UN VIAGGIO TRA LA TERRA E IL CIELO

di Ezio Gazzotti

Nulla di più coinvolgente di un pellegrinaggio. Nulla di più complesso. Che cosa fare perché le sue grandi potenzialità maturino? Quale ruolo assegnare alla catechesi?

Nulla di più antico, nelle religioni, del pellegrinaggio. Nulla di più complesso. A tutte le latitudini e in tutti i periodi si ritrova una struttura stabile: la partenza, il viaggio verso la meta, il ritorno a casa.

Partire è proprio morire

Il pellegrino "parte". Lascia la sua casa, supera le abitudini, interrompe il lavoro. E' la logica di ogni viaggio. E' la logica di ogni giornata della vita. Occorre, ogni mattina, rischiare di uscire, affrontare l'ignoto. Nel pellegrinaggio ci sono tante potenzialità: si lasciano realtà anche importanti. Ci si ribella alla ciclicità dei ritmi. Si va altrove. Si cerca qualcosa. Per questo si affronta anche l'ignoto.

Occhi e cuore si concentrano su una meta: qualcosa di inedito, un miracolo, una grazia, "una rivoluzione", la possibilità di ritornare cambiati.

Il rischio è che si tratti di un giro attorno a se stessi. Può darsi che, alla base di tutto, ci sia solo l'immaturità, la voglia di evadere, di non affrontare. In questo caso, alla fine, c'è il ritorno su se stessi. Non esiste né invocazione né tentativo di ancoraggio. La linea non si evolve, ma ritorna su se stessa. Il pellegrinaggio diventa spostamento terra-terra e non un viaggio tra la terra e il cielo. All'inizio e alla fine c'è solo l'individuo.

Ruolo della pastorale è quello di provocare la partenza. Oggi non è tanto opportuno ed efficace insistere su ciò che si lascia. Va indicata, specificata, fatta desiderare la meta. Si tratta di un luogo simbolicamente centrale. Esso rivela qualcosa ma nasconde il più. La meta può essere Gerusalemme ove il cielo (cioè il Figlio di Dio) ha toccato la terra. Può essere Roma, ove Pietro e Paolo sono stati uccisi per la fede. Può essere Santiago di Compostella che ci rimanda all'apostolo Giacomo. Può essere Lourdes, ove un popolo converge per vivere alcuni atteggiamenti evangelici (preghiera e penitenza). Colui che si cerca, in definitiva, è Dio. Egli è reso presente dal luogo, ma è anche "tenuto segreto".

C'è differenza tra il turista ed il pellegrino. Il primo deve osservare e fotografare tutto. Il secondo si lascia guardare da Dio. Un frammento (una basilica, un posto della Palestina, un santuario, un monte) gli fanno intravedere l'aldilà.

Oggi il rischio è che la meta sia "cosificata": Gerusalemme non è più simbolo del cielo; è la capitale dello Stato di Israele, divisa in zone "nemiche". Roma è una metropoli, con tutti i problemi dei traffico. Lourdes è uno dei terminali mondiali di percorsi turistici. E' proprio ruolo della catechesi quello di sottolineare la valenza simbolica della meta.

Per l'uomo religioso la partenza è un po' come la "prova generale" dell'ingresso in paradiso. Si lascia indietro ciò che conta di meno. Si saldano i debiti, ci si riconcilia con i fratelli, si sospende l'attività. Va fatta brillare, in modo esplicito, la luce delle realtà finali. Questo soprattutto nel pellegrinaggio giubilare. Si deve sentire, oggi più che nei secoli passati, la presenza della gioia che lo Spirito dona e la nostalgia del cielo che egli promette.

Và dove ti porta il cuore

L'inquietudine muove il vero pellegrino. Egli ricorda a chi rimane che ci portiamo dentro un'ansia che non si acquieta se non si tocca e non si vede Dio nell'approdo finale. Ora le distanze si sono avvicinate e le attese rischiano di essere abbassate di livello. Si arriva subito. Si brucia ogni esperienza. Il viaggio può essere reiterato a piacere.

