31 agosto 2003 - 22ª t.o.
Dt
4,1-2.6-8 / Gc 1,17-18.21b-22.27 / Mc 7,1-8.14-15.21-23
Ascoltate le
norme che vi do perché viviate
(Dt 4,1)
Il brano di oggi del Deuteronomio è una celebrazione
entusiastica dell’adesione alla proposta di Dio espressa nella legge. Si
capisce subito che l’ascolto di cui parla non è un sentire soltanto con le
orecchie. È un udire per mettere in pratica.
La parola-comandamento di Dio è la via per una vita
felice, che è l’aspirazione profonda di ogni cuore umano. Talvolta siamo
tentati di opporre la legge alla libertà, l’osservanza alla fede, le opere alla
grazia. Oggi però il brano che ascolteremo ci presenta la legge di Dio come
espressione dell’incontro tra la volontà del Dio “vicino” e l’adesione gioiosa
della libera volontà dell’uomo. Il Signore non è tanto da cercare in cieli
lontani, ma nella legge che egli ha offerto al suo popolo. L’adesione alle
“norme” che lui ci dà è la scoperta della vicinanza di Dio proprio nel cuore
dell’esistenza umana. Per questo sentiremo al termine del brano odierno quella
splendida domanda finale: “Quale nazione ha la divinità così vicina a sé, come
il Signore nostro Dio è vicino a noi?”. Possiamo quindi guardare alla legge di
Dio come ad un dono prezioso e immeritato, una via alla felicità piena e
duratura del nostro vivere quotidiano.
MI SONO
LICENZIATA
Finiti gli
studi, come tutti i neodiplomati, mi sono messa alla ricerca di lavoro. Cosa
ardua! E chi più non lo sa? Domande, annunci sui giornali, curriculum a destra
e a manca, interviste... Dopo un anno, vengo finalmente chiamata da una società
che opera nel settore dell’informatica. Avrei dovuto fare dimostrazioni di
programmi di contabilità con successiva assistenza ai nuovi clienti. La gioia
era doppia: era proprio il campo che mi piaceva.
L’impatto però
col mondo del lavoro, e con certe sue esigenze, non è stato facile. Da subito è
stato notato il mio modo di vestire. Un giorno il mio diretto responsabile ha
sottolineato, un po’ pesantemente, che ero “troppo vestita”; sarebbe stato più
utile per l’incasso dell’azienda indossare “una gonna più corta e una camicia
più scollata”. Così, secondo lui, era più facile conquistare nuovi clienti.
Questo
atteggiamento mi ha fatto soffrire: strumentalizzava me, ferendomi nella mia
dignità, ma strumentalizzava anche quegli ipotetici “nuovi clienti”. I clienti
vanno rispettati, serviti, messi a proprio agio. A questo doveva mirare anche
il mio abbigliamento. Ho quindi risposto al mio superiore fermamente: non ero
disposta a scendere a compromessi.
Le battute in
merito non sono finite, ma la mia decisione era irremovibile. E l’argomento non
è stato più toccato.
Nei mesi
successivi, conoscendo meglio i meandri del lavoro, mi sono accorta che non
tutto si svolgeva ‘secondo le regole’. Non ero direttamente coinvolta, ma non
potevo neppure restare indifferente. Ho provato ad esprimere il mio pensiero,
ma ho trovato davanti un muro. Le cose intorno non volevano cambiare, ho deciso
perciò di presentare le dimissioni. Non potevo collaborare -che, in ultima
analisi, significava sostenere- con qualcosa di moralmente inaccettabile.
Questa mia
scelta ha lasciato tutti sconcertati. In cuor mio ero tranquilla: sapevo che
Dio Padre avrebbe pensato a me.
Durante il
mese in cui dovevo passare le consegne alla nuova dipendente, però, mentre
cercavo un nuovo lavoro, ricca di speranze deluse, la situazione nell’azienda
all’improvviso è cambiata.
Il mio
superiore ha lasciato il posto, sostituito da una donna che, per quanto
riguarda l’organizzazione e la trasparenza del lavoro, la pensa in tutto come
me. Ho quindi revocato le mie dimissioni, con una conferma in più di quanto Dio
mi ami personalmente.
Barbara,
Italia