XXXI DOMENICA T.O.A
1 In
quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo :
“Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. 3 Quanto
vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché
dicono e non fanno. 4 Legano
infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non
vogliono muoverli neppure con un dito. 5 Tutte
le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini:allargano i loro
filattèri e allungano le frange; 6 amano
posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe 7 e
i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbì”dalla gente. 8 Ma
voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi
siete tutti fratelli. 9 E
non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro,
quello del cielo. 10 E
non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. 11 Il
più grande tra voi sia vostro servo; 12 chi
invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato.”
[Mt 23, 1-12]
Gesù
si trova a Gerusalemme. Sono gli ultimi
giorni della sua vita. Il brano di oggi è l’inizio del suo ultimo discorso
pubblico, che sfocerà in una violenta requisitoria contro le guide spirituali
del popolo (per sette volte “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti!”).
Nella linea dei profeti che condannavano i capi di Israele (cfr. Mal.
1,14-2,10: I lettura), Gesù con molta franchezza denuncia e smaschera i limiti
vistosi che manifestano i responsabili della comunità giudaica: scribi e
farisei, cioè i teologi, gli intellettuali che col loro prestigio culturale
esercitano un notevole influsso sul popolo e lo frenano nell’aprirsi al suo
Vangelo. Gesù non contesta la loro autorità di maestri incaricati di spiegare
la Legge, ma una serie di abusi molto gravi.
-
“Dicono e non fanno”. Parole e fatti si contraddicono. La loro
prassi di vita non è coerente col loro
insegnamento e lo scredita. “Predicano bene, ma razzolano male”.
-
Sono legalisti esigenti e rigidi con gli altri, ma accondiscendenti con se
stessi.
-
Quello che fanno lo fanno per ostentazione. Sono malati di esibizionismo. Non
fanno il bene per se stesso e nell’intento di piacere a Dio, ma solo per essere
visti e riscuotere l’ammirazione della gente. In tutto mirano a mettersi in
mostra e a richiamare l’attenzione su di sé. Così es. “allargano i loro
filattèri e allungano le frange”.
I “ filattèri” erano scatolette di cuoio che contenevano (propriamente
“custodivano”) brevi testi della Legge. Si portavano legate sul braccio
sinistro e sulla fronte. Il significato era molto suggestivo: la Parola di Dio
deve essere ricordata (la fronte) e messa in pratica (il braccio). Essi le
ingrandivano per renderle più visibili e tutto si riduceva a pura esteriorità.
Così pure aumentavano la lunghezza delle “frange”, quattro fiocchi appesi agli
angoli della veste (avevano lo scopo di ricordare l’osservanza dei
Comandamenti: cfr. Num. 15, 38-41). Tutto questo per mostrare la loro devozione
alla Legge. Inoltre in ogni ambito della vita sociale vogliono essere onorati a
causa della loro posizione: nei banchetti in case private, nelle cerimonie
della sinagoga, nella vita pubblica per le strade e nelle piazze.
“Amano sentirsi chiamare dalla gente
“rabbì”(= “ maestro mio” o “signore mio”; cfr. in italiano “monsignore”, “eccellenza”).
Insomma, per il ruolo che svolgono devono riscuotere dovunque rispetto e venerazione. Al centro non c’è Dio né il
loro servizio né coloro a cui offrono l’insegnamento, ma la loro persona che tutti devono circondare di
onore.
Sarebbe
fin troppo facile mostrare con esempi concreti come gli atteggiamenti
denunciati e messi in ridicolo con fine ironia da Gesù si ripetano puntualmente
nei più diversi strati e settori della nostra società.
Ma
come cristiani non possiamo non sentirci interpellati in prima persona: il far
parte della Chiesa non significa essere automaticamente esenti da tali limiti.
Tutt’altro. Gesù lo sapeva e lo sa. Quando Matteo scrive il Vangelo, nel
riportare questa critica di Gesù, pensa sicuramente ai capi farisei che in quel
tempo guidavano la comunità giudaica , da cui la Chiesa aveva preso le distanze
e da cui era anche perseguitata. Ma intende pure correggere le medesime
contraddizioni che all’interno della comunità cristiana manifestano coloro che,
rivestiti di autorità o titolari di qualunque incarico, se ne servono per il
proprio prestigio o per interessi personali.
<<Ma
voi non fatevi chiamare “rabbì”...E non chiamate nessuno “padre” sulla
terra...E non fatevi chiamare “maestri”( propriamente “coloro che
indicano la via” o “guide”)>>. Questi tre titoli, che si davano ai
maestri ebrei, i cristiani non possono attribuirli a nessuno, perché sono
riservati il primo e il terzo soltanto a Cristo e il secondo a Dio.