La persona del pellegrino rischia di essere sostituita in tronco: c'è l'agenzia che pensa a tutto. La logica è "soddisfatti o rimborsati". Non c'è né tempo né spazio per maturare ed approfondire i desideri.

Nel pellegrinaggio va mantenuta la distanza spaziale. Essa ha un valore simbolico: fa sentire il vuoto, aiuta la ricerca, la purifica. Va mantenuto e prolungato il tempo. Essa fa passare dai desideri più superficiali alla sete di Dio che è latente nei cuori. Va difesa la sovranità della persona. Occorre garantire lo spazio all'ascolto esplicito della Parola.

E' meglio quindi un percorso fatto a piedi che un itinerario tutto precostituito dalle agenzie. E meglio un'esperienza su un monte che la frettolosa visita in Palestina, a Roma, a Lourdes.

Il pellegrinaggio deve divenire simbolo della precarietà stessa della vita. Si deve provare che cosa significa avere solo l'essenziale, dipendere, chiedere, non essere in casa propria. Ottima può essere l'idea di recarsi a svolgere un servizio presso i malati, gli handicappati.

Si sceglieranno posti ove esistono "stazioni", salite. Tutto perché si viva (spiritualmente e corporalmente) il "procedere verso". Dai comportamenti (inginocchiarsi, camminare) si passa agli atteggiamenti (vivere la dipendenza, convertirsi).

Va sottolineato proprio il tema tipico del Giubileo, il Padre. Egli, stando alla rivelazione biblica, non è semplicemente colui che all'inizio ha creato il mondo, quanto piuttosto il "porto", la casa, il volto che ci attendono alla fine. Ci possono far compagnia, lungo il cammino, le figure dell'attesa (Anna e Simeone, Giovanni Battista, Paolo ... ). Se si va in Palestina, mentre si vedono i luoghi, occorre valorizzare il relativo brano del Vangelo. Per il "procedere verso" si possono utilizzare i Salmi tipici del pellegrinaggio.

Tutto un popolo in cammino

Più di altri fenomeni il pellegrinaggio aggrega. Per i non-praticanti, per i "cristiani della soglia", fa sentire, più di tanti gesti liturgici, che procediamo insieme. In tanti casi però la ritualità è, di fatto, negata. Gli unici gesti che si ripetono sono quelli legati ai controlli doganali, agli imbarchi e sbarchi.

In partenza occorre garantire che ci sia un soggetto comunitario preciso che vuole pregare, meditare, camminare.

Va attivata la grande risorsa del popolo dei pellegrini. Nella liturgia, talvolta, non si vede in faccia l'altro. Qui ci si può riconoscere anzitutto come uomini. Si può notare l'abito, l'età, l'affaticamento dell'altro.

Si riesce più facilmente a superare gli steccati (sociali, etnici). Si vede ciò che ci unisce (lo spazio che è il cosmo, la terra, l'avventura della vita).

Ci si può sentire tutti "nomadi", preceduti dall'amore del Padre, orientati verso la sua casa. Con gli altri e per gli altri si invoca la clemenza di Dio. Soprattutto, in occasione dei Giubileo, si può vedere la Chiesa cattolica. Essa è germe dell'umanità che Dio sogna. Non ha frontiere. Accorrono tutti alla mensa dell'Eucaristia. Dio orienta ogni creatura verso la sua destinazione. Così vissuto, il pellegrinaggio produce, nel ritorno, il lasciare indietro pregiudizi, lotte fratricide, divisioni assurde.

Il Giubileo è occasione privilegiata per sentire l'anno di grazia offerto dal Padre ad ogni uomo e ritrovarsi tutti nello statuto di "peccatori perdonati".

