Introduzione

Questo tempo di Giubileo (il termine Giubileo parla di gioia, di giubilo), dedicato alla riscoperta di Gesù, è un’ottima occasione per entrare dentro il Regno di Dio che Gesù inaugura sulla terra, la magna carta paradossale della vita della Chiesa e dei singoli credenti.

La beatitudine e la gioia di cui parliamo evidentemente non è legata alla ricchezza, al benessere, alla gloria umana o al potere ... (CCC n.1723), ma nasce dal vivere secondo la logica di Gesù. S. Paolo parla, infatti, della gioia come di un frutto dello Spirito (Gal. 5,22).

In queste pagine presenteremo il cuore dell’insegnamento di Gesù. Personalmente, se mi trovassi davanti alla scelta di una parola della Bibbia da conservare, allora mi rivolgerei sicuramente alle Beatitudini, che sono l’apice del Discorso della Montagna. Tutto l’insegnamento di Gesù si concentra in quelle parole così come tutta la volontà di Dio si trova concentrata nel Vangelo di San Giovanni in un solo versetto: " Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv. 3,16).

Se in San Giovanni siamo di fronte alla dichiarazione da parte di Dio di dare gioia agli uomini, in San Matteo siamo di fronte alla proclamazione del diritto che l’uomo ha alla gioia! La nostra vocazione cristiana è prima di tutto una vocazione alla gioia, contrariamente a quanto pensano certuni che, al di fuori del cristianesimo, credono che la nostra religione sia innanzi tutto una religione della sofferenza simboleggiata in modo emblematico dalla croce che si vede dappertutto, la croce che riempie i cimiteri.

Le Beatitudini sono una carta d’identità che ci fa simili a ciò che Dio è. Infatti, si potrebbe dire, alla fine, che solo Dio è beato. Paolo VI diceva. "In Dio stesso tutto è gioia perché tutto è dono". Dunque la gioia è nell’amore, nel dono.

La gioia caratterizzava la vita dei primi cristiani perché per loro amare il fratello era tutto. Che cosa li distingueva, infatti, dagli altri uomini? Forse le grandi imprese, i profondi studi, l’eloquenza forbita? Forse i miracoli o le estasi, che certo non mancavano? No: li distingueva l’amore, l’amore reciproco. "Guarda come si amano - si diceva di loro - e l’un per l’altro sono pronti a morire" (Tertulliano)

Le Beatitudini parlano innanzitutto di Dio stesso. Quando Gesù le proclama c’è in lui un tale fremito, una tale pienezza, che tutto il suo essere riconosce la loro sorgente segreta: l’Abbà, il papà.

Leggere le Beatitudini significa leggere innanzitutto il cuore di Dio. Quando Gesù le propone alle folle svela loro il suo segreto, ciò che ha ricevuto di più prezioso: il cuore stesso di Dio.

Le Beatitudini parlano innanzi tutto di Dio, rivelandoci che Dio è povero, mite ...

Bisogna cominciare di qui, se si vuol evitare il rischio di fare delle Beatitudini quello che non sono: una cantilena romantica o un programma morale. È vero che esse toccano il nostro cuore e la nostra sensibilità, come è vero che ci invitano a cambiare il nostro modo di vivere. Ma solo in un secondo momento, cioè dopo che avremo riconosciuto che parlano innanzitutto di Dio e dopo avremo esaminato onestamente tutte le qualità che attribuiscono a Dio stesso.

Leggendo ad una ad una le Beatitudini dovremo sempre ricordare il fremito di gioia che invade Gesù quando le pronunzia, la gioia di parlare di suo Padre. E dietro ogni beatitudine dovremo sempre vedere, come in filigrana, il vero volto di del Dio di Gesù Cristo.

Le Beatitudini ci sono pervenute in una duplice versione, quella di Matteo 5,3-12 e quella di Luca 6,20-26. In entrambi i Vangeli esse costituiscono il preludio di un grande discorso che apre la predicazione pubblica di Gesù (Mt.5,13-7,27; Lc.6,27 - 7,49). Mi soffermerò soltanto su Matteo. Non posso non sottolineare che il programma di vita destinato ai figli del Regno venga presentato non con un perentorio "dovete", ma con un sorprendente martellamento di "beati ... beati". Per cui il codice della nuova giustizia promulgato dal Cristo non è altro che un grandioso appello alla felicità. La vocazione del cristiano è una vocazione alla gioia (personalmente l’ho capito solo nel 1963!). E la sua strada non è punteggiata di minacce, ma scandita da ripetute offerte di motivi di esultanza. Non si tratta di benedizioni o di semplici auguri, ma della constatazione di uno stato di felicità che è già in atto o si sta realizzando.

