4 febbraio 2001 – 5ª domenica t.o.

Is 6,1-2.3-8 / 1 Cor 15,1-11 / Lc 5,1-11

 

SIGNORE, SULLA TUA PAROLA GETTERÒ LE RETI (Lc 5,5)

 

La folla si era radunata attorno a Gesù per ascoltare la sua parola. I discepoli sono sulla barca da dove il Maestro parla; dopo una notte di fatica inutile sperimentano, nell’obbedienza alla sua Parola, l’abbondanza dei frutti. La stanchezza e lo stupore di Pietro e dei suoi compagni per quell’invito tanto inatteso, lasciano il posto alla fiducia e all’abbandono in Gesù, che da quel momento in poi li farà diventare pescatori di uomini, chiamati cioè a continuare la sua missione.

A questo passaggio Gesù chiama ogni credente, proprio quando la fede è messa alla prova in mille modi. Seguirlo significa decisione, impegno, perseveranza, mentre in questo mondo tutto sembra invitare al rilassamento, alla mediocrità, al ‘lasciar perdere’. Il compito appare troppo grande, impossibile da raggiungersi o fallito in anticipo. Ma, come per Pietro, è proprio la sterilità, il peccato stesso riconosciuto e confessato a Gesù, che diventa il luogo non del fallimento ma della chiamata.

Sulla tua parola, Signore... mi rimetto a continuare quel compito lasciato a metà, mi sforzo di ristabilire quel rapporto interrotto, mi ributto ad aiutare... Occorre aver fiducia nella sua Parola, senza mai dubitare su ciò che Egli ci chiede. Anzi, basare ogni momento della nostra vita sulla sua Parola.

Fonderemo così la nostra esistenza su ciò che vi è di più solido, sicuro e contempleremo nello stupore che proprio là, dove ogni risorsa umana viene meno, Egli interviene e che là, dove è umanamente impossibile, raccoglieremo frutti di vita.

Alberto P.

 

Erano trascorsi alcuni mesi dal giorno in cui avevo affrontato piena di speranza il nuovo lavoro in Belgio tra fiamminghi. Ma ora un senso di sgomento e di solitudine mi attanagliava l’anima. Sembrava che tra me e le ragazze con cui lavoravo e vivevo si fosse eretta una montagna insormontabile. Mi sentivo isolata, straniera tra quella gente che avrei voluto soltanto servire con amore. Tutto dipendeva dal dover parlare una lingua che non era né mia, né di chi ascoltava. Mi avevano detto che in Belgio parlavano il francese e io l’avevo imparato, ma a contatto diretto con quel popolo mi ero accorta che i fiamminghi studiano il francese soltanto a scuola e in genere lo parlano malvolentieri. Tante volte avevo cercato di spostare quel muro di emarginazione che mi teneva lontana dalle altre, ma invano. Che potevo fare per loro?

Vedevo ancora davanti a me il volto della mia compagna Godeliéve, pieno di tristezza. Quella sera si era ritirata nella sua stanza senza toccare cibo. Io avevo tentato di seguirla, ma mi ero arrestