XXII DOMENICA T.O.A 2005

 

  21 In quel tempo, Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno. 22 Ma Pietro lo trasse in disparte e cominciò a protestare dicendo: “Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai”. 23 Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: “Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini! ”.

24 Allora Gesù disse ai suoi discepoli: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. 25 Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. 26 Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima? 27 Poiché il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni.”

 

[Mt 16, 21-27]

                                                                                                                                                      

 

Il brano evangelico della scorsa domenica riportava la confessione di fede di Pietro, portavoce dei Dodici: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!”: E Gesù, in risposta, rivelava l’identità e la missione dell’Apostolo: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. In questo dialogo si avverte un’aria di festa e di entusiasmo per la scoperta che i discepoli hanno fatto.

Gesù però, pur soddisfatto per il traguardo che essi hanno raggiunto nel loro cammino di fede, sa che molta strada resta da fare perché tale fede, ancora acerba, diventi più chiara e matura. A tale scopo imprime una svolta alla sua opera educativa: “Gesù cominciò a dire apertamente ai discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto...e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno”. E’ il primo dei tre annunci della passione- morte- risurrezione che Gesù in diverse riprese fa ai discepoli durante il viaggio verso la città santa.

Un tragico destino lo attende. Egli ne parla senza esitazione e con lucida consapevolezza. Sa bene che le sue scelte in favore dei peccatori e dei “lontani”, il suo stile di vita libero da ogni forma di legalismo, ma tutto incentrato nell’amore, provocano l’opposizione e la resistenza da parte dei responsabili di Israele. Sa di avere molti nemici, che cercano di eliminarlo e che presto o tardi ci riusciranno. Gesù intravede, quindi, il fallimento umano della sua missione: “doveva...soffrire e venire ucciso”. Tale “necessità” non è legata però a un destino cieco e crudele, non è neppure soltanto la conseguenza “logica” del suo comportamento contro corrente. Ma il verbo “doveva”, che ricorre spesso sulle labbra di Gesù, indica il disegno di Dio, misterioso e insindacabile, che deve compiersi nella storia. Un disegno d’amore che si attua attraverso vie e modi non conformi alla logica umana, ma in stridente contrasto con essa. Tale piano divino, però, non riguarda soltanto la sconfitta umiliante del Messia, ma anche la sua suprema glorificazione: “doveva...risuscitare il terzo giorno”. Anche quest’ultima parte dell’annuncio rimane oscura, tanto che i discepoli non la prendono in considerazione. Sono invece “shoccati” dall’annuncio della passione e della morte.

Riconoscendo in Gesù il Messia promesso, Pietro e i suoi compagni pensavano al Liberatore politico e militare che con la forza di Dio avrebbe vinto tutti gli oppressori del suo popolo, instaurando una condizione di pace universale.

Gesù invece rivela un aspetto del Messia che li coglie impreparati e li “spiazza” radicalmente: il Salvatore inviato da Dio non sbaraglierà gli avversari con una vittoria totale. Ma subirà la sconfitta. E questo perché, in umile obbedienza al disegno di suo Padre, percorrerà la via dell’amore che si fa servizio fino al dono della propria vita.

In tal modo rivelerà un volto inedito e insospettato di Dio: non il Dio che schiaccia con la sua potenza, ma un Dio debole e “perdente”, che condivide fino all’estremo la condizione dell’uomo peccatore e così lo ricupera.

L’incomprensione e il rifiuto di un Dio così si manifestano nella reazione di Pietro: “...questo non ti accadrà mai!”.

 La contro-reazione di Gesù è però quanto mai forte: “Lungi da me, satana!”. Il contrasto con la scena precedente - in cui Gesù aveva proclamato “beato” l’Apostolo rivelandogli la sua missione nel piano di Dio - non può essere immaginato più netto e più crudo. Gesù lo chiama addirittura “satana”: il Nemico - che nel deserto aveva cercato di persuaderlo a imboccare la via del potere e del successo, boicottando il disegno del Padre - ora torna all’assalto con una forza di suggestione ancora maggiore, servendosi del discepolo stesso. Ciò spiega la sua risposta dura e perentoria: “Lungi da me, satana!”, che richiama il “Vattene, satana!” (Mt 4,10) con cui Gesù aveva liquidato il Tentatore. Probabilmente, però, l’espressione può essere intesa in altro modo: “Dietro di me, satana!”. Gesù cioè richiama Pietro a mettersi di nuovo nella sua posizione di discepolo che non pretende di precedere il Maestro insegnandogli la strada, ma lo segue accettando umilmente di condividere la sua sorte.

