6 maggio 2001 – 4ª di
Pasqua
At 13,14.43-52 / Ap
7,9.14-17 / Gv 10,27-30
LE
MIE PECORE ASCOLTANO LA MIA VOCE
Gv
10,27
Tre parole di Gesù ci
riempiono di gioia: (le mie pecore) ascoltano (la mia voce), io le conosco (ed
esse) mi seguono.
- Le mie pecore
ascoltano la mia voce: non si tratta di un rumore assordante, nemmeno di un
suono percepito da tutti, ma di una voce interiore, che accoglie soltanto chi è
in intima sintonia con Lui. Sant’Agostino chiama quella voce: il Maestro
interiore. Non si tratta solo di capire la Sua parola o di ricordarla, ma di
fare in modo che sostituisca il nostro “io” e le altre voci, che diventi la
nostra vita: “le mie Parole sono vita”.
- Io le conosco: in S.
Giovanni non si tratta di “conoscere” come intendiamo noi, ma di possedere:
Gesù ci possiede, ci ama talmente da portarci dentro di sé allo stesso modo che
una mamma porta in grembo il suo bambino e riesce a percepirne i palpiti del
cuore. È proprio quello che succede quando Gesù si dona nell’Eucarestia: è un
conoscere da persona a persona, che genera in noi la sua vita.
- Ed esse mi seguono:
questa parola esprime la nostra risposta, personale e concreta. “L’amore di
Cristo mi spinge”, scrive S. Paolo, e ancora “chi mi separerà da Lui?”. Nella
seconda lettura ci vengono indicati coloro che hanno seguito l’Agnello
attraverso la grande tribolazione, il martirio, la testimonianza più completa.
Se vuoi conservare tutto ciò che ti piace, se
non sei disposto a perdere niente, non puoi incontrare Gesù: solo chi rischia
tutto, possiede il Suo amore e l’amore del Padre, e avrà la gioia piena.
Gaetano B. e L.
C.
Nell’isola di Gelib, in Somalia, vivono
circa 15.000 persone, in gran parte lebbrosi, in poveri villaggi in cui non c’è
niente di moderno: né acqua corrente, né elettricità, né strada, né assistenza
sanitaria. Sull’isola vivono quattro suore missionarie della Consolata, che
curano i lebbrosi e tengono un dispensario medico e una scuola per i bambini
dei lebbrosi. Vivono anch’esse in povertà e mi dicono che per alcuni mesi
dell’anno, durante la stagione delle piogge, sono del tutto isolate dal resto
del paese. Tra di loro c’è suor Carolina, la cui vita mi ha commosso. È giunta
in Somalia quando aveva 24 anni, infermiera diplomata, e in tutti questi
sessant’anni ha curato i lebbrosi e i malati somali. Mi diceva: “Quando siamo
arrivati qui non c’era nulla, non avevamo nulla, c’era poco anche da mangiare e
nessuna comodità. Abbiamo resistito solo perché il buon Dio ci ha aiutato.
Adesso è quasi un paradiso, abbiamo il frigorifero, qualche ora di luce
elettrica alla sera, la possibilità di avere la posta una volta al mese...”.
Le dico: “Madre Carolina, tra quindici
giorni torno in Italia. Venga con me, la porto a casa sua a Torino, fa un po’
di vacanza in montagna, fa le cure necessarie e poi torna qui in Somalia”.
Pensavo di farle una proposta ragionevole e a lei gradita.
Mi risponde: “Se torno in Italia, forse
non mi lasceranno più venire indietro. Io sto così bene! Sono chiamata ‘la
mamma dell’isola’, ‘la mamma dei lebbrosi’. Tutti mi conoscono e non potrei
fare a meno di loro. Vivrei male lontano dai miei lebbrosi”. Mi sono commosso.
Madre Carolina mi ha insegnato che anche in un poverissimo villaggio d’Africa,
fra i lebbrosi e il caldo che giunge sui 45 gradi all’ombra, si può trovare la
perfetta felicità e la pace del cuore. Quando si ha la grazia di Dio e quando
si dedica la vita al bene dei fratelli.