Non
è tanto questione di titoli onorifici di cui si fregiavano e con cui si
facevano chiamare i maestri giudei, ma è piuttosto questione di contenuti che
si nascondono dietro quei titoli. Non è cioè in gioco una puerile e ingenua
vanità, ma la concezione della Chiesa.
Questa
per Gesù è una realtà alternativa alla società di allora e di oggi. Nella sua
famiglia tutti sono “fratelli”, perché “uno solo è il Padre
vostro, quello del cielo”, e tutti sono discepoli “perché
uno solo è il vostro Maestro (cioè Gesù)...una sola è la vostra
guida (il vostro leader), Cristo”. Tutti perciò, senza
eccezione, godono di una uguale dignità, perché ciascuno è figlio e discepolo
allo stesso titolo.
Gesù esige che nei loro rapporti ciò che li
differenzia passi in secondo piano,
mentre in primo piano deve stare ciò che è comune tra loro. Ciò che hanno in
comune, il dono uguale per tutti, è appunto la loro relazione con Dio e con
Gesù: Dio è l’unico vero Padre di tutti e Gesù è l’unico vero Maestro e Guida.
I cristiani, prima di essere qualcosa di diverso l’uno dall’altro, prima di
svolgere compiti differenti, sono in una posizione di uguale dignità. perché
figli di un unico Padre, quindi fratelli, e discepoli di un unico Maestro Gesù.
Nella
Chiesa, se in primo piano c’è questa fondamentale uguaglianza, le differenze
però rimangono. Non c’è un livellamento piatto e informe. Per es. Gesù ha
assegnato a Pietro un servizio speciale (Mt. 16,18ss) e così pure ai Dodici
(Mt. 9,36- 10,42 etc). Non abolisce il nome di padre, anzi richiede con forza
il rispetto del padre e della madre (Mt. 15,4; 19,19). Se chiede ai discepoli
di non farsi chiamare maestro, padre, guida (nel senso che non devono
pretenderlo, come segno di superiorità sugli altri), tuttavia desidera che si
comportino come maestro, padre e guida. Ma nel legame con Lui, l’unico
Mastro, e col Padre. E solo per servire i fratelli. Non nega la presenza
nella Chiesa di un’autorità, che sarà esercitata in nome di Lui, l’unico
Signore, e come un servizio d’amore “Il più grande tra voi sia vostro
servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato (da Dio)e chi si
abbasserà sarà innalzato(da Dio)”. E’ evidente il richiamo a Mt 20,
26-28 dove Gesù delinea la fisionomia della sua comunità, in contrapposizione e
in alternativa alla società civile.
Chiunque
è chiamato a svolgere un compito dentro la comunità deve farsi “amore che
serve”, imitando quale modello supremo Gesù, che per amore si è abbassato
fino alla morte ed è stato glorificato dal Padre (cfr. Fil 2, 6-11). Commovente
a questo riguardo è la testimonianza di Paolo, che –perfetto imitatore di Cristo- svolge un
servizio…materno, un servizio pronto a dare la vita per i suoi cristiani (1Ts
2, 7-13: II lettura). La comunità cristiana è allora il luogo dove l’esperienza
di Dio come Padre e l’esperienza della fraternità determinano e plasmano il
modo di agire, di vivere, di relazionarsi reciprocamente, in un’atmosfera di
famiglia. Dove, di conseguenza, nessuno potrà mai essere considerato un
estraneo, un rivale. Ma un “fratello per il quale Cristo è morto” (1
Cor. 8,11). Un altro te stesso: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt. 22, 39). Un altro
Gesù: “lo avete fatto a me” (Mt 25,40).
In
questa comunità di discepoli tutti intenti ad accogliere la Parola (cfr. II lettura), di fratelli,
di servi, l’amore che li lega e li fa famiglia si espande ad abbracciare
ogni persona, amata da Dio, in modo unico e irripetibile, e candidata
all’incontro definitivo con Lui. “Per me ogni persona che è come se fosse unica al mondo” ( Madre
Teresa di Calcutta).
Se
noi cristiani vivessimo con più coerenza la fraternità reciproca e fossimo più
accoglienti verso ogni uomo, quanti sentirebbero la nostalgia di far parte di
questa famiglia!
“In
tutto amare e servire” ( S. Ignazio di Loyola).
La
società di oggi - società dell’immagine, della facciata, dove l’importante è il
look, il far bella figura, l’apparire - in che misura influenza e condiziona noi cristiani? La critica severa di
Gesù ci tocca direttamente e in quali atteggiamenti e azioni?
La
nostra relazione con Dio e con Gesù, l’essere “con-fratelli e con-discepoli”,
fino a che punto è diventata convinzione profonda in noi e si riflette nei
nostri rapporti concreti?
Davanti
a ogni persona cerco di essere “amore che serve”, anzi “Gesù che serve”?