15 In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva
ridotto al silenzio i sadducèi, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di
coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16 Mandarono dunque a lui i propri discepoli, con gli
erodiani, a dirgli: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di
Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia
ad alcuno. 17 Dicci dunque il tuo parere: È lecito o no pagare il
tributo a Cesare? ”. 18 Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose:
“Ipocriti, perché mi tentate? 19 Mostratemi la moneta del tributo”. Ed essi gli
presentarono un denaro. 20 Egli domandò loro: “Di chi è questa immagine e
l’iscrizione? ”. 21 Gli risposero: “Di Cesare”. Allora disse loro:
“Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”.
[Mt 22, 15-21]
“ E’ lecito o no pagare il tributo a Cesare?” E’ una domanda trabocchetto
quella che gli avversari pongono a Gesù.
Ogni ebreo, dai quindici ai sessantacinque anni, era tenuto a pagare
all’imperatore un tributo personale che consisteva in un denaro d’argento: una
speciale moneta romana che, in quel tempo, portava impressa l’immagine
dell’imperatore con la scritta “Tiberio Cesare, figlio del divino Augusto,
Augusto”. Corrispondeva al salario di una giornata lavorativa. Da gran parte
del popolo- e in particolare dai farisei - era visto come un segno infamante
della sottomissione a Roma. C’era anche chi - come l’ala estremista degli
zeloti - considerava tale pagamento un atto d’idolatria, un rinnegamento del
Dio unico per riconoscere il “divino” imperatore.
La domanda, estremamente insidiosa, sembra non
lasciare a Gesù via d’uscita. Se risponde “Pagate”, perderà la stima del
popolo, attirandosi disapprovazione e antipatia. Passerà per un nemico del
popolo. Se invece risponde “Non pagate”, potrà essere denunciato all’autorità
romana come sobillatore e ribelle.
Gesù smaschera la loro malizia e ipocrisia. Essi
dispongono del denaro, che Egli invece non ha: usando la moneta romana e
traendone vantaggio, dimostrano di accettare la sovranità dell’imperatore. La
risposta di Gesù li sorprende e li spiazza: “Rendete dunque a
Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Pagare il
tributo all’imperatore non è mancare di fedeltà a Dio. Non solo è lecito, ma
doveroso. Lo stato ha la sua ragion d’essere. I veri credenti sono leali verso
di esso, buoni e onesti cittadini. Così facendo, onorano Dio. Nella stessa
linea si muoveranno San Paolo (cfr. Rm 13,1ss) e San Pietro (cfr. 1Pt 2,
13-14).
Ma nella
risposta di Gesù l’accento con tutta la sua forza cade sulla seconda parte: “e
a Dio quello che è di Dio”. Gesù rivendica la posizione unica ed
esclusiva che Dio occupa nella vita dell’uomo. Era già l’appello che risuonava
nel testo di Isaia (45, 1-6: I lettura): “Io sono il Signore e non c’è alcun
altro; fuori di me non c’è dio…Non esiste dio fuori di me. Io sono il Signore e
non c’è alcun altro”. A Dio
non dovete dare una moneta, ma ciò che è suo, vale a dire interamente voi
stessi, la vostra esistenza, la vostra persona: “Amerai il Signore Dio tuo
con tutto il cuore etc.” (Mt. 22,37). Il senso è pure che se Cesare, cioè
il potere politico, attentasse ai diritti di Dio, pretendendo di imporre ciò
che contrasta con la sua volontà - e quindi col vero bene delle persone -, in
tal caso il credente dovrà ubbidire a Dio e non allo stato. E’ importante
cogliere nella risposta di Gesù la sua logica di fondo: come la moneta porta
l’immagine dell’imperatore e quindi a lui va restituita, così ogni uomo reca
impressi il sigillo e l’immagine di Dio (cfr. Gn 1,26-27) e quindi è da
restituire a Lui in una appartenenza totale e senza ombra. L’immagine di Dio
che portiamo in quanto creati da Lui è divenuta chiara e inconfondibile in
virtù del battesimo, che ci ha resi conformi a Cristo, ci ha legati a Lui e al
Padre in modo vitale e definitivo. Esige perciò di tornare a Lui integra e non
offuscata.
Se tutto ciò che mi appartiene e che sono devo
renderlo a Dio, perché è suo, dovrò verificare seriamente se compio tale
dovere. Per es. il tempo, che è di Dio, in che misura glielo dono? Quanti
minuti al giorno gli offro per dialogare con Lui? Quanto del mio tempo e delle
mie risorse, materiali e umane, dedico al servizio del prossimo?