 

Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il Regno dei cieli
(Mt.5,3)

Tre sono gli scopi essenziali da raggiungere in questa scheda:

  1. Capire la parola che Gesù ci rivolge;
  2. Entrare nello spirito della parola di Gesù,
  3. Attualizzare la parola di Gesù.

Questi tre percorsi ( capire - interiorizzare - attualizzare ) procedono esclusivamente per spunti. Essi devono essere sviluppati in gruppo oppure da soli. Con la Parola, infatti, ci si deve confrontare, ad essa si deve reagire. Solo così essa "non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandato" (Is.55,11).

Perché i poveri sono beati?

È un controsenso. "Beato chi è ricco e intelligente" cantava il poeta greco Menandro. In fondo anche la Bibbia chiamava felice un uomo "allietato da figli" oppure "chi vive con una moglie assennata" (Sir.25,7-8), mostrando che la fiducia in Dio non va contro il buon senso; non è vero che la fede è possibile solo nella cattiva sorte!

La povertà di cui si tratta ha la sua sede nell’intimo (nello spirito) della persona umana. Essa perciò viene compresa in un senso metaforico. Uno spirito qualificato dalla povertà è uno spirito che non è autosufficiente, uno spirito che sa riconoscere il suo bisogno di altri per vivere e crescere. La maggioranza dei Padri della Chiesa hanno interpretato la 1a beatitudine nel senso dell’umiltà.

Quando proclama la 1a beatitudine, allora, Gesù non vuole esaltare una categoria di persone come se questi avessero quasi un privilegio morale e una conseguente garanzia nei confronti della salvezza. Egli piuttosto rende visibile e trasparente il volto di Dio. Con solenne autorità poi, Egli, il Messia dei poveri, afferma che la sua predicazione e la sua attività rendono presente e operante il Regno di Dio e che proprio i poveri sono gli eredi del Regno.

All’opposto degli scribi e dei farisei che assumono un atteggiamento di orgogliosa autosufficienza e che si credono superiori e pretendono di salvarsi mediante l’osservanza della legge, il povero di spirito e colui che non ha alcuna pretesa davanti a Dio e davanti agli uomini.

Egli si riconosce così com’è: una creatura della quale Dio è la ricchezza. Egli può crescere assai perché sa che ha tutto da ricevere.

La 1a beatitudine è la beatitudine di base perché esprime l’atteggiamento fondamentale e necessario per appartenere al regno: l’atteggiamento di recettività. Senza questo comportamento è impossibile lasciarsi arricchire, vivere e crescere in comunione con Dio e gli altri. Gesù è il primo che ha vissuto questa beatitudine.

Come un parafulmine attira la folgore, così la povertà attira lo Spirito santo. Ecco perché è scritto: "Beati i poveri". È la povertà di chi è stato spogliato. Non ci si riconosce poveri se non dopo un passaggio dello Spirito santo. La povertà non è la miseria. La miseria è brutta, la povertà è bella. La miseria è una decadenza, una perdita, la povertà una semplificazione, una epurazione che ci fa ritornare alla nostra forma originale, un po’ come se si liberasse un’opera d’arte da una ganga: più la si spoglia, più si taglia la pietra, più la si alleggerisce e maggiormente si scopre la sua forma originale. Un bambino ebbe dire a Camille Claudel: "Come facevi a sapere che questo corpo, che quella persona era all’interno della pietra?". Dio ci vede come i suoi figli amati, come una madre vede i suoi figli, e per una madre ogni suo bimbo è bello. E ci vede come abbiamo la possibilità di essere, come il suo amore ci desidera, Dio ci vede rivestiti di gloria, come il Cristo, Primogenito di una moltitudine nella sua gloria, condividendo la sua regalità. E per condividere la sua regalità, bisogna condividere il suo cammino di povertà.

La povertà esiste in Dio fin dall’inizio ed è proprio una condizione dell’amore. Non si può amare qualcuno se si è ricchi di se stessi. Nella Trinità ogni Persona si spossessa di sé ad ogni istante e, proprio in questo atto di spossessione, entra in possesso di una ricchezza.

Dio è amore e l’amore è dono, superamento di ogni forma di possesso e al contempo godimento di una felicità assoluta.

Gesù viene sulla terra per mostrarci come Dio ama, come si ama all’interno della Trinità. Come si ama impoverendosi. Gesù verrà appunto nella povertà, vale a dire nel dono totale di se stesso, rinunciando a ciò che egli è. E questa rinuncia è una rinuncia dettata dall’amore. Quindi la beatitudine, la gioia è nel dono. "C’è più gioia nel dare che nel ricevere" (At.20,35).

