XIII DOMENICA DEL T.O./A 2005

 

37 In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; 38 chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. 39 Chi avrà trovato la sua vita, la perderà e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà.

40 Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. 41 Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto. 42 E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa”.

[Mt 10,37-42]

 

Da qualche domenica ascoltiamo il “Discorso missionario” di Gesù: Egli manda i discepoli affidando loro l’incarico di annunziare ovunque il Vangelo. Una missione che incontrerà anche il rifiuto e la persecuzione. Li esorta perciò a riporre ogni fiducia nel Padre, superando ogni paura e “riconoscendo” coraggiosamente e pubblicamente Lui, Gesù (cfr. Vangelo della scorsa dominica). Insomma, perché la loro attività evangelizzatrice sia efficace, essi devono essere “altri Gesù”. Come fare? Vivendo un rapporto prioritario e totalizzante con Lui:

“Chi ama il padre o la madre...il figlio o la figlia più di me non è degno di me”. Per essere un altro Gesù occorre legarsi a Lui con un amore che supera anche quello che si porta ai familiari più stretti. Ciò non è indolore: “Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me”. “Prendere la propria croce”. Qual è il senso di questa immagine? In un testo del profeta Ezechiele (9,4-6) sulla fronte dei veri credenti viene segnato un “Tau” (lettera dell’alfabeto ebraico che anticamente aveva la forma di croce) per simboleggiare la loro appartenenza a Dio. In tal senso i discepoli sono invitati ad appartenere radicalmente a Gesù, condividendo il suo destino e la sua vita. Non sei più tuo né di nessuno, ma solo di Cristo. Senza escludere del tutto questo significato, quasi certamente Gesù si riferisce all’usanza romana della crocifissione: il condannato riceveva sulle spalle il legno trasversale (patibulum) e si avviava al luogo dell’esecuzione tra gli insulti e i compatimenti della folla. Chi legge il Vangelo sa che questa è la stessa sorte subita da Gesù. Il discepolo, che aderisce a Lui, non può non mettere in conto tale prospettiva, cioè il “martirio”. Ma già ogni giorno l’amore a Cristo può richiedergli tagli, rinunce, sacrifici che gli procurano sofferenze. Ogni giorno cioè è chiamato a “prendere la sua croce” dietro a Gesù.

“Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà”. Per sei volte i Vangeli riportano, sia pure con qualche variazione, questa dichiarazione di Gesù: chi è attaccato alla propria vita e vuole difenderla a ogni costo, fosse anche col tradimento del proprio Maestro, in realtà “perderà” la vita vera, quella eterna. Chi invece, per rimanere fedele a Gesù e al Vangelo, arriva anche a perdere la propria vita, la ritroverà in pienezza. Queste parole di Gesù alludono al martirio, che non è una semplice eventualità nell’esistenza del discepolo. Ma esprimono anche la legge fondamentale della vita cristiana e di ogni vita autentica: il donarsi, che è l’essenza dell’amore, comporta il “saper perdere” infinite cose, il dimenticarsi, il “decentrarsi”, il mettersi da parte, il “non essere perché l’altro sia. Quante volte, però - ognuno può interrogare la sua esperienza - tocchiamo con mano che proprio così,  “perdendo “ la nostra vita, ci sentiamo più felici e più realizzati, più vivi! Perdere per ritrovare, perdersi per ritrovarsi. In questa dinamica Gesù legge la realtà della sua esistenza e il mistero della sua morte - risurrezione, come pure il significato del cammino di quanti lo “seguono”.

Se riascoltiamo con calma e con attenzione queste parole di Gesù, non possiamo non rimanere impressionati dalla loro carica provocatoria. L’”Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore...” (Dt 6, 5ss) che il Dio dell’Antico Testamento esigeva dai suoi fedeli, e che Gesù ha ribadito con forza nuova, ora lo sposta sulla sua persona, lo rivendica per sé in uguale misura. La ragione è la coscienza che Egli ha di essere il Figlio di Dio, uno con Lui. Ecco perché “pretende” di convogliare su di sé tutte le energie vitali e affettive di ogni discepolo. E non fa sconti. Non accetta compromessi o un amore a metà. La frequenza martellante, quasi ossessiva, del pronome di prima persona “me” (sette volte in pochissimi versetti) sembra voglia comunicarci, anche sul piano linguistico,  l’esigenza che Gesù ha di essere l’”unico” e “tutto” nella vita dei suoi discepoli. “Egli solo ti basta e nient’altro senza di Lui ti può bastare” ( sant’Agostino). Si tratta, allora, di essere semplicemente “discepoli di Gesù”, cioè vivere in modo vero l’appartenenza a Lui, radicata nel Battesimo: Rm 6,3-11 (II lettura). L’Apostolo pare alludere al battesimo per immersione. Compiendo questo rito, il credente è introdotto nella comunità cristiana, dove incontra il Cristo risorto che lo unisce alla sua persona e all’avvenimento della sua morte- risurrezione. L’immersione nell’acqua (è propriamente  il significato del termine “battesimo”) simboleggia il suo morire e essere sepolto con Cristo a tutta la realtà del peccato, da cui viene liberato radicalmente: “Siamo morti con Cristo…sepolti insieme con Lui nella morte”. L’emergere dall’acqua indica il suo rinascere e risorgere con Cristo alla vita nuova.: “Nello stesso istante siete morti e siete nati e la stessa onda salutare divenne per voi e sepolcro e madre” (s. Cirillo di Gerusalemme).