Così pure,
la realtà economica - sociale - politica è certamente secondaria e relativa di
fronte al valore assoluto di Dio e del suo Regno che devono occupare il posto
centrale nella vita. Non è però indifferente per chi crede. Dio infatti comanda
di amare tutti e di amare sempre, in ogni situazione. Allora, ogni forma di
impegno sociale e politico, vissuta come servizio fraterno al prossimo, diventa
il modo concreto di vivere il primato di Dio nella nostra esistenza. L’attività
sociale, economica e politica in quanto tale non salva. Però il credente non si
salva se non assume e non svolge con carità e professionalità il ruolo che gli
compete nella vita pubblica.
Ognuno dei miliardi di uomini che popolano la terra
è di Dio, ha in sé l’immagine del suo Creatore e Padre che chiama ad
appartenergli nella fede e nell’amore.
Come non sentire la passione bruciante di aiutarli a
riconoscere il “marchio di fabbrica”, l’impronta divina impressa nel loro
essere più profondo? Impegnarsi a risvegliare in loro la nostalgia della
Famiglia da cui tutti veniamo e a cui siamo destinati a tornare: c’è una causa
che merita più di questa un investimento maggiore di risorse, di energie, di
dedizione? Per questo la Chiesa esiste. A questo è finalizzata la
vita e l’attività dei cristiani .
A Dio dobbiamo un’immensa gratitudine, come ci
richiama il brano della I lettera ai Tessalonicesi, di cui oggi ascoltiamo
l’inizio (1, 1-5: II lettura). Questa lettera, che è il primo scritto del Nuovo
Testamento (circa 50-51), è indirizzata a una comunità cristiana nata di
recente, non ancora consolidata e quindi con notevoli lacune sul piano della
formazione religiosa e morale. Una comunità che rischia di essere riassorbita
dall’ambiente pagano con i suoi vizi caratteristici di lussuria e di disonestà.
Una comunità che è oggetto di persecuzione a motivo della fede. È molto
differente la condizione di tante comunità cristiane di oggi?
I
destinatari della lettera sono designati come “la Chiesa dei Tessalonicesi
che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo”. Cioè la comunità di coloro
che Dio ha chiamato da ogni dove per vivere in rapporto stretto con Lui. Più
precisamente, una comunità che – se risiede in un determinato territorio – è
però situata in Dio, qualificato come “Padre”e “nel Signore Gesù
Cristo”: vive nel loro abbraccio d’amore.
“Grazia a voi
e pace”. Più che un augurio è
un’assicurazione: dimorando nel Padre e nel Figlio, i credenti godono della “grazia” (benevolenza gratuita del Padre, che si esprime nel dono di Gesù) e
della “pace” (pienezza del rapporto con Dio e tra loro,
che in definitiva è ancora Gesù).
“Ringraziamo sempre Dio per tutti voi”. I tre
missionari (Paolo, Silvano e Timoteo) esprimono una riconoscenza senza tregua a
Dio per la vitalità di questa comunità, dove vedono fiorire le tre virtù
teologali (“impegno nella fede…operosità
nella carità…costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo”).
Vitalità che è frutto
dell’accoglienza del Vangelo: “il nostro Vangelo (che
è come “personificato”) si è diffuso fra voi”
non solo come semplice annuncio verbale, ma come realtà viva che opera con la
forza dello Spirito Santo e cambia radicalmente l’esistenza. Tale accoglienza e
diffusione del Vangelo non è merito dei missionari né dei credenti. Ma è
grazia, è segno che Dio li ha amati e scelti: “fratelli amati
da Dio, eletti da Lui”. Ecco definita l’identità più vera dei
cristiani. Paolo e i suoi collaboratori sono commossi, stupiti e incantati
davanti all’intervento di Dio in favore della comunità. La “Charis” (l’amore
gratuito e preveniente di Dio: v.1) suscita l’ “Eucharistia” ( la lode e il
ringraziamento: v.2).
Non dovrebbe essere
difficile sentirci destinatari anche noi delle parole di Paolo e dei suoi
compagni, accogliendo il richiamo a ravvivare lo stupore, la gioia e il
ringraziamento a Dio per quanto continua a operare nella nostra vita e nelle
nostre comunità.
Quante volte ci accade
lungo la giornata?
Che cosa nel mio cuore, nei miei averi, nei miei
talenti, nella mia attività non restituisco a Dio (cioè non vivo e non
condivido nell’amore)?
Ogni uomo, come me, è di Dio. Me ne ricordo? Cosa
faccio perché senta il bisogno di restituirsi interamente a Lui nell’amore?