Tu mi sei di scandalo”, cioè vuoi impedirmi di aderire pienamente al volere di mio Padre: “perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Non può darsi che anche noi ragioniamo come Pietro e gli altri discepoli? Anche noi, come loro, spesso siamo prigionieri di un’immagine di Dio che - se è potente e buono - non può permettere il dolore in tutte le sue forme e dovrebbe sopprimere quanti operano il male. Questo Dio però non è il Dio di Gesù. Il rimprovero rivolto a Pietro è quindi anche per noi.

Ci siamo lasciati educare finora da Gesù a riconoscere questo aspetto essenziale nella figura del Salvatore e nel vero volto di Dio? Accettiamo che il Messia ci salva attraverso il dolore vissuto nell’amore? Siamo consapevoli che la gloria e la suprema felicità rimangono il traguardo certo per Gesù e anche per noi, ma la via per raggiungerle è la “via della croce”?

La tentazione di ritirarsi davanti alle difficoltà della missione non ha risparmiato neppure quel grande profeta che fu Geremia (20, 7-9: I lettura). Il suo sfogo con Dio assomiglia a quello di un innamorato che è deluso del proprio partner: “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre…”. Un  verbo che conserva anche la sfumatura della “seduzione amorosa”. Ma la Parola di Dio dentro di lui è come una lava incandescente che non riesce a contenere. È la forza di questa Parola che lo sostiene nella fatica del suo ministero. Allora al “Mi hai sedotto” si aggiunge “Grazie!” e si prega pure “Seducimi ancora, seducimi sempre di più!”.

 

Gesù, però, non si limita a esigere dai discepoli che lo riconoscano come il Messia crocifisso-risorto. Ma li chiama ad abbracciare le sue stesse scelte e il suo stile di vita, spiegati soltanto dall’amore: “Se qualcuno vuol venire dietro a me...etc.” Queste parole, di un radicalismo inaudito, le abbiamo già ascoltate da Gesù nel “discorso missionario” (Mt 10, 37-39: domenica XIII). Qui Gesù aggiunge il “rinneghi se stesso”: il discepolo deve essere pronto a spostare ogni sua visione della vita, a dire di no a ogni suo progetto, che non collimino con quelli del suo Maestro. La vita si trova perdendola, cioè donandola per amore. Ciò può avvenire una sola volta con la morte fisica. Ma la vita può essere data anche goccia a goccia in ogni gesto quotidiano motivato dall’amore e compiuto con amore.

 

Si realizza in tal modo il programma di vita che Paolo ci offre nella II lettura (Rm 12, 1-2): “Vi esorto, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio…”.

 

E sta qui il migliore investimento che si possa fare: “Qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima (=se stesso)?”. Infatti nell’ultimo giorno della storia , anticipato per ciascuno nell’ora della morte, quando il Signore verrà nella gloria, “renderà a ciascuno secondo le sue azioni”.

 

Quando, recitando il Credo, professiamo che Gesù è “Cristo e Signore”, noi esprimiamo la sua vera identità. Ma il contenuto profondo di questi titoli (=il Messia crocifisso-risorto, che salva col dolore trasformato dall’amore) lo accettiamo veramente?

 

Proviamo a verificare in che misura questa convinzione di fede è radicata in noi, soprattutto quando ci scontriamo con la realtà del male e del dolore nelle sue forme più diverse.

Sarà bene chiedermi ogni tanto: in questo momento sto pensando “secondo Dio” o “secondo gli uomini”?

 

Le condizioni che Gesù enuncia per essere suo discepolo mi impressionano? Come attuarle concretamente?