Tutte le strade conducono a Cristo

C'è un luogo ove Dio ha raggiunto la storia, il tempo, lo spazio: l'umanità di Gesù. Nel suo corpo abitava la pienezza della Divinità. In lui, Dio si è abituato a vivere con noi. Nel mistero della croce, è avvenuto l'incontro mirabile tra l'inaudito amore del Padre e l'iniquità degli uomini.

Ora Cristo è risorto. Lo si può incontrare e vedere ovunque. Si fa lui forestiero e pellegrino lungo la nostra via. Si accosta, parla, riscalda i cuori (Lc 24,13-35).

In questo senso, tutte le vie conducono a Cristo. Il pellegrino cristiano è il discepolo che, mette i suoi passi sulle orme di Gesù. Può sottolineare, di volta in volta, qualche fase della "storia" del Figlio. Può recarsi in Palestina per rivivere la fase terrestre. Può andare a Roma, in Grecia, in Asia Minore per sperimentare la presenza del Risorto nella Chiesa apostolica. Può andare alla Chiesa madre dell'esarcato, del patriarcato, della diocesi. Può recarsi a Dachau, nei campi di pulizia etnica, ove l'uomo è stato, come Gesù, offeso, torturato.

E' bello che ricerchi i posti ove "il piccolo" è conculcato: nelle favelas del Brasile, nelle periferie delle città come Nairobi. Può riscoprire il Cristo nelle carceri, negli ospedali. In questo ultimo caso, più che visite ai luoghi, si privilegiano gli incontri con le persone. Se si tratta di anziani e malati chiunque può fare anche settimanalmente questo pellegrinaggio.

E Urgente che il Giubileo crei l'abitudine dell'"ospitalità" tra cristiani. Si può instaurare il criterio della reciprocità. t bello che i non cattolici convergano verso Roma, ma è urgente che i cattolici vadano verso Costantinopoli, Mosca, Ginevra, Wittenberg...

Più che spostarsi per vedere luoghi, ci si reca ad incontrare le comunità cristiane come tali. Lo si può fare facilmente in Palestina. E' sul piano della fede che va creata una comunicazione. Essenziali saranno le liturgie. Cantando Salmi o testi biblici, ci presentiamo come corpo unico, ancora diviso, ancora da purificare, che però fissa già gli occhi su Gesù (Eb 12,1).

Lasciamoci condurre da Dio

Ci succede molte volte: decidiamo noi luoghi e tempi per incontrare Dio. Il fraintendimento è massimo: il Signore, che è sovrano, è ridotto a strumento per la nostra realizzazione. Il Dio della Scrittura non si relaziona con i posti, ma con le persone. Non c'è bisogno che noi "saliamo" da lui, visto che egli è "disceso". Non ci sono distanze da superare, dato che lo Spirito è inquilino profondo e permanente dentro i cuori.

Il pellegrinaggio è un simbolo: svolge a sua funzione quando e se noi comprendiamo dove ci conduce. Ci fa comprendere che la vita stessa è "nomadismo" ed esodo verso la terra promessa; è ascesa dietro a Gesù che va verso il Padre. Lo Spirito ci conduce. Egli determina distacchi, partenze, tappe. Ci toglie sicurezze, ci indica obiettivi.

Noi esprimiamo ritualmente la nostra disponibilità a camminare nelle processioni ) previste nell'Eucaristia (all'ingresso, all'offertorio, alla comunione).

Esprimiamo vitalmente la nostra disponibilità quando accogliamo le infermità (nostre e altrui), rinunciamo a sicurezze superficiali (approvazioni, consensi, retribuzioni) per affidarci a quelle sostanziali (il paradiso promesso, la fedeltà di Dio a noi).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA STRADA E LA ROCCIA

di Cristina Simonelli

La vita cristiana presuppone il radicamento in un posto, ma esige anche una tensione verso la meta. Convivono stabilità e movimento. Come hanno coniugato queste due dimensioni i pellegrinaggi?

