LA CHIESA COMUNITÀ DI CARITÀ

di PIERO CODA

La Chiesa è «comunità di carità», è la figura di Chiesa che scaturisce dal vangelo della carità viene definita dal documento della CEI «Evangelizzazione e testimonianza della carità» (ETC) in questi termini: «configurata alla croce, la Chiesa è il grande sacramento della carità di Dio nella storia degli uomini» (n. 24).

È evidente che questa espressione ricalca quella di LG 1, dove - in modo sintetico e programmatico - si intende indicare, allo stesso tempo, l'identità e la missione della Chiesa, definendola come «sacramento, e cioè segno e strumento, in Cristo, dell'unione con Dio e dell'unita del genere umano». ETC esplicita sia il rapporto con Cristo, che è precisato nei termini paolini della configurazione alla croce, che è mistero di morte e risurrezione; sia il contenuto della vita e dell'operare della Chiesa, che è appunto la carità. Non per nulla, poco più avanti, si richiama che «la carità, prima di definire l'agire della Chiesa, ne definisce l'essere profondo» (n. 26).

Vorrei cercare di affrontare questo tema senza la pretesa di dire tutto, ma offrendo solo qualche spunto alla riflessione, in due momenti. Nel primo mi soffermerò - soprattutto alla luce del N.T. su cosa significa che la carità è segno distintivo ed efficace della comunità cristiana. Nel secondo cercherò di precisare alcune conseguenze di questa visione per la vita della comunità cristiana, in sé e nel suo rapporto con la società.

LA CARITÀ; SEGNO DISTINTIVO

DELLA COMUNITÀ; CRISTIANA

In quale senso la carità è segno distintivo della comunità cristiana? E quali caratteristiche la carità deve avere e mostrare per essere questo segno percepibile e credibile?

1. FEDE E CARITÀ; RECIPROCA

Occorre, innanzi tutto, riflettere sul rapporto che c'è tra fede e carità. Infatti, ciò che fa di una persona un cristiano lo sappiamo bene - è la sua fede in Gesù Cristo e il suo essere battezzato, cosi che la comunità cristiana si definisce come la comunità dei credenti e dei battezzati. Che ruolo ha dunque la carità nel definire il cristiano e la comunità ecclesiale?

A. FEDE E CARITÀ;

Già il Nuovo Testamento risponde a questa domanda. Mi rifaccio soltanto alla 1 Gv, che per tanti versi rappresenta una sintesi è un culmine del messaggio sull'agape contenuto nel N.T., la dove afferma: «Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e che ci amiamo gli uni gli altri secondo il precetto che Dio ci ha dato» (3, 23). L'esegeta R. E. Brown commenta: " 1 Gv 3, 23 potrebbe molto bene costituire la frase del Nuovo Testamento che meglio esprime l'essenza del cristianesimo. La teologia che le sta alla base rende chiaro che la fede in Gesù è realmente la fede in Dio di cui egli è Figlio; che la vita cristiana comincia con un'azione verticale da parte di questo Dio nel mandare suo Figlio; che ciò che noi facciamo viene dopo quello che Dio ha fatto; e che il nostro amore è una continuazione orizzontale ma essenziale dell'amore verticale che Dio ha mostrato».

Il significato della fede in Cristo in rapporto alla comunità è specificato al cap. 4 dove si afferma: «Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (4, 1416a). Giovanni esprime con questa affermazione qual è l'oggetto della fede cristiana. La tradizione teologica ha soprattutto ritenuto le definizioni della fede di Eb 11, 1.6 3; ma Gv 4, 16 precisa di quale Dio si tratta: il Dio di Gesù Cristo che è amore e come tale si rivela; ma precisa anche la maniera di legarsi a lui vitalmente.

L'oggetto della fede cristiana è Dio che si rivela Amore l'atto di fede del cristiano e - di conseguenza - esso stesso amore partecipato, di risposta: per Dio che si rivela e, in Lui, per i fratelli.

Credere all'amore che Dio ha avuto per noi, non è solamente confessare il Cristo salvatore che manifesta Dio carità, ma è fargli accoglienza, essergli unito e viverne; e, di conseguenza, incorporare in se l'agape divina, ciò che l'Apostolo denomina «dimorare nell'agape». O menon en te agape (Colui che dimora nell'agape) è una definizione del cristiano: colui che aderisce alla rivelazione che Gesù ha fatto del vero Dio e si inserisce nella sua economia di salvezza, essendo fedele ai suoi precetti (Gv 15,9-10), in particolare a quello dell'amore fraterno (Gv 13,34-35).

«E per questo che l'incontro esistenziale di Dio con il credente si fa nell'amore», Tanto che 1 Gv 4, 7b-8a precisa: «chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio, chi non ama non ha conosciuto Dio».

Si sottolinea cosi che il dimorare nell'amore è il segno tangibile della rigenerazione operata dalla fede in Cristo. Essere generato da Dio significa aver accolto nella fede la sua agape, e pertanto conoscere Dio come Dio, e comportarsi di conseguenza. La mancanza d'amore è indice sicuro, invece, del non aver conosciuto Dio. La carità è la sostanza della vera fede. Per questo - come insegna san Paolo - la fede passera; mentre la carità resta per sempre.

B. FEDE, CARITÀ; RECIPROCA E UNITÀ;

Occorre pero notare una cosa importantissima, che solitamente viene un po' trascurata. Ciò che la 1 Gv lega strettamente alla fede in Gesù Cristo non è soltanto l'amore del prossimo - esso, infatti, è già presente nell'A.T., ma l'amore reciproco, che Gesù - secondo la testimonianza del vangelo di Giovanni - definisce come comandamento nuovo e suo (cf. Gv 13, 34-35; 15, 12-13). Perché proprio la reciprocità dell'amore è il segno distintivo della fede cristiana e l'elemento costitutivo, di conseguenza, della comunità cristiana?