La povertà è divina. La povertà ha un carattere divino per il fatto che solo Dio si è potuto veramente spogliare di se stesso. Noi non possiamo spogliarci che di alcune cose che hanno qualcosa di divino, non possiamo spogliarci se non di quelle qualità divine che Dio stesso ci ha elargito. Sapendo che più si dona, più si riceve, ben inteso, e che il gran torto che noi abbiamo è proprio la mancanza di fiducia. Ci rendiamo conto di quanto sia insuperabile la piccola S. Teresa. Non è che per la fede, la fiducia in Dio che noi possiamo essere poveri, sapendo, credendo che Dio non può ingannarci. Avendo fede nel suo Amore, credendo nella possibilità di donare, allora riceveremo. E anche se noi diamo delle cose materiali, Dio ce le restituirà. Gesù ce lo ha promesso, Gesù si è impegnato in questo con un giuramento: "Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del Vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna" (Mc.10,29-30).

S. Teresa d’Avila testimonia la sua esperienza mistica della ricchezza dei poveri in termini di ammirevole concisione:

"Nulla ti turbi

Nulla ti spaventi,

Tutto passa, Dio solo resta.

La pazienza ottiene tutto.

Chi è in Dio non manca di nulla.

Dio solo basta"

Troviamo in questa parola di S. Teresa un’eco del Salmo 22: "Il Signore è il mio pastore non manco di nulla.

Ciò che manca fondamentalmente all’uomo si trova descritto nel racconto della Genesi. Adamo, prima della caduta, non manca di nulla, Dio gli basta, la donna gli basta, la creazione gli basta. Ma il serpente fa penetrare il dubbio: ti manca qualcosa, ti manca questa scienza che Dio riserva a se stesso, se tu la possedessi, saresti molto più di ciò che sei ora, saresti uguale al Padre. Il dubbio non riguarda affatto la sessualità come ha creduto Freud nel suo mito dell’orda primitiva, ma riguarda l’essere e il potere. È li la radice di tutti i dubbi dell’uomo.

In S. Giovanni si trovano espresse le varie forme di vuoto e di fame implacabili che abitano il cuore dell’uomo e che egli chiama concupiscenza ed orgoglio. (1 Gv.2, 14-17).

La concupiscenza si trova ad essere delusa ogni volta che entra in possesso dell’oggetto del suo desideri, e allora si trova un oggetto che sia più difficile da possedere e questa ricerca è senza fine. Ciò è vero del denaro come della sessualità. I ricchi conservano una mentalità di poveri, infatti, danno raramente per la paura che li attanaglia di poter mancare di qualcosa. Nella sessualità, quando questa è staccata dal vero amore che sazia e pacifica, l’uomo cerca in ogni esperienza sempre più sensazioni di godimento senza essere mai soddisfatto. L’erotismo diventa una sorta di scalata sensuale che è una perversione della capacità di amare.

La santa Vergine, prevenuta dal peccato originale, viene chiamata l’Umilissima. Lei sola può vantarsi della sua capacità di umiltà e può dire di se stessa o piuttosto di Dio: "perché ha guardato l’umiltà della sua serva".

Maria vivrà di fede, ma con una fede senza l’ombra del dubbio e del sospetto. Con Maria potremmo dire che la povertà nello spirito guarisce tutti i mali dell’anima.

Qui non ci occupiamo dei mali principali dell’anima, ma essi hanno per origine il rifiuto della povertà spirituale (i sette vizi capitali ... )

Il contrario della povertà spirituale non è la ricchezza, per il fatto che ci sono dei beni che sono molto pesanti da portare e che talora danno un senso di spogliamento ben più grande di quello della miseria, se colui che li possiede li gestisce da buon padre di famiglia - come si dice in linguaggio giuridico - e come responsabile attento del bene degli altri. Il contrario della povertà in spirito porta il nome invece di comodità e di sistemazione, due pericoli da cui non ci si difende mai abbastanza e che sono causa di caduta di tono nella vita dei religiosi, dei preti, dei laici.

Sistemarsi significa letteralmente mantenersi nel mezzo, in questo ingiusto ambito a cui si attaccano i timidi di spirito. Alla Beatitudine dei poveri è coordinato il possesso del regno, che suppone, per rimanere fedeli al Vangelo, una certa violenza e una certa vigilanza. Questo spazio in cui l’uomo naturale desidera stare si situa proprio tra il caldo e il freddo, laddove regna la tiepidezza.

I cristiani della chiesa di Efeso e di Laodicèa non sono cristiani cattivi, ma sono semplicemente dei cristiani che si sono intiepiditi (Ap.2,4; 3,16-19). Tutti dobbiamo verificarci: mi sono accomodato, mi sono impigrito in una comodità spirituale o materiale che mi impedisce di vivere le Beatitudini che sono un continuo dinamismo?