"Mi sembra che la parola divina indichi questo concetto: poiché il tuo desiderio guarda sempre a ciò che è più grande, c'è presso di me tanto posto che chi corre interiormente non potrà mai smettere di correre. Ma la corsa in altro senso è immobilità: fermati gli dice presso la roccia. Questa è la più straordinaria di tutte le cose, come immobilità e movimento possano identificarsi (Gregorio di Nissa, Vita di Mosè Il, 243).

Stabilità e movimento

In questo commento a Esodo 33,18-23, stabilità e movimento indicano la paradossale realtà della vita cristiana. Essa è invito a mettersi sempre in cammino e nello stesso tempo è radicamento in un punto di riferimento incrollabile. Il pellegrinaggio è come un segno di questa dinamica. Si svolge come un cammino con tutte le incognite che ogni andare comporta; e tuttavia è speranza, è tensione verso una meta. La tradizione cristiana conosce tante esperienze, tante figure di questo modo di intendere la fede, da coloro che hanno fatto dell'itineranza la loro forma stabile di vita, a coloro che in un piccolo luogo hanno vissuto un viaggio del cuore senza confini. Una sintesi di queste due dimensioni è disponibile ai pellegrini: a quelli diretti verso le grandi mete della storia e anche ai protagonisti di piccoli viaggi di fede.

Il pellegrinaggio di Egeria

Quello di Egeria è esempio di un grande viaggio, con i mezzi che potevano esserci nel IV secolo, verso i luoghi di cui parla la Scrittura, tra cui spicca in modo particolare Gerusalemme. Secondo la felice espressione di una studentessa, Egeria "sembra che cammini sul Libro": "Salimmo al luogo dove si fermò il santo profeta Elia, quando fuggì dalla presenza del re Achab e dove Dio gli si rivolse dicendo: Che fai qui, Elia?", come è scritto nel Libro dei Re. "Una cosa infatti desideravo sempre in sommo grado per noi: che dovunque giungessimo, fosse letto il passo corrispondente della Bibbia" (4,2.3). La Parola è la spinta al viaggio e il viaggio ne diventa la possibilità di lettura, di comprensione, di condivisione con le sorelle rimaste "a casa", a cui è diretto lo scritto.

Il Pellegrino Russo

Un grande viaggio è anche intrapreso dal Pellegrino Russo, viaggio di cui Gerusalemme resta la meta lontana, ma che si snoda in un percorso verso la preghiera continua, la preghiera dei cuore ritmata dal respiro: "Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me". L'accompagnamento di questa preghiera non si contrappone al Vangelo, ma ne è "il riassunto", l'interiorizzazione, la somatizzazione: caparra della resurrezione della carne. Guida per la strada possono essere anche un compagno di viaggio, un passante, le "foglioline piene di luce", come nei romanzi di Dostoevskij, o il vangelo della creazione che fa pronunciare a Francesco il suo Cantico.

Mete privilegiate, sono Gerusalemme e le tombe degli Apostoli (Pietro e Paolo a Roma, Giacomo a Campostela). Si tratta di un viaggio al cuore dei Vangelo, alla concretezza dell'incarnazione, alla vitalità della resurrezione con il soffio dello Spirito che non teme né muri né confini.

Questi elementi dei grandi pellegrinaggi possono essere presenti anche in altri itinerari: Francesco che scende da cavallo e si avvicina all'uomo malato di lebbra, ancora più estraneo di qualsiasi straniero. Fa pochi metri di strada, ma copre una distanza infinita; realizza un vero pellegrinaggio che cambia la direzione della sua vita. Non è una beneficenza caritatevole, ma una conversione. La comunità dei Fratelli, che vuole vivere il "Vangelo senza glossa" cerca di assomigliare a quelle icone del Cristo, cerca per sé la stessa situazione di marginalità eppure di presenza.