Possiamo dare due risposte, che in realtà si compendiano in una sola. Da un lato - come ha fatto notare von Balthasar, perché Dio si rivela in Gesù Cristo come Trinità: dunque come Amore reciproco e perciò effusivo. Dall'altro, e di conseguenza, perché l'autentica fede in Dio si manifesta in pienezza (giunge alla sua «perfezione», secondo il linguaggio giovanneo) la dove, per la fede, i credenti si amano tra loro come Cristo li ha amati. Dove il come (kathos) - come noto non indica solo una somiglianza, ma una partecipazione reale alla vita dell'amore trinitario.

Si comprende, perciò, perché la suprema preghiera di Gesù al Padre, per i suoi, sia quella dell'unita: «come tu Padre sei in me e io in te, siano anch'essi uno in noi» (Gv 17, 21). La fede cristiana si esprime nella sua originalità nell'amore reciproco, il quale - per dono di Dio e per sua dinamica intrinseca - tende all'unita.

E ciò che S. Agostino ha colto molto bene nel suo commento alla 1 Gv: «La carità spinse Cristo ad incarnarsi. Dunque chi non ha carità, nega che Cristo è venuto nella carne. (...) Tu non hai la carità, perché per una questione di onore rompi l'unità. (...) Egli venne nella carne per radunare insieme: tu sbraiti per disperdere. È dunque lo spirito di Dio quello che dice che Gesù è venuto nella carne, e che afferma questo non con la lingua ma coi fatti, che lo dice non con il suono delle parole ma con l'amore. (...) È dunque chiaro il criterio di discernimento, o fratelli».

L'amore, dunque, come criterio di discernimento.

L'amore per il fratello è criterio di discernimento dell'autenticità della fede del cristiano in Gesù Cristo, come spiega lapidariamente la 1 Gv: «Se uno dicesse: io amo Dio, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello» (4,19-21).

L'amore reciproco - l'unità - criterio di discernimento dell'autenticità di vita di una comunità cristiana: «se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in [mezzo a] noi e l'amore di Lui è perfetto in noi» (4,11-13).

L'amore reciproco che porta all'unità - di conseguenza - è il segno distintivo della comunità cristiana: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35); «Padre, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato (...) e li hai amati come hai amato me» (Gv 17, 21.23).

Riecheggiando da vicino l'insegnamento di Giovanni, sant'Ignazio di Antiochia dirà: «Il principio è la fede, il fine la carità. L'una e l'altra insieme riunite sono Dio», «Dio in carne», commenterà Origene.

c. Parola, sacramento e carità

Se cosi stretto è il rapporto tra fede e carità, viene spontaneo chiedersi quale rapporto allora ci sia - nella vita del credente e della comunità cristiana - tra la carità e la Parola di Dio, tra la carità e i sacramenti (in particolare il battesimo e l'Eucaristia). La fede? infatti. nasce e si nutre dall'ascolto della Parola di Dio e ci è donata nel battesimo; mentre l'Eucaristia è per eccellenza. il sacramento della carità e dell'unita ecclesiale (come dice san Tommaso).

Ora. la cosa semplicissima da notare - ma proprio per questo alle volte non cosi ben focalizzata - è che la parola d Dio ha come suo contenuto centrale proprio la carità. Basterebbe, in proposito. ricordare - nel N.T. - la risposta di Gesù a chi gli chiede «qual è il primo di tutti i comandamenti» (cf. Mc 12. 28-34 e par); o quanto Paolo dice a proposito dell'agape come «pienezza» della legge (cf. Gal 5, 14: Rom 13, 8-10); o - nella tradizione cristiana - quanto spiega sant'Agostino nel De doctrina christiana «il nocciolo di tutto ciò che abbiamo detto (...) è questo comprendere come la pienezza è il fine della legge e di tutte le divine Scritture è l'amore (.... Chiunque pertanto crede di aver capito le divine Scritture o una qualsiasi parte delle medesime, se mediante tale comprensione non riesce a innalzare l'edificio di questa duplice carità, di Dio e del prossimo, non le ha ancora capite». Dunque, la Parola di Dio mi dice in definitiva una parola soltanto: carità.

D'altro canto, cosa operano in noi i sacramenti se non, attraverso il dono dello Spirito Santo, la configurazione nostra all'agape di Cristo che ci fa altri Lui e, perciò, una cosa sola in Lui? «L'agape di Dio - scrive san Paolo - è stata riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato» (Rm 5, 5). Ora, lo Spirito di Cristo ci è trasmesso nel battesimo che - secondo la lettera ai Galati - ci fa figli del Padre (cf. 4, 6), uno in Cristo Gesù (cf. 3, 26-28). Un'unita che è portata a compimento dall'Eucaristia che ci fa pienamente un sol Corpo in Cristo, che ci fa anzi l'unico Corpo di Cristo. Dunque, la grazia dei sacramenti è la carità, l'unità.

La cosa fondamentale è che l'insegnamento della Parola di Dio e la grazia del battesimo e dell'Eucaristia diventino da carità donata da Dio carità vissuta da noi. È qui che si rischia di creare una rottura, quasi una schizofrenia fra ciò che crediamo e riceviamo è ciò che viviamo. Ma sappiamo che la fede e la grazia quando non sono vissute nella carità sono morte: sono vere come dono di Dio. non lo sono come nostra esistenza e testimonianza. Per questo. in definitiva la carità è segno distintivo del cristiano e della comunità ecclesiale. perché dove non c'è la carità la fede è «morta» e la grazia è «a buon mercato» (Bonhoeffer) e senza frutto.

