DOMENICA XXIV T.O.A

                                                                                                                                                                            

   21 In quel tempo,  Pietro  si avvicinò a Gesù e gli disse: “Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte? ”. 22 E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette. 23 A questo proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. 24 Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. 25 Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. 26 Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. 27 Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. 28 Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! 29 Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito. 30 Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito. 31 Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. 32 Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. 33 Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? 34 E, sdegnato, il padrone  lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. 35 Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello”.

[Mt 18,21-35]

                                                                                                                         

 

I fratelli che compongono la comunità cristiana sono responsabili gli uni degli altri, con attenzione privilegiata a coloro che sono più fragili nella fede. Tale responsabilità essi la esprimono sia nella correzione e riconciliazione fraterna sia nella preghiera comunitaria (cfr. Vangelo della scorsa domenica).

La vivono anche in modo speciale nell’esercitare il perdono reciproco. “Quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?”. Pietro ha capito che è necessario perdonare, ma pensa che tale obbligo abbia un limite. Il numero “sette” indica pienezza, perfezione. In pratica, Pietro domanda: devo perdonare proprio tante volte al mio fratello (=il membro della comunità cristiana)?. Rispondendo, Gesù precisa: “...fino a settanta volte sette”. Cioè: non tante volte, ma un numero illimitato di volte, sempre. Chi non si ritrova nella domanda di Pietro e nella sua logica di fondo? Vale a dire, tutta l’attenzione viene ristretta al rapporto tra me e colui che mi è debitore. E così mi appare senza senso il sopportare e perdonare il torto ricevuto. Raccontando la parabola, Gesù invece sposta l’attenzione sulla relazione tra Dio e me, che verso Dio sono debitore e che da Lui ho ottenuto misericordia.

Il cristiano in questa parabola legge, appunto, la propria storia: è lui quel servo debitore di diecimila talenti (oggi diversi miliardi) - una somma da capogiro, una somma impagabile - e quindi destinato alla rovina totale. Ma il re (cioè Dio) davanti alla supplica del servo, con una magnanimità che va oltre quanto il servo poteva immaginare, gli condona l’intero debito. Il motivo? “Si è impietosito di lui”: è il verbo che abbiamo incontrato più volte nel Vangelo, sempre riferito a Gesù (Mt 9,36; 14,14; 15,32). Un verbo che esprime una commozione e compassione viscerale, profonda. Gesù è veramente la rivelazione del Padre e della sua misericordia.

Davanti a questo gesto del re, è spontaneo per noi immaginarci come il servo abbia potuto reagire: sorpresa, stupore, commozione, gratitudine immensa verso il padrone, ma anche disponibilità a essere buono e generoso come lui. Nel Battesimo e poi in quel nuovo Battesimo, ripetuto centinaia di volte, che è il Sacramento della Riconciliazione, il gesto del condono da parte del Re divino si è compiuto e continua a compiersi: non c’è debito, per quanto grave e vertiginoso, che Lui non possa o non voglia condonare e lo fa con gioia. La gioia di perdonare non è forse la sua gioia più grande? Ma chi riceve tale perdono ha capito veramente in quale vortice di tenerezza è stato trascinato e rinnovato? Chi ha fatto e continua a fare l’esperienza di questa misericordia inaudita di Dio, come può non usare misericordia a chi è in debito con lui? Un debito che sarà sempre qualcosa di insignificante in confronto al debito incolmabile che gli è stato condonato: la sproporzione è abissale.

 

Ma ecco il secondo quadro. Se ci sorprendeva il comportamento strano e inatteso del re nei confronti del suo servo debitore, ora la sorpresa si prolunga di fronte all’agire strano e ...inqualificabile del servo graziato. Egli incontra un altro servo che gli è debitore di cento denari (la cinquecentomillesima  parte di ciò che il padrone gli ha condonato). Il suo compagno lo scongiura con le medesime parole con cui lui aveva implorato il padrone. Ma egli è duro e inesorabile: esige senza indugio il pagamento del debito, facendolo gettare in prigione.