Può avere la stessa densità anche la strada che conduce in luoghi di devozione periferici: a volte questi piccoli pellegrinaggi sono compiuti con una mentalità cristiana pienamente formata, a volte presentano degli aspetti particolari, un po' paradossali, delle forme piuttosto eclettiche. Hanno tuttavia in comune il desiderio di una Rivelazione viva, di una Parola che risuona davvero: "tuo volto Signore, io cerco, non nascondermi il tuo volto" (Sal 27,8s). Se non sempre le Chiese possono assumere questi luoghi e queste forme, possono però leggerle e cercare di coglierne la realtà profonda.

Inseguire il Cristo

Lunghi o brevi, dunque, i pellegrinaggi sono momenti importanti della vita cristiana chiamata a camminare sul Libro, a respirare col Nome, a inseguire sempre il Cristo che, avanti, aspetta vivo in Galilea. Per chi li compie materialmente e anche per chi si mette in ascolto dell'esperienza che essi comunicano, possono essere occasione preziosa per riconsiderare la qualità cristiana della propria vita.

"State sempre in cammino": secondo il vangelo di Tommaso (42), Gesù rivolge questa indicazione ai suoi discepoli, che descrive come "bambini che giocano in un campo che non appartiene a loro" (21). Le immagini del cammino, della tenda, del gioco indicano un'estrema leggerezza: spesso sulle mete dei pellegrinaggi i secoli hanno costruito muri imponenti e la loro figura sembra contrastare con la provvisorietà e la fragilità del viaggio. Pure, nel cuore del pellegrinaggio queste figure restano impresse, scritte sul braccio e sulla fronte (Dt 6,8), tatuaggio indelebile (Os 49,16): sostituire i muri con le tende può non essere necessario, ma soprattutto non è sufficiente. Ciò che conta è avere un pensiero a forma di tenda e non di cinta muraria, una identità abbastanza forte da lasciarsi attraversare e decentrare senza perdersi. Lasciarsi decentrare dalla propria autosufficienza e lasciarsi attraversare dal vento vuol dire aprirsi alla presenza dello Spirito. Significa essere convinti delle parole a noi rivolte da Gesù. "Molte cose ho ancora da dirvi, ma per ora non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito di verità, vi guiderà alla verità tutta intera" (Gv 16,13) e "vi ricorderà tutto ciò che ho detto" (Gv 14,26). Meta dunque e memoria. Memoria vivente del Cristo e del Vangelo, roccia e stabilità, e cammino aperto alla novità.

Popolo di ricercatori

E' bello scoprirsi compagni di tanti altri ricercatori di senso, di tanti che, con altri segni, percorrono altri pellegrinaggi, senza che noi forse sappiamo di dove vengano, né dove vadano, come il vento.

Una abitazione provvisoria inoltre può essere anche il luogo dell'ascolto e della risonanza, perché vi possono penetrare anche i suoni leggeri. Come nell'esperienza di Elia all'Oreb, non nel frastuono e nella manifestazione di potenza ci raggiunge la voce di Dio, ma nel mormorio di una brezza leggera o, come traduce il rabbino Benedetto Carucci, in "una sottile voce di silenzio". Possibilità di molteplici echi. Così il Rabbi Mendel di Worki interpreta il versetto "e tutto il popolo vide le voci" (Es 20,18): essi videro e riconobbero che bisogna accogliere in sé le voci e farne la propria voce" (M.Buber, I racconti dei Chassidim, Milano 1988, 630).