2 LE CARATTERISTICHE DELLA CARITÀ; CRISTIANA

Visto come la carità - e la carità reciproca - sia il cuore della vita della comunità cristiana, vorrei ora cercare di dire quali sono i segni distintivi della carità cristiana. Senza la pretesa, anche qui, di essere esaustivo, ne ricorderei almeno quattro: la misura del dono della vita, il servizio concreto, la scelta dei poveri, l'amore per il nemico.

a. Il dono della vita

Un segno distintivo, e in certo modo riassuntivo, dell'intero messaggio del N.T. sulla carità è certamente rappresentato dalla sottolineatura forte e costante che l'amore (per Dio e per i fratelli) comporta la capacita di mettere in gioco - senza riserve e senza timori - tutto se stesso, fino al dono supremo dell'esistenza. Carità e croce sono indisgiungibili. È nella sua passione e morte di croce che Gesù ci da la lezione suprema sulla carità.

Basti richiamare solo due elementi. Da un lato, il loghion di Gesù sulla necessita di «perdere la propria vita» per «ritrovarla» (cf. Mc 8, 35ss. e par.); dall'altro, la cena pasquale come sintesi della sua pro-esistenza: in essa vengono ad annodarsi in modo straordinariamente denso i grandi motivi del suo kerigma e della sua prassi - la commensalità con i poveri e gli esclusi, il banchetto messianico, l'instaurazione della nuova alleanza attraverso il nuovo esodo e il sacrificio escatologico dell'Agnello. Anche nel vangelo di Giovanni, dove, a differenza dei Sinottici (cf. Mc 14, 22-25; Lc 22, 15-20; Mt 26, 26-29) e di Paolo (cf. 1 Cor 11, 23-26), non si fa cenno esplicito alla cena pasquale, sia il grande discorso del «pane di vita» (13, 1-20) sia il gesto della lavanda dei piedi richiamano lo stesso significato del servizio agli uomini come dono della propria vita.

Questi due elementi sottolineano non solo la specifica autocoscienza di Gesù nel suo atteggiamento verso la morte che egli sceglie liberamente di subire, in obbedienza al disegno salvifico del Padre; ma anche che la morte, come estremo e radicale dono-di-sé, è dimensione interiore e costitutiva dell'amore, tanto da costituire il centro del kerigma messianico, è la concreta via attraverso cui Gesù attuerà l'instaurazione del Regno affidatagli dal Padre. Nel tema eucaristico, inoltre, Gesù suggerisce che quel «pane di vita», che è il suo «corpo dato per voi», è ciò di cui i discepoli debbono nutrirsi, e assimilandoli a Lui plasma la loro vita a immagine della sua esistenza pro-esistente.

Gv 15, 12-13 esplicita tutto ciò proprio in riferimento al comandamento nuovo di Gesù: «questo è il mio comandamento che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». Dove si sottolinea la dinamica sacrificale (kenotica, direbbe Paolo) della carità reciproca, alla luce, appunto, dell'evento pasquale.

Verrebbe qui da chiedersi il perché di questo legame cosi stretto tra amore e morte. In Giovanni come in Paolo, e originariamente nel kerigma di Gesù, amore e morte sono collegati, perché l'amore è dono-di-sé e la morte, vissuta come libera offerta, come consegna (a Dio e, in Lui, ai fratelli), costituisce la possibilità massima e definitiva di quel dono in cui consiste l'agape. Non si può testimoniare e vivere l'amore in modo più grande; come, d'altra parte, non si può vivere l'amore senza morire a se stessi. L'amore - dice sant'Agostino - «facit in nobis quandam mortem». La vita cristiana ha un ritmo pasquale (cf. Rm 6: morte/risurrezione). La misura dell'amore è di non aver misura.

Tutto ciò, del resto, mostra come sia intrinseco all'agape, nel suo dispiegarsi consumato e definitivo, il dono totale di sé, senza residui: proprio come avviene nel rapporto d'amore tra Padre, Figlio, Spirito Santo, dove Ciascuno dei Tre vive («è») simultaneamente in Sé e nell'Altro grazie alla morte («non è») a Sé come realtà autosufficiente e in sé conclusa.

Viene cosi in luce una caratteristica di fondo della comunità cristiana: essa è composta di persone che, essendo per la fede uno in Cristo, non possono ignorarsi, non possono vivere nella reciproca indifferenza, non possono tollerare una rottura, ma debbono tendere a riconoscersi e riconciliarsi nella carità. Essi, credendo in Cristo, s'impegnano di fatto perché sono un solo Corpo in Lui - a dare la vita per il Maestro, ma anche per ciascuno dei fratelli. La fede in Cristo implica una sorta di «patto d'amore reciproco» quale fondamento della Chiesa.

Questa radicalità dell'agape non è un optional, è il segno distintivo della vera agape. Senza questa intenzione presupposta - la disponibilità a dare la vita per l'altro - la comunione, l'unità restano un ideale, se non una parvenza. Così come senza l'amore anche il dare il corpo alle fiamme non giova a niente (cf. 1 Cor 13,3).

B. L'AMORE FRATERNO COME DIAKONIA

Ma come si realizza, concretamente, l'amore reciproco tra i credenti? Come si esprime nella quotidianità dell'esistenza della comunità questo dono della vita, che raramente ci è chiesto alla lettera? Una delle dimensioni fondamentali del kerigma di Gesù concerne proprio i rapporti tra i discepoli, anzi tra i fratelli - come i cristiani si chiameranno reciprocamente - nella comunità.