La 1a Beatitudine contiene un elemento decisivo: la scelta. I poveri, gli umili, i piccoli che vengono dichiarati beati sono uomini e donne che hanno deciso di vivere questa condizione. Matteo è l’apostolo Levi, sicuramente egli sa di che cosa sta parlando. Un agente delle tasse, in Palestina, disponeva di ampi e temibili poteri. Non era certo una cosa da poco lasciare questa professione per seguire Gesù. Ma forse il suo cuore era già cambiato prima ancora che Gesù lo chiamasse., forse era stanco di spremere la gente, il suo potere non gli dava più soddisfazione.

I poveri (chi non dispone del minimo per vivere) non hanno scelto di essere tali; da questa situazione essi vorrebbero uscire e bisogna far di tutto per permettere loro di uscire. I poveri di cui parla Matteo sono coloro che hanno preso coscienza di quanto sia vano volersi riempire di tutto. Volere sempre qualcosa di più non conduce a niente.

La "povertà di cuore" porta ciascuno a prendere coscienza del vuoto che c’è dentro di lui, e che non bisogna riempire ad ogni costo, anzi che bisogna piuttosto aprire agli altri. Analogamente, sul piano della società, la "povertà di cuore" esige che si riconosca che nessuno possiede un potere assoluto, che ci sono sfere diverse (politica, giuridica, economica), che le culture e i costumi, le inclinazioni e i comportamenti non sono e non devono essere omogenei. Non c’è pluralismo possibile in una città, in una nazione, su tutto il pianeta, se non c’è povertà di cuore, riconoscimento reciproco, accettazione delle differenze.

Beati i poveri di cuore, che non assolutizzano ciò di cui dispongono - salute, denaro, sapere, potere, responsabilità - e non lo tengono soltanto per sé, ma lo mettono al servizio di tutti, semplicemente, senza gloriarsene. Beati coloro che, che sbarazzandosi dei loro vani progetti di auto-soddisfazione, costruiscono progetti per la collettività e lavorano per il bene comune. Beati coloro che non ritengono di possedere tutta la verità e proprio per questo difendono quella parte di verità che si trova in ciascuno, e soprattutto in quelli che non hanno voce e non possono esprimerla. Beati coloro che si liberano di tutte le false ricchezze e trovano il filone delle ricchezze vere, scoprendo così la gioia di viaggiare senza bagagli.

La "povertà in spirito" è l’incarnazione dell’umiltà e della dolcezza, come la prepotenza e l’oppressione sono l’incarnazione dell’orgoglio. I "poveri in spirito" sono gli "umili di cuore". A differenza degli orgogliosi e degli oppressori, essi stanno dalla parte di Dio. Per Matteo questo è fuori dubbio. Essi non sono soltanto i prediletti del Messia, essi hanno lo stesso spirito del Messia perché lui è "povero in spirito". Solo Matteo, infatti, riporta una dichiarazione di Gesù estremamente significativa: "Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore ..."(11,28-29). Il "povero in spirito" è colui che ha imparato dal Messia a conservarsi nell’umiltà del cuore.

Spesso queste parole di Gesù colpiscono più per la loro dolcezza che non per la paradossalità. Che cosa promette Gesù ai "poveri in spirito"? Qual’è la risposta del Messia all’arroganza degli empi e alla prepotenza degli orgogliosi? Non il ribaltamento delle posizioni, non lo scambio dei ruoli: gli oppressi non diventano finalmente oppressori, gli umili finalmente arroganti, i miti prepotenti, i poveri in spirito orgogliosi. No: "Imparate da me ...: il mio giogo, infatti, è dolce, il mio carico leggero". Questa non è ascesi, non è virtù, non è perfezione: questa è la salvezza, il luogo dove regna un Dio che non conosce la prepotenza e l’arroganza.

La catechesi cristiana ha insistito fin dall’inizio su questo punto (cfr. Col.3,12; Ef.4.2; Fil.2,3; Gal.6,1; 1Pt.3.8) e anche la Chiesa primitiva ha costantemente raccomandato di perseguire l’atteggiamento di colui che è "povero in spirito". Forse però S. Agostino coglieva nel segno quando, in un’omelia sul Salmo 71, diceva che si trovavano più facilmente uomini disposti a dare i loro beni ai poveri che non uomini disposti a divenire essi stessi poveri di Dio e aggiungeva che i poveri di Dio dicono insieme con l’Apostolo: "Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo spirito di Dio per conoscere tutto che Dio ci ha donato" (1Cor.2,12).

Oggi si sente continuamente dire che viviamo in un mondo in cui è diventato difficile scoprire il volto di Dio. Quanto detto finora ci invita a domandarci se non sia vero piuttosto il contrario: mai, forse, il volto di Dio è stato tanto visibile! Se Dio è dalla parte dei poveri, come possiamo dire che Dio non è visibile? Tutte le volte che è garantito il diritto del povero, tutte le volte che si pratica la giustizia e si tutelano i più deboli, tutte le volte che non viene messa a tacere la voce profetica, Dio mostra il suo volto.