Di conseguenza, il ritorno non è mai tornare proprio nello stesso luogo: non solo nel senso che alcune testimonianze di grandi pellegrinaggi raccontano di mutamenti radicali di situazione, ma anche nel senso più semplice di una nuova trasparenza della ferialità della propria vita. C'è qui forse la possibilità di comprendere come, stando sempre alle parole del Rabbi Mendel, sia possibile "danzare immobili" (M.Buber, I racconti, 632). Per la scoperta, nel cuore di un giorno qualsiasi, di una roccia sicura e tenera: "Dio era in questo luogo e io non lo sapevo!" (Gen 28,16).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

UN VIAGGIO TRA LA TERRA E IL CIELO

di Ezio Gazzotti

Nulla di più coinvolgente di un pellegrinaggio. Nulla di più complesso. Che cosa fare perché le sue grandi potenzialità maturino? Quale ruolo assegnare alla catechesi?

Nulla di più antico, nelle religioni, del pellegrinaggio. Nulla di più complesso. A tutte le latitudini e in tutti i periodi si ritrova una struttura stabile: la partenza, il viaggio verso la meta, il ritorno a casa.

Partire è proprio morire

Il pellegrino "parte". Lascia la sua casa, supera le abitudini, interrompe il lavoro. E' la logica di ogni viaggio. E' la logica di ogni giornata della vita. Occorre, ogni mattina, rischiare di uscire, affrontare l'ignoto. Nel pellegrinaggio ci sono tante potenzialità: si lasciano realtà anche importanti. Ci si ribella alla ciclicità dei ritmi. Si va altrove. Si cerca qualcosa. Per questo si affronta anche l'ignoto.

Occhi e cuore si concentrano su una meta: qualcosa di inedito, un miracolo, una grazia, "una rivoluzione", la possibilità di ritornare cambiati.

Il rischio è che si tratti di un giro attorno a se stessi. Può darsi che, alla base di tutto, ci sia solo l'immaturità, la voglia di evadere, di non affrontare. In questo caso, alla fine, c'è il ritorno su se stessi. Non esiste né invocazione né tentativo di ancoraggio. La linea non si evolve, ma ritorna su se stessa. Il pellegrinaggio diventa spostamento terra-terra e non un viaggio tra la terra e il cielo. All'inizio e alla fine c'è solo l'individuo.

Ruolo della pastorale è quello di provocare la partenza. Oggi non è tanto opportuno ed efficace insistere su ciò che si lascia. Va indicata, specificata, fatta desiderare la meta. Si tratta di un luogo simbolicamente centrale. Esso rivela qualcosa ma nasconde il più. La meta può essere Gerusalemme ove il cielo (cioè il Figlio di Dio) ha toccato la terra. Può essere Roma, ove Pietro e Paolo sono stati uccisi per la fede. Può essere Santiago di Compostella che ci rimanda all'apostolo Giacomo. Può essere Lourdes, ove un popolo converge per vivere alcuni atteggiamenti evangelici (preghiera e penitenza). Colui che si cerca, in definitiva, è Dio. Egli è reso presente dal luogo, ma è anche "tenuto segreto".

C'è differenza tra il turista ed il pellegrino. Il primo deve osservare e fotografare tutto. Il secondo si lascia guardare da Dio. Un frammento (una basilica, un posto della Palestina, un santuario, un monte) gli fanno intravedere l'aldilà.

Oggi il rischio è che la meta sia "cosificata": Gerusalemme non è più simbolo del cielo; è la capitale dello Stato di Israele, divisa in zone "nemiche". Roma è una metropoli, con tutti i problemi dei traffico. Lourdes è uno dei terminali mondiali di percorsi turistici. E' proprio ruolo della catechesi quello di sottolineare la valenza simbolica della meta.

Per l'uomo religioso la partenza è un po' come la "prova generale" dell'ingresso in paradiso. Si lascia indietro ciò che conta di meno. Si saldano i debiti, ci si riconcilia con i fratelli, si sospende l'attività. Va fatta brillare, in modo esplicito, la luce delle realtà finali. Questo soprattutto nel pellegrinaggio giubilare. Si deve sentire, oggi più che nei secoli passati, la presenza della gioia che lo Spirito dona e la nostalgia del cielo che egli promette.