Particolarmente importanti i testi dove Gesù stesso si presenta come «servo» e come «colui che serve», invitando i discepoli a seguire il suo esempio. Se con il primo termine Gesù applica a sé la profezia di Isaia sul «servo di JHWH» (cf., ad es., Mc 10,45 con riferimento a Is 52, 12 - 53, 12); con il secondo tende a sottolineare sia la concretezza dell'amore che i discepoli debbono avere gli uni per gli altri e verso tutti, sia il capovolgimento escatologico di valori nella storia degli uomini.

La diakonia indica originariamente «servizio a tavola», la «dove il contrasto tra l'uomo ragguardevole che sta a mensa e colui che serve, avendo cinto la veste, o la donna che attende al servizio, è particolarmente sensibile» Gesù ha ben presente questa situazione: «Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: "vieni e mettiti a tavola"?. Non gli dirà piuttosto: "Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finche io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu"?» (Lc 17, 7-8). Ma, allo stesso tempo, egli rovescia questo ordine sociale, partendo da se stesso. Si presenta così come «quel signore (kyrios) che, quale immagine di Dio, apparecchia ai suoi servi il banchetto escatologico: "si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passera a servirli" (Lc 12,37)". E agisce di conseguenza, come ci mostra la scena della lavanda dei piedi nell'ultima cena (cf. Gv 13,3-5.12-17). È in questo contesto, infatti, che egli da il comandamento nuovo.

Il comandamento del servizio e della reciproca lavanda dei piedi diventa perciò la legge di vita della comunità messianica, in cui non vi è autorità se non come espressione di agape e di diaconia: «voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è cosi; ma chi vuol essere grande tra voi, si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi, sarà il servo di tutti» (Mc 10,42-45 e par.; cf. Lc 22,24-28; Mc 9,33-37 e par.). Per questo, seguendo Gesù, anzi partecipando del suo ministero messianico, che è ministero di diaconia all'uomo, la comunità cristiana postpasquale descriverà con il termine diaconia la sua vita, la sua missione e i suoi specifici ministeri. Anzi, comprenderà se stessa come «il luogo in cui la sequela di Gesù è vissuta nella diaconia».

C. L'AMORE PREFERENZIALE PER I POVERI

Proprio per questo, il segno distintivo della comunità cristiana, perché segno distintivo del kerigma e della prassi di Gesù, è l'amore preferenziale per i poveri.

È evidente che il rivolgersi di Gesù ai poveri come destinatari privilegiati dell'annuncio e dell'avvento del Regno va letto nella prospettiva dell'esodo e del messaggio profetico, ma anche sottolineando la decisiva novità escatologica dell'evento Gesù. Nella sinagoga di Nazareth, all'esordio del suo ministero messianico, Gesù - secondo il racconto lucano (cf. 4, 16-30) si rifà alla profezia del Deutero-Isaia: «veni evangelizare pauperibus». Dopo averla letta dal «rotolo del libro», Egli annuncia: «oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi» (4, 21). Lo stesso annuncio ritroviamo, in forma paradigmatica è straordinariamente incisiva, nel discorso delle beatitudini (cf. Mt 5, 3-18; Lc 6, 20-26), L'essenziale è comprendere per quale motivo i poveri (categoria in certo modo riassuntiva di tutte le altre, cui Gesù si rivolge in questa pagina) sono «beati»: «perché di essi è il Regno dei cieli». E cioè, perché JHWH interviene proprio a loro favore, introducendoli nello spazio di una nuova e piena libertà e comunione con Lui e tra loro. È questo, infatti, il senso della proclamazione della beatitudine da parte di JHWH verso il suo popolo (e in particolare verso il suo resto fedele e povero), già presente nell'Antico Testamento. Basti pensare al Salmo 146.

Il fatto è che Gesù non solo annuncia quest'intervento escatologico di JHWH, ma, nella sua concreta prassi, lo rende attuale ed efficace. Come mostra - per tutti - l'episodio narrato da Matteo, quando il Battista, «che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, mando a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: "sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?"» (Mt 11, 2-3). Gesù risponde: «Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi acquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella» (Mt 11, 4-5).

È indubbia, dunque, e coerente con la promessa veterotestamentaria, la precedenza e la preminenza che, nell'annuncio dell'avvento del Regno e dell'amore di Dio, hanno per Gesù di Nazareth i poveri, nel senso integrale e ampio, materiale e spirituale del termine. Lo stesso chiedersene il perché mostra che si è lontani dal sentire come Gesù. In ogni caso è importante esplicitare le ragioni che illuminano questa prassi di Gesù e della comunità cristiana.

- Innanzitutto, già al di fuori dell'orizzonte della fede biblica il volto del povero, del debole, dell'inerme è di per se un'interpellazione etica che richiama in modo irrevocabile la coscienza umana all'accoglienza e alla giustizia nei confronti dell'altro. E la fede biblica ne è un'esplicitazione (cf. E. Levinas).

- Ma il fondamento ultimo dell'opzione preferenziale per i poveri è l'azione di un Dio che è misericordia e Amore, e che quindi, proprio perché ama tutti, non può non privilegiare gli ultimi affinché il suo amore sia veritiero, realistico ed efficace.

- Inoltre - e in modo decisivo - l'azione di Dio ha il suo culmine escatologico in Cristo: il suo kerigma, la sua prassi e l'esito pasquale della sua vicenda storica mostrano appunto che Dio ama i poveri non solo al punto di condividere la loro situazione, ma addirittura di identificarsi con essa.