Se siamo morti con Cristo, crediamo che vivremo con Lui, sapendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più”. Cioè vivremo in Cristo,di Cristo, per Cristo: saremo “cristificati”. La vita battesimale è vita pasquale, è vita da risorti. S. Paolo la presenta lapidariamente così: “Consideratevi morti al peccato e viventi per Dio, in Cristo Gesù”.

 La parola di Gesù, così perentoria, ci provoca a verificare la qualità di tale relazione con Cristo, di tale appartenenza. E’ facile infatti ritrovarsi a vivere un’appartenenza superficiale...o discontinua...o non matura...o rassegnata e senza gioia, non contagiosa. Quando mi deciderò a fare di Dio e di Cristo l’unico ideale della vita, la persona più cara, che riempie e spiega ogni momento e gesto della mia giornata?.

Nella spiritualità ebraica si trova questa commovente dichiarazione rivolta a Dio: “Dovunque io vada Tu! Dovunque io sosti Tu...dovunque mi giro, dovunque ammiro, solo Tu, ancora Tu, sempre Tu”. Questo Dio, che cattura l’attenzione piena di stupore e di gratitudine del suo fedele, per noi cristiani è il Padre e il proprio Figlio Gesù.

 “Il mio fidanzato sa, perché se n’è accorto e perché gliel’ho detto espressamente, che Gesù viene prima di lui nella mia vita”. Così una ragazza.  Forse che Gesù è un ostacolo, quasi un intruso, fra le persone che si amano? Come un concorrente...sleale, pretende che gli innamorati, gli amici, i congiunti riducano il proprio amore perché si mette di mezzo Lui? In realtà Gesù ci consente una relazione più vera tra noi, un rapporto sempre più libero da ogni forma anche larvata di egoismo. Se gli diamo interamente il cuore, Lui ci darà il suo e diventeremo capaci di vivere ogni relazione affettiva in una misura sorprendentemente nuova e intensa, capaci di amarci nel cuore e col cuore di Gesù stesso. Più ami Lui e più ami le persone care. Senza illuderci, però, che non di rado nelle situazioni concrete il credente - quando nelle sue scelte e nel suo comportamento mette al primo posto Gesù attuando la sua parola e preferendo la sua volontà - potrà “scontentare” o deludere e amareggiare la persona cara che la pensa diversamente. In questa esperienza egli vedrà un aspetto della croce che Gesù gli chiede di portare, sicuro che proprio in tal  modo, anche se incompreso, ama più che mai i suoi cari.

Gesù conclude il discorso (una specie di “manuale” del missionario) con alcune parole sull’”accoglienza” dei suoi inviati: sei volte in appena due versetti ricorre il verbo “accogliere”. I discepoli prolungano la missione di Gesù. Devono quindi essere accolti e aiutati dai credenti con venerazione e con fraterna solidarietà. Chi accoglie loro accoglie Gesù stesso, l’inviato di Dio. Ogni gesto avrà una ricompensa da parte di Dio.

Già lo richiamava il racconto riportato nella I lettura (2Re 4, 8-16): l’ospitalità generosa offerta da una donna al profeta Eliseo sarà ampiamente “ripagata” col dono di un figlio tantoi desiderato.

 L’accoglienza va dall’ospitalità generosa verso quelli che svolgono un servizio ecclesiale al bicchiere di acqua fresca offerto “ a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo”. Un dono per altro prezioso in una regione scarsa d’acqua come la Palestina e che poteva comportare un sacrificio. I “piccoli” possono essere i missionari, ma anche coloro che nella comunità si trovano in condizioni di povertà e di bisogno.

Nella luce di questa parola di Gesù assume un particolare significato la “Giornata per la carità del Papa” che oggi si celebra. “Accogliere” Lui -  che consideriamo un inviato speciale di Gesù - è anche dargli concretamente una mano perché possa praticare,pure a nome nostro, l’”accoglienza”, la carità su scala mondiale. E’ anche per ciascuno di noi un contributo originale a “globalizzare” la solidarietà, la carità.

 

In ogni circostanza e situazione saprò dire a Gesù: tu vali di più! Tu, solo tu, Gesù! Diventalo sempre di più!

Curerò l’”accoglienza” di ogni persona, sapendo di farlo a Gesù.