Và dove ti porta il cuore

L'inquietudine muove il vero pellegrino. Egli ricorda a chi rimane che ci portiamo dentro un'ansia che non si acquieta se non si tocca e non si vede Dio nell'approdo finale. Ora le distanze si sono avvicinate e le attese rischiano di essere abbassate di livello. Si arriva subito. Si brucia ogni esperienza. Il viaggio può essere reiterato a piacere.

La persona del pellegrino rischia di essere sostituita in tronco: c'è l'agenzia che pensa a tutto. La logica è "soddisfatti o rimborsati". Non c'è né tempo né spazio per maturare ed approfondire i desideri.

Nel pellegrinaggio va mantenuta la distanza spaziale. Essa ha un valore simbolico: fa sentire il vuoto, aiuta la ricerca, la purifica. Va mantenuto e prolungato il tempo. Essa fa passare dai desideri più superficiali alla sete di Dio che è latente nei cuori. Va difesa la sovranità della persona. Occorre garantire lo spazio all'ascolto esplicito della Parola.

E' meglio quindi un percorso fatto a piedi che un itinerario tutto precostituito dalle agenzie. E meglio un'esperienza su un monte che la frettolosa visita in Palestina, a Roma, a Lourdes.

Il pellegrinaggio deve divenire simbolo della precarietà stessa della vita. Si deve provare che cosa significa avere solo l'essenziale, dipendere, chiedere, non essere in casa propria. Ottima può essere l'idea di recarsi a svolgere un servizio presso i malati, gli handicappati.

Si sceglieranno posti ove esistono "stazioni", salite. Tutto perché si viva (spiritualmente e corporalmente) il "procedere verso". Dai comportamenti (inginocchiarsi, camminare) si passa agli atteggiamenti (vivere la dipendenza, convertirsi).

Va sottolineato proprio il tema tipico del Giubileo, il Padre. Egli, stando alla rivelazione biblica, non è semplicemente colui che all'inizio ha creato il mondo, quanto piuttosto il "porto", la casa, il volto che ci attendono alla fine. Ci possono far compagnia, lungo il cammino, le figure dell'attesa (Anna e Simeone, Giovanni Battista, Paolo ... ). Se si va in Palestina, mentre si vedono i luoghi, occorre valorizzare il relativo brano del Vangelo. Per il "procedere verso" si possono utilizzare i Salmi tipici del pellegrinaggio.

Tutto un popolo in cammino

Più di altri fenomeni il pellegrinaggio aggrega. Per i non-praticanti, per i "cristiani della soglia", fa sentire, più di tanti gesti liturgici, che procediamo insieme. In tanti casi però la ritualità è, di fatto, negata. Gli unici gesti che si ripetono sono quelli legati ai controlli doganali, agli imbarchi e sbarchi.

In partenza occorre garantire che ci sia un soggetto comunitario preciso che vuole pregare, meditare, camminare.

Va attivata la grande risorsa del popolo dei pellegrini. Nella liturgia, talvolta, non si vede in faccia l'altro. Qui ci si può riconoscere anzitutto come uomini. Si può notare l'abito, l'età, l'affaticamento dell'altro.

Si riesce più facilmente a superare gli steccati (sociali, etnici). Si vede ciò che ci unisce (lo spazio che è il cosmo, la terra, l'avventura della vita).

Ci si può sentire tutti "nomadi", preceduti dall'amore del Padre, orientati verso la sua casa. Con gli altri e per gli altri si invoca la clemenza di Dio. Soprattutto, in occasione dei Giubileo, si può vedere la Chiesa cattolica. Essa è germe dell'umanità che Dio sogna. Non ha frontiere. Accorrono tutti alla mensa dell'Eucaristia. Dio orienta ogni creatura verso la sua destinazione. Così vissuto, il pellegrinaggio produce, nel ritorno, il lasciare indietro pregiudizi, lotte fratricide, divisioni assurde.