E proprio attraverso questa identificazione per amore che Dio trasforma la situazione dei poveri, donando il suo Spirito, che è la forza di amore-libertà interiore all'uomo che rinnova e libera, nella giustizia, i rapporti con Dio e tra gli uomini a partire dalla conversione del cuore: per cui lo Spirito del Risorto diventa lo spazio della nuova terra promessa in cui gli uomini sono chiamati a vivere nella comunione e nella giustizia della nuova Alleanza, che ha pertanto una valenza sociale, politica ed economica. È questa, in fondo, la prospettiva in cui va letta l'esperienza della comunità primitiva descritta dagli Atti degli Apostoli, dove Luca può affermare che non c'era più povero in mezzo a loro (secondo la promessa del Deuteronomio).

D. L'AMORE AL NEMICO

Altro grande segno distintivo del kerigma e della prassi di Gesù è certamente il superamento della legge del taglione e la formulazione in positivo dell'amore per il nemico: come, ad esempio, in Mt 5, 38-48 16,

Quando Gesù afferma di «non contrapporsi» al malvagio tradurrei preferibilmente cosi il greco antìstemi, nel senso di: non pagare il malvagio con la sua stessa moneta, piuttosto che nei termini del «non opporsi». che può rendere ambigua la comprensione del significato del loghion, vuol dire che occorre vincere il male con il bene. ritrovando in sé (con la grazia di Dio) le risorse per rispondere in modo positivo all'affronto ricevuto, rompendo la catena della violenza.

Formulando il comandamento dell'amore per i nemici in chiave positiva, Gesù introduce delle specifiche e concrete indicazioni per una prassi alternativa ed efficace. I suoi discepoli «devono amare senza sperare di essere ricambiati, prestare anche quando sanno che non ci sarà restituzione, dare senza riserve e senza limiti. Essi devono accollarsi l'ostilità del mondo volenterosamente, senza opporre resistenza e con spirito di sacrificio (Lc 6, 28); anzi devono beneficare chi odia, ricambiare le maledizioni con benedizioni e pregare per i loro persecutori (Lc 6, 27s.; Mt 5, 44)» 18, Gesù - non bisogna sottovalutarlo - parla positivamente di agape verso i nemici: il che significa che l'amore che Lui predica non è un sentimento (che, altrimenti, non sarebbe possibile provare un sentimento di trasporto verso chi ci ha fatto del male), ma una determinazione della libertà che decide di volere il bene dell'altro, anche del nemico, costi quel che costi. È importante, dunque, sottolineare alcune caratteristiche di questo comandamento dell'amore al nemico:

- è il comandamento di una nuova epoca, quella dell'avvento del Regno, come sottolinea la formula antitetica, tipicamente gesuana, nella cornice della quale è presentato («fu detto dagli antichi... ma io vi dico» [Mt 5, 21.43]);

- è espressione suprema di gratuita, di quel dare senza aspettare il contraccambio che è tipico del vero amore, anzi «questo amore del nemico è l'agape, l'amore stesso senza fondo col quale Dio ci ama, la spia per vedere se realmente abbiamo conosciuto e sperimentato Dio»;

- per questo è anche espressione di quel «di più» dell'amore, che ne sottolinea la caratteristica feconda, creativa, inesauribile, di continuo autotrascendimento: «se infatti amate quelli che vi amano che merito ne avete? Non fanno cosi anche i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che cosa fate di più? Non fanno cosi anche i pagani?» (Mt 5, 46-47);

- implica una strategia di non-violenza attiva che mira a modificare in positivo la posizione dell'avversario (la gratuita non è in contraddizione con una sincera intenzione di provocare la reciprocità), è un amore ricreatore: «se amare è come generare un figlio, perdonare è come risuscitare un morto»;

- e lo stile tipico della vita comunitaria del popolo della nuova Alleanza in mezzo al mondo (basti solo pensare alla prassi della comunione fraterna e della riconciliazione di cui parla Mt 18): non solo nel senso che deve regolare i rapporti all'interno della comunità, ma anche che deve mostrarsi in modo leggibile e coerente come una nuova regola della convivenza umana, che può essere vissuta e testimoniata con perseveranza da chi è impegnato in una coerente esperienza di sequela comunitaria di Gesù Cristo,

In ogni caso, non bisogna dimenticare che il modello, e la fonte, dell'atteggiamento di misericordia-perdono verso i fratelli è il Padre: per cui questo comandamento si presenta come l'ultima conseguenza dell'autocomunicazione salvifica dell'amore di Dio. Non per nulla la legge di santità del Levitico, in Matteo ancora formulata nei termini più generali della «perfezione» (5, 48), diventa in Luca: «siate misericordiosi, com'è misericordioso il Padre vostro» (7, 36). Se vedo le cose e le persone (tutte, e quindi anche i nemici) con gli occhi di Dio non potrò volere che il loro bene, a qualunque costo.

LA CARITÀ; NELL'EDIFICAZIONE

E NELLA MISSIONE DELLA COMUNITÀ; CRISTIANA

1. LA COMUNITÀ; CRISTIANA COME COMUNITÀ;' DI CARITÀ;

Si è giustamente fatto notare che vi è un pericolo, a livello teologico ma anche pratico, rispettivamente nell'intendere e nell'attuare l'identità e la missione della comunità cristiana nei termini della carità: quello di definire la Chiesa come «soggetto della carità» in funzione delle povertà, materiali e spirituali, della società (cf. le analisi sociologiche di Luhmann e Parsons). Ma questo pericolo non si dà quando s'intenda la carità nel giusto e integrale significato e nel suo intimo rapporto con la fede cristiana, come abbiamo cercato di fare.

