L’amo come un compagno. Lo rispetto come un coerede, noi che siamo eredi della luce e dell’amore. Compagno di pena del quale ho cura, l’amo come un fratello per rispetto di Colui che ci ha riuniti" (da Daniel Ange Il tuo corpo creato per amare pg. 9)

S. Bernardo: "Lo preparo con una cura piena di affetto. L’amo e amo Dio con esso".

Il nostro corpo tende ad essere la nostra autobiografia (Antony Burgess)

Il corpo umano è come uno strumento musicale: se ne può ricavare qualsiasi nota (Gandhi)

Il gruppo promotore ha programmato per questa mattinata, seguendo una delle segnalazioni più insistenti, una linea di riflessione che prenda a cuore la situazione dell’uomo di fronte alla malattia.

La malattia ha generato angoscia agli uomini di tutti i tempi ed ha suscitato energie e ricerche terapeutiche di ogni tipo. Determina anche interrogativi circa il senso della vita.

Non è raro d’altronde trovare persone ammalate che sono più "sane" di altre che godono di efficienza fisica e scoprire tra i colpiti dal male irradiazioni di vita e di speranza.

Il nostro è un tentativo di introdursi in questo ambito

Innanzitutto occorre non rimuovere un problema che è connaturale nel percorso umano. Scrive Pascal: "Gli uomini, non avendo potuto guarire ogni malattia, hanno creduto meglio, per essere felici, di non pensarci". Nella tecnopoli moderna il sistema tenta di sopprimere certi interrogativi in quanto essi turberebbero il circuito: consumare – produrre – consumare o porterebbero scompiglio nel "goditi oggi". Non sono risolutrici la paura e la fuga davanti alle domande scomode: esse sono indispensabili per la maturità della persona.

E’ importante tenere conto che la sofferenza c’è e che essa è parte essenziale dell’identità dell’uomo su questa terra.

Saint-Exupery, autore de "Il piccolo principe", ha una immagine particolarmente suggestiva: "Vogliamo essere liberati. Colui che dà il colpo di piccone vuol sapere che il suo colpo di piccone ha un senso. E il colpo di piccone dell’ergastolano, non è affatto lo stesso del colpo di piccone del cercatore d’oro. L’ergastolo non sta dove si danno colpi di piccone: dove è fatica. L’ergastolo sta dove si danno colpi di piccone che non hanno alcun senso. E noi volgiamo evadere dall’ergastolo"

Così come è importante avere presente che dentro la parola "malattia" non c’è solo la parte che duole ("il malato non è un fegato"): si patisce il limite della libertà, si può sentire una certa svalutazione come persona perché non più efficiente, può intristire l’essere di peso ad altri, fa star male il dover dipendere, non si sa come superare stati di ansia e di timore, si stenta a trovare la persona in cui riporre fiducia e confidenza, si soffre ad essere privati di occupazioni importanti e della ricerca dei propri interessi…… Il dolore ha infinite sfumature. La sofferenza è sempre quella di oggi: il dolore non è monotono. Ciascuno ha il suo dolore. Ogni dolore, come ogni uomo, è irripetibile.

Di tutto questo è arduo trovare un senso. Certamente bisogna alleviare la sofferenza ed il male con tutte le energie di cui si dispone, ma è fondamentale capire e rispettare compiutamente il linguaggio della sofferenza (della malattia che si fa sofferenza). Essa ci richiama i sentimenti e la vita dell’anima quanto la fame e la sete ci richiamano le necessità del corpo.

La malattia reclama le necessarie terapie ed, insieme, una civiltà d’anima di grande levatura e intensità.

"Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del Regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo. La sua fama si sparse per tutta la Siria e così condussero a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici; ed egli li guariva. E grandi folle cominciarono a seguirlo da ogni regione. (Mt. 4,23).

L’amore di Gesù verso i malati e le sue numerose guarigioni di infermi di ogni genere sono un chiaro segno che "Dio ha visitato il suo popolo" (Lc. 7,16) e che il Regno di Dio è vicino. Risana l’anima con il perdono e guarisce i malati: è il medico "integrale" di cui l’umanità ha bisogno.

La sua compassione verso tutti coloro che soffrono si spinge così lontano che Egli si identifica con loro: "Ero malato e mi avete visitato" (Mt. 25,36).