Il Giubileo è occasione privilegiata per sentire l'anno di grazia offerto dal Padre ad ogni uomo e ritrovarsi tutti nello statuto di "peccatori perdonati".

Tutte le strade conducono a Cristo

C'è un luogo ove Dio ha raggiunto la storia, il tempo, lo spazio: l'umanità di Gesù. Nel suo corpo abitava la pienezza della Divinità. In lui, Dio si è abituato a vivere con noi. Nel mistero della croce, è avvenuto l'incontro mirabile tra l'inaudito amore del Padre e l'iniquità degli uomini.

Ora Cristo è risorto. Lo si può incontrare e vedere ovunque. Si fa lui forestiero e pellegrino lungo la nostra via. Si accosta, parla, riscalda i cuori (Lc 24,13-35).

In questo senso, tutte le vie conducono a Cristo. Il pellegrino cristiano è il discepolo che, mette i suoi passi sulle orme di Gesù. Può sottolineare, di volta in volta, qualche fase della "storia" del Figlio. Può recarsi in Palestina per rivivere la fase terrestre. Può andare a Roma, in Grecia, in Asia Minore per sperimentare la presenza del Risorto nella Chiesa apostolica. Può andare alla Chiesa madre dell'esarcato, del patriarcato, della diocesi. Può recarsi a Dachau, nei campi di pulizia etnica, ove l'uomo è stato, come Gesù, offeso, torturato.

E' bello che ricerchi i posti ove "il piccolo" è conculcato: nelle favelas del Brasile, nelle periferie delle città come Nairobi. Può riscoprire il Cristo nelle carceri, negli ospedali. In questo ultimo caso, più che visite ai luoghi, si privilegiano gli incontri con le persone. Se si tratta di anziani e malati chiunque può fare anche settimanalmente questo pellegrinaggio.

E Urgente che il Giubileo crei l'abitudine dell'"ospitalità" tra cristiani. Si può instaurare il criterio della reciprocità. t bello che i non cattolici convergano verso Roma, ma è urgente che i cattolici vadano verso Costantinopoli, Mosca, Ginevra, Wittenberg...

Più che spostarsi per vedere luoghi, ci si reca ad incontrare le comunità cristiane come tali. Lo si può fare facilmente in Palestina. E' sul piano della fede che va creata una comunicazione. Essenziali saranno le liturgie. Cantando Salmi o testi biblici, ci presentiamo come corpo unico, ancora diviso, ancora da purificare, che però fissa già gli occhi su Gesù (Eb 12,1).

Lasciamoci condurre da Dio

Ci succede molte volte: decidiamo noi luoghi e tempi per incontrare Dio. Il fraintendimento è massimo: il Signore, che è sovrano, è ridotto a strumento per la nostra realizzazione. Il Dio della Scrittura non si relaziona con i posti, ma con le persone. Non c'è bisogno che noi "saliamo" da lui, visto che egli è "disceso". Non ci sono distanze da superare, dato che lo Spirito è inquilino profondo e permanente dentro i cuori.

Il pellegrinaggio è un simbolo: svolge a sua funzione quando e se noi comprendiamo dove ci conduce. Ci fa comprendere che la vita stessa è "nomadismo" ed esodo verso la terra promessa; è ascesa dietro a Gesù che va verso il Padre. Lo Spirito ci conduce. Egli determina distacchi, partenze, tappe. Ci toglie sicurezze, ci indica obiettivi.

Noi esprimiamo ritualmente la nostra disponibilità a camminare nelle processioni ) previste nell'Eucaristia (all'ingresso, all'offertorio, alla comunione).

Esprimiamo vitalmente la nostra disponibilità quando accogliamo le infermità (nostre e altrui), rinunciamo a sicurezze superficiali (approvazioni, consensi, retribuzioni) per affidarci a quelle sostanziali (il paradiso promesso, la fedeltà di Dio a noi).