Dire, infatti, che la Chiesa è «sacramento della carità di Cristo» nella storia, significa affermare che la Chiesa è realizzazione storica (e dunque certamente limitata e insidiata dal peccato) di quell'evento di carità che Cristo ci rivela e ci comunica nel suo Spirito. che viene a indicare che la Chiesa è il luogo in cui i discepoli di Gesù Cristo sono chiamati e s'impegnano a vivere - nell'adesione alla parola del Signore e per la grazia del battesimo e dell'eucaristia - il comandamento nuovo del Cristo è l'amore verso tutti, soprattutto verso i poveri e i nemici, concretamente e costi quel che costi. È cosi, innanzi tutto, che la comunità cristiana diventa (per grazia) il luogo in cui la verità della carità di Dio si attua nella vita degli uomini, rendendosi percepibile e, direi, tangibile. È cosi che la Chiesa è nella storia «germe e inizio del Regno di Dio» (cf. LG 5).

Sulla base di questo presupposto si manifesta la missione di carità della Chiesa: che significa, insieme, annuncio del vangelo di Cristo e servizio concreto all'uomo come due modalità correlate dell'evento di verità-carità di cui essa, appunto, e sacramento. È evidente, infatti, che una Chiesa-carità e, perciò, comunione vissuta, non può non dischiudersi, anzi non essere costitutivamente aperta - in un movimento di espropriazione che prolunga e manifesta quello del Cristo crocifisso - nello slancio dell'evangelizzazione e della promozione umana. La carità reciproca tra i credenti implica di per sé la carità dell'annuncio e la carità del servizio ai poveri: metterle in contrapposizione significa non aver compreso sino in fondo che cos'è la carità di cui ci parla il Nuovo Testamento.

2. CONSEGUENZE PASTORALI: UN'OSMOSI VITALE DI PAROLA, SACRAMENTO, CARITÀ;

Da questa visione ecclesiologica, che, riportando tutto alla radice (cf. Ef 3, 17) o alla forma dell'essere e dell'agire ecclesiali, intende esprimere nella loro unità la comunione e la missione, l'evangelizzazione e la promozione umana, discendono molte conseguenze a livello della pastorale. Mi limito a segnalarne due, cui del resto fa cenno ETC. Intanto c'è da dire che mi pare abbia colto pienamente nel segno G. Ambrosio, quando riconosce «un intento certamente ambizioso, comportante non solo un rinnovamento ma una vera e propria riforma della pastorale» nell'affermazione della nota ufficiale che introduce il documento, secondo cui si tratta di far emergere «la dimensione teologale delle molteplici forme di servizio ai fratelli».

Quest'ambizione è espressa nel punto 1 della seconda parte di ETC: «Rifare con l'amore il tessuto cristiano della comunità ecclesiale» (nn. 26-30), affermazione che riprende il primo contenuto della nuova evangelizzazione nella formulazione che ne ha dato Giovanni Paolo II nella Ckristifideles laici (n. 34). Evidentemente, con questa indicazione, egli ha voluto sottolineare che un autentico e rinnovato impulso missionario esige una continua opera di ri-evangelizzazione della Chiesa che vive «sub Verbo Dei», in atteggiamento di conversione e di riforma: conversione alla carità, riforma nella carità.

Al n. 28 vengono enunciati, nel contesto della pastorale ordinaria, «gli obiettivi principali che dobbiamo proporci in questo decennio: far maturare delle comunità parrocchiali che abbiano la consapevolezza di essere, in ciascuno dei loro membri e nella loro concorde unione, soggetto di una catechesi permanente e integrale (...), di una celebrazione liturgica viva e partecipata, di una testimonianza di servizio attenta e operosa; favorire un'osmosi sempre più profonda fra queste tre essenziali dimensioni del mistero e della missione della Chiesa».

Innanzi tutto, quando si afferma che la comunità cristiana è chiamata a diventare soggetto responsabile e maturo di catechesi e annuncio, di celebrazione liturgica e di testimonianza della carità, si precisa: «in ciascuno dei loro membri e nella loro concorde unione», volendo significare che ogni battezzato, nella peculiarità della sua vocazione, del suo ministero, del suo carisma non può dirsi tale se non vive di e da queste inscindibili dimensioni della sua esistenza cristiana. Se ciò si realizza, ciascuno diventa Chiesa, «anima ecclesiastica» come dicevano i Padri e come tale «celebra, annuncia e testimonia il vangelo della carità». Di converso - e contemporaneamente - ciò si realizza se la comunità cristiana, nella sua vita e nelle sue strutture, cresce nell'esprimere e nell'articolare un'equilibrata e feconda osmosi tra parola, sacramento, testimonianza. La maturazione (e conversione) personale, quella comunitaria e quella strutturale crescono di pari passo, e reciprocamente.

Una riflessione adeguata meriterebbe poi l'accostamento che viene proposto tra catechesi ed evangelizzazione, vita liturgica e sacramenti, testimonianza e servizio di carità.

A mio avviso, la carità va posta a un livello diverso da quello della Parola e del sacramento. È evidente, infatti, che bisogna distinguere almeno tre significati del termine carità: 1) la carità come grazia di Dio, partecipazione agli uomini nello Spirito Santo della sua stessa vita divina; 2) la carità come virtù del cristiano e legge di vita della Chiesa; 3) la carità come servizio concreto (diaconia) del singolo e della comunità nei confronti dei fratelli e in primis dei poveri.