Il suo amore di predilezione per gli infermi non ha cessato, lungo i secoli, di rendere i cristiani particolarmente premurosi verso tutti coloro che soffrono nel corpo e nello spirito. Esso sta all’origine degli innumerevoli e instancabili sforzi per alleviare le loro pene. E’ una storia bellissima, malgrado gli inevitabili limiti umani: strutture ospedaliere, ordini religiosi, associazioni caritative, dedizione eroica dei santi: ricordiamo S. Camillo de Lellis, s. Giovanni di Dio, s. Vincenzo de Paoli, s. Giuseppe Cottolengo, s. Giuseppe Moscati (medico)

Gli operatori sanitari ad ogni titolo, gli impegnati nel volontariato nelle varie forme continuano a rendere attuale, in certo modo, la presenza di Gesù che risana.

Gesù è venuto per salvare tutti, ma non ha guarito tutti. Quelli che sono stati guariti poi non hanno avuto esistenza illimitata. Come i risorti non sono diventati immortali. Ma l’esame di alcuni interventi di Gesù aiutano a penetrare più in profondità.

Gesù guarisce il paralitico (Mc. 2,1-12). Quando lo calano dal tetto per metterlo di fronte a Lui, Gesù rimette i suoi peccati. Poi conferma il valore del perdono facendolo camminare. Vuole dire: il male che c’è nel mondo è anche conseguenza della follia dell’uomo. Certamente il miracolo esprime l’amore concreto di Dio: ma afferma anche che Gesù intende guarire l’uomo alla sua origine: un animo "sano" salva da tanti malanni. Cfr. i possibili danni derivanti da una velocità di guida incontrollata.

Gesù guarisce un indemoniato affetto anche da malattia psichica (Mc. 5, 1-20). Costui stupisce tutti quando lo vedono "vestito e sano di mente" e chiede a Gesù di permettergli di stare con Lui. "Va nella tua casa e annunzia ciò che il Signore ti ha fatto". La vita ci è data per accogliere e testimoniare l’amore di Dio per ciascuno: l’uomo è immagine di Dio e, in certo modo, irradiadiazione di Dio.

Gesù guarisce la febbre della suocera di Pietro (Mc. 1, 29-31). Si tratta di una semplice febbre: guarisce bene non solo nel senso medico, ma anche spirituale. Infatti "si mise a servirli". Il dono della salute è talento che permette di vivere lo spirito di servizio. Possedere la salute non è stasi egoistica, ma possibilità di attuare con l’amore concreto la sintesi del Vangelo.

Gesù guarisce il cieco a Gerico (Mc. 10, 46-52). Il cieco riacquistò la vista "e prese a seguirlo per la strada". Gesù ristabilisce la salute per ricordare che la vita è risposta ad una chiamata che Dio rivolge ad ogni uomo perché sia in comunione con Lui.

In questa ed in gran parte delle guarigioni Gesù chiede la fede perché incontrare seriamente e globalmente Gesù significa accettare che venga a dirigere la vita. Sembra dire che l’incontro con Lui che dona la guarigione è anche occasione per scoprire il senso della vita: quello che solo il Figlio di Dio può dare.

I gesti di Gesù in favore dei malati hanno quindi valenza multipla. Manifestano l’amore di Dio che si è fatto vicino ad ogni uomo, aiutano a riconoscere la novità della vita portata da Lui sulla terra, contribuiscono a riscoprire aspetti particolari della vita cristiana, fanno nascere risposte autentiche agli inviti del Salvatore. Gesù guarisce i malati con grande partecipazione umana e misericordia, ma pure come segno di guarigioni spirituali ben più importanti e radicali (Mt. 9,2s): sono anche rinascite per l’uomo.

Essere "accanto al malato" è affare di grande portata.

La grande attenzione di Dio per la situazione dell’uomo suscita la speranza. E’ il desiderio pieno di fiducia che nasce dalla sicurezza dell’aiuto di Dio che si prende cura di ogni momento e dell’intero destino dell’uomo: siamo sempre nelle sue mani.

La speranza è qualcosa che non è fuori, ma dentro di noi; è quello slancio vitale che ci fa vivere trascendendo noi stessi, che ci toglie dalle disperazioni, e che ci ancora saldamente al divino. Dobbiamo sperare perché Dio ci ama. Ciò non vuol dire che non potranno esserci momenti di incertezza, di grande travaglio, anche a causa di gravi prove fisiche o psichiche: ma la speranza ci dà la certezza dell’amore di Dio e del suo aiuto che non ci può mancare.

Gesù è la figura e l’immagine di ogni assistenza al malato. Ma Lui, come ha vissuto la sofferenza? E’ anche modello del malato? L’Onnipotente, come ha vissuto la debolezza?

"Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora" (Gv. 12,27). "L’anima mia è triste fino alla morte" (Mt. 26,38).

La persona più singolare della storia, l’uomo-Dio Gesù Cristo, è ben lontano dall’aver "scavalcato" il dolore, di essere stato medico - che sa e che dà - e non paziente.

Queste sue parole, come le altre famosissime: "Padre mio, se è possibile, passi da questo calice!", lo testimoniano precisamente. E bisogna inoltre considerare che in quella singolarissima, unica identità umano-divina, tutto è perfetto, come in nessun uomo, e dunque tutto è al massimo livello, anche la sensibilità al dolore, anche la capacità di soffrire.

Tutti abbiamo presente la flagellazione, l’incoronazione di spine, la via al Calvario, la crocifissione, e soprattutto un grido "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Poi: "Nelle tue mani, Padre, affido il mio spirito". E reclinato, il capo spirò.

E tutto questo non subìto, ma voluto; non meritato, ma da innocente, anzi è Colui che più ha dato all’uomo.

Sembrava che il farsi bambino a Betlemme fosse il massimo per un Dio che scende dai cieli a far suo il cammino dell’umanità. Ma volle scendere ancor di più: sulla croce si è identificato con il dolore dell’uomo e il dolore dell’uomo si è identificato con Lui. E lo splendore e la gioia della Risurrezione stanno a dire che - per Lui come per noi - questo è un cammino di luce che conduce a pienezza di vita.

Solo l’amore di Dio ci può far comprendere perché Gesù – fra mille modi che poteva trovare per salvarci e per redimerci – ha scelto la sofferenza fisica e spirituale. E solo l’amore di Dio ci può aiutare a diventare protagonisti nel tempo di malattia vivendola in sintonia con Gesù.

Gesù vive con noi ed in noi: Gesù in noi non sempre lavora, non sempre parla, non sempre prega: c’è un aspetto della nostra vita – della vita di Gesù in noi -, che è molto frequente e tocca tutti: la malattia.

In una visione cristiana della vita, le malattie non riguardano solo il campo della medicina (pur così necessaria): è Gesù che purifica il nostro spirito e viene in noi per tramutare il dolore in amore per Dio e per l’umanità.

Perciò nella malattia non siamo inattivi: compiamo il disegno di Dio, contribuiamo alla sua crescita nel mondo, ci mettiamo nelle condizioni di sviluppo spirituale. Poiché al termine della vita c’è una prova ancor più grande (Francesco la chiamava sorella morte), le malattie sono prove per la "Prova".

Anche i santi hanno trovato arduo e difficile ed hanno cercato aiuto per non subire la sofferenza e valorizzarla. S. Teresa d’Avila, in un momento di prova, aveva domandato al Signore: "mi sai dire perché". Risponde Gesù: "E’ il trattamento che riservo ai miei amici". E Teresa: "Capisco perché ne hai così pochi".

E’ noto quanto Pascal chiedeva nella Preghiera per chiedere a Dio il buon uso della malattia: "Imploro la grazia di non agire da pagano nella sofferenza, e di soffrire da cristiano affinché essendo pieno di Voi, non si più io che vivo e soffro, ma siate Voi, mio Salvatore, che vivete e soffrite in me".

Sentiva che nella infermità la fiducia, il controllo della vita, la stima di sé, la Risorsa, il Maestro, la qualità dell’esistenza sono una Persona: Gesù.

Il gesuita, filosofo e scienziato, Teilhard de Chardin pregava così: "Nell’istante doloroso in cui prenderò coscienza di essere malato, quando mi sentirò passivo in mano a forze sconosciute che sembrano più grandi di me, in quelle ore buie, donami, o Dio, di comprendere che sei Tu che separi dolorosamente le fibre del mio essere per penetrare fino al midollo della mia sostanza e trascinarmi in Te"

Alessandro Manzoni ne I promessi sposi mette in bocca ad uno dei personaggi: "La Provvidenza non turba mai la gioia dei suoi figli se non per prepararne una più certa e più grande".

Elaborare la malattia, facendola diventare un momento significativo della propria vita, è un’opera più delicata e difficile che la semplice lotta ad oltranza contro di essa: è forse l’opera di creatività più personale che l’essere umano possa fare nel frammento di storia che è chiamato a vivere. E’ "forza di essere uomo" aiutarsi ed aiutare a gestire e portare avanti sempre un vero progetto di persona

Nel Nuovo Testamento ci viene ricordato che "tutto concorre al bene di coloro che amano Dio"