Esaminando seriamente il mio comportamento e, prima ancora, la mia reazione interiore, sono sicuro di non ritrovarmi in questo servo “spietato”, quasi una sua fotocopia?

 

Nella terza parte della parabola è ancora di scena il padrone, che stavolta è “sdegnato” e carica nuovamente  il servo di tutto il debito con una condanna inesorabile e definitiva. La ragione si coglie nelle sue parole: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato”. Dio ascolta la preghiera che gli rivolgiamo nel Padre nostro: “rimetti a noi i nostri debiti”. Ma, “non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Nel Padre nostro ci affrettiamo ad aggiungere: “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”.

La logica soggiacente a questa domanda del Padre nostro, come pure alle parole conclusive del re nella parabola, è chiara: come tu al tuo prossimo, così Dio a te (cfr. I lettura: Sir 27, 30-28,1-7). Anzi, prima ancora: come Dio a te, così tu al prossimo. Si noti all’interno di una breve frase due volte il verbo “aver pietà”che caratterizza l’agire di Dio e dovrebbe poi qualificare l’agire del servo.

Come io ho avuto pietà di te”: il perdono di Dio, la sua misericordia verso di noi diventa fonte, modello e motivo del perdono che siamo chiamati a offrire al fratello.

Il servo spietato non ha capito che il perdono, come l’amore, è una corrente che, quando mi investe, non  posso bloccarla con la mia grettezza e meschinità. Non posso fare argine all’onda della misericordia di Dio che mi ha raggiunto, impedendole di espandersi sugli altri. Non posso, insomma, ricevere il perdono per me senza farlo rifluire sul fratello. “Così anche il Padre mio celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello”. La parola “fratello” apre e chiude l’intero brano. E’ evidente il richiamo al passo del Discorso della Montagna dove Gesù insegna il Padre nostro e poi subito dopo, esplicitando la quinta domanda, lega inseparabilmente il perdono che riceviamo da Dio col perdono che diamo agli altri (Mt 6,9-15). Se non perdoniamo, non possiamo contare sul suo perdono. Si potrebbe forse affermare che questa parabola di Gesù è come un grande commento alla quinta domanda del Padre nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Sembra che Gesù ci insegni a pregare così: non perdonarci, se non abbiamo perdonato da parte nostra.

Come noi li rimettiamo”. Non nel senso che Dio ci perdona tanto quanto noi sappiamo perdonare al fratello. In tal caso, saremmo disperati, perché il nostro debito verso Dio è immensamente più grande. Neanche nel senso che, siccome noi perdoniamo, Dio è tenuto a perdonarci: il nostro perdono non può motivare quello di Dio, che rimane assolutamente gratuito. Ma nel senso che noi poniamo la condizione perché il perdono di Dio ci possa raggiungere. Infatti, se perdoniamo, è segno che non ci riteniamo innocenti, ma peccatori riconciliati. Abbiamo capito e apprezzato la misericordia di Dio verso di noi. Essa è talmente preziosa per noi che desideriamo dilaghi anche sugli altri. Se perdoniamo, è segno che il perdono del Signore ci ha rinnovato il cuore e ci ha resi capaci di perdonare a nostra volta.

La comunità cristiana è il luogo dove i rapporti tra fratelli sono permeati e trasfigurati dalla misericordia.  Non c’è nessuno che sia soltanto creditore o soltanto debitore. Ogni giorno io ho sempre qualcosa da farmi perdonare dal fratello, ma ho anche sempre qualcosa da perdonargli.

 

Perdonare sempre, perdonare tutti, perdonare tutto” (M. Tecla). Questo comportamento misericordioso renderà più sicuramente visibile la nostra appartenenza totale al Signore Gesù: “Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14, 7-9: II lettura).

 

 

Ogni volta che continuare a volere il bene dell’altro, nonostante il torto e il male che mi ha fatto, mi sembra impossibile e mi costa troppo ristabilire il rapporto con lui, penserò alla misericordia del Padre verso di me, gli chiederò di regalarmene un po’ e gli affiderò il fratello.

 

Mi esaminerò seriamente se sono sempre vero e sincero quando recito la quinta domanda del Padre nostro.