Nel primo senso la carità non è altro che il contenuto centrale della Parola e la grazia del sacramento, come ho detto nella prima parte. Ma perché l'uno e l'altra diventino efficaci è necessaria la libera e fattiva accoglienza del credente: per questo si può dire che la Chiesa si fa evento la dove entrano in gioco questi tre elementi - la Parola annunciata ed accolta, il sacramento realizzato, la vita dell'amore reciproco e verso tutti. Infine, nel terzo senso, la carità definisce un servizio e una testimonianza concreti, del singolo e della comunità, attraverso cui la grazia e tradotta in «opera»: ma allora si tratta di un ministero della carità come servizio, in primo luogo, ai poveri, e che si articola con il ministero della Parola e con quello sacramentale e liturgico, un ministero che ha la loro stessa dignità.

3. STRUTTURE ECCLESIALI: LA CARITÀ; ORGANIZZATA

Una parola mi preme dire sulle forme di partecipazione e di corresponsabilità che sono nate dal Concilio Vaticano II (penso ai Consigli presbiterali, ai consigli pastorali, ai Sinodi diocesani...).

Sono delle realtà assolutamente necessarie, perché l'ecclesiologia di comunione non rimanga a livello dei principi, ma diventi, con tutta la difficoltà delle cose umane e la lentezza dei tempi umani, carne e sangue di tutto il popolo di Dio. Esse fanno sì che la carità quale stile di vita del Popolo di Dio che regola i suoi rapporti come espressione di comunione, di missione e di servizio, diventi operante non solo nei rapporti tra i singoli, ma anche nella gestione della vita ecclesiale. Queste strutture sono, perciò, una forma essenziale attraverso cui la carità diventa organizzata. In esse si incontrano tutte le esperienze di vita della Chiesa, quelle più tradizionali (parrocchie, comunità di vita consacrata) e quelle che sono fiorite in questi anni: associazioni, movimenti, gruppi biblici, comunità di base, gruppi di preghiera, volontariato, strutture di impegno nel sociale...

Questo mi pare un dato fondamentale che l'ecclesiologia del Vaticano II mette in luce: occorre fare molta attenzione alla dinamica dell'incarnazione della carità cristiana nella storia Il rapporto tra coscienza di comunione e strutture di comunione è un rapporto di necessita teologica e non semplicemente strategica, perché riflette il mistero dell'Incarnazione. Nello stesso tempo dev'essere anche un rapporto che chiamerei di provvisorietà, appunto perché l'incarnazione delle strutture deve sempre tener conto dell'eccedenza del mistero e di quella che oggi siamo abituati a chiamare la riserva escatologica: e cioè la relatività di ogni traduzione storica del mistero e la sua tensione verso un definitivo che è sempre opera di Dio.

L'impressione è che si è fatto certamente uno sforzo notevolissimo per cercare di dar vita a queste strutture. Sinceramente devo però dire - anche in base all'esperienza concreta che ho fatto - che non mi sembra che queste strutture riescano del tutto a funzionare bene. Perché mi sembra che le persone che sono chiamate a costituirle e a metterle in atto, nella grande maggioranza non hanno avuto la possibilità di avere una formazione adeguata, spirituale e pratica, ai principi di una ecclesiologia di comunione.

Questi principi di cui vive l'ecclesiologia di comunione, direi che sono di due ordini.

Innanzi tutto, sono di natura spirituale. Si può qui ricordare, in sintesi, quello che diceva Y. Congar: la Chiesa, prima del Concilio Vaticano II, aveva alla sua base un tipo di spiritualità forgiato sul principio dell'obbedienza; mentre l'ecclesiologia del Vaticano II richiede una spiritualità della carità e dell'unità, il che implica un profondo rinnovamento nel modo di rapportarsi alla Parola, all'Eucaristia, ai fratelli nell'unico popolo di Dio, nella distinzione dei ruoli, ma sulla base anche della loro comune dignità battesimale. Molte volte si vede che in questi organismi non c'è la capacita - non per colpa o per cattiva volontà, ma, ripeto, per mancanza di formazione adeguata - di vivere concretamente la comunione con gli altri, di ascoltarsi, di accogliere l'altro come un dono, di convergere verso l'unita, di rispettare la legittima e arricchente diversità. Occorrono «scuole di ecclesiologia di comunione/conversione reale nella carità».

In secondo luogo, si tratta di principi operativi che consentono di trovare le formule adatte perché questo rinnovamento spirituale si concretizzi poi in un preciso stile di partecipazione e di corresponsabilità: che sarà il modo di affrontare un tema, di attuare il discernimento della situazione, di giungere a un consenso, il modo di prendere delle decisioni, di metterle in atto e di trasmetterle alla comunità. È tutto un campo nuovo e impegnativo da attuare.

4. VANGELO DELLA CARITÀ; E SOCIETÀ;

Come ultimo punto vorrei dire qualcosa intorno al rapporto tra il vangelo della carità e la vita della comunità cristiana nel contesto della società. È evidente, in ETC ed anche nel titolo del Convegno nazionale di Palermo del novembre '95 - «Il vangelo della carità per una nuova società in Italia» - la volontà di richiamare l'incidenza del vangelo della carità nella delicata situazione culturale, sociale, economica e politica del nostro paese.

La carità, in realtà, deve ispirare non solo la singola azione di promozione umana e il servizio organizzato dalla comunità cristiana nei confronti delle varie forme di povertà, ma anche una progettualità culturale, sociale, economica e politica dei fedeli laici volta a predisporre le condizioni possibili e necessarie per favorire la crescita integrale e solidale della nostra società e, insieme, dell'umanità nel suo complesso. È il tema della «carità politica». In questo contesto va compresa un'affermazione che a ben vedere rappresenta la chiave di lettura del punto 3 della seconda parte di ETC («Le nuove frontiere della testimonianza della carità»): «Dobbiamo avere sicura coscienza che il vangelo è il più potente e radicale agente di trasformazione e di liberazione della storia, non in contraddizione, ma proprio grazie alla dimensione spirituale e trascendente in cui è radicato e verso cui orienta» (n. 38).

Ciò significa che il vangelo della carità sprigiona da sé quella che - seguendo la suggestione di Paolo VI Octagesima adveniens - possiamo definire l'utopia concreta della carità. Nel contesto odierno di caduta delle ideologie, di primato del pragmatismo economicistico e di tendenziale affermazione dell'istanza liberista, ciò che va riscoperto e riproposto nelle e dalle comunità cristiane è proprio quell'utopia che - secondo Paolo VI - è una «forma di critica della società esistente», di stimolo alla «immaginazione prospettica» per «percepire nel presente le. possibilità che vi si trovano inscritte e per orientare gli uomini verso un futuro nuovo», dando «fiducia alle forze inventive dello spirito e del cuore umano», e «sostenendo la dinamica sociale» (OA 37). Elementi qualificanti dell'utopia concreta della carità sono, nel rispetto e nella promozione della dignità e libertà di ogni uomo, il principio della destinazione universale dei beni, l'opzione preferenziale per i poveri e l'impegno etico alla solidarietà universale e al bene comune non solo della società in cui si vive, ma dell'umanità nel suo insieme, nella ricerca della giustizia, della pace, della salvaguardia del creato.

Ciò significa, concretamente, che l'impegno sociale e politico dei cristiani è chiamato a fare un salto di qualità, affinché il vangelo della carità diventi profetico e operante «per una nuova società in Italia». Troppo spesso - fino ad assuefarci - abbiamo assistito, nelle forme in cui questo impegno si è concretizzato negli anni passati, a una divaricazione quasi schizofrenica: da un lato, l'avanguardia profetica, a livello di prassi ed anche di stimolo critico, di attenzione alle antiche e nuove povertà, materiali e spirituali, locali e internazionali; dall'altro, una presenza politica il più delle volte appiattita su un pragmatismo organico allo status quo entro cui veniva inevitabilmente a spegnersi la spinta rinnovatrice del Vangelo.

L'inversione di tendenza e il salto di qualità a cui il vangelo della carità sollecita in proposito la comunità cristiana riguarda, innanzi tutto, la consapevolezza delle necessarie e originali implicazioni sociali del vangelo in prospettiva rinnovatrice ed utopica. Anche se esse - o proprio perché esse possono di fatto essere oggi controcorrente. ETC sottolinea che «già l'Antico Testamento ha messo in luce come la giustizia di Dio intenda permeare tutti i rapporti umani, persino, e si direbbe in modo quasi privilegiato, i rapporti economici. Il regno di Dio si manifesta e prende volto in una società nella misura in cui questa assume tratti di giustizia e di solidarietà. Tutto ciò vale, a maggior ragione, anche per il Nuovo Testamento, come mostra, in particolare, l'esperienza delle primitive comunità cristiane, dove "nessuno tra loro era bisognoso" (At 4, 34; cf. Dt 15, 9)» (n. 23). Ne consegue che di questa testimonianza della carità in ambito sociale e politico «l'intera comunità ecclesiale, nella distinzione dei suoi ruoli e dei suoi compiti, è chiamata a essere soggetto e ogni cristiano deve sentirsi in essa personalmente impegnato» (n. 37).

Senza questo afflato e quest'energia utopica, che viene dallo «Spirito del Signore, che anima l'uomo rinnovato nel Cristo, scompiglia senza posa gli orizzonti dove la sua intelligenza ama trovare la propria sicurezza, e sposta i limiti dove si rinserrerebbe volentieri la sua azione» (OA 37), l'impegno personale e comunitario dei credenti non è oggi all'altezza della novità reale introdotta nella storia da Gesù Cristo crocifisso e risorto.

Il vangelo della carità sollecita la comunità cristiana a maturare una coscienza e una prassi che unifichino, distinguendoli, l'impegno profetico in campo sociale, di una carità che «sa individuare e dare risposta ai bisogni sempre nuovi che la rapida evoluzione della società fa emergere» (ETC 38); è quello in campo politico di una partecipazione alla gestione della cosa pubblica che abbia come criterio-guida il bene comune della società umana e il bene integrale della singola persona.

Le due direttrici di questo impegno sono la solidarietà come anima della giustizia e la riconciliazione come strada della pace. Entrambe esigono la povertà di spirito a livello personale e comunitario. Solo «la povertà come beatitudine, sopprime il grido di povertà». Nel senso che solo l'atteggiamento dei poveri di JHWH sa accogliere la grazia e la prassi di carità tipica del regno.

CONCLUSIONE

È questa l'utopia concreta del vangelo della carità: la configurazione alla povertà del Crocifisso per partecipare alla koinonia del Risorto, in cui ognuno trova libera accoglienza in qualità di soggetto. e dove «non c'è più giudeo né greco, non c'è più schiavo né libero, non c'è più uomo né donna» (Gal 3, 28). È vero - come per san Paolo - che «se non ho la carità, non sono nulla» (1 Cor 13, 2). Ma è altrettanto vero che se non mi faccio nulla, se non abbraccio madonna povertà nel Cristo Crocifisso (cf. Mc 10, 21) e nel povero in cui Cristo mi si fa prossimo (cf. Mt 25, 40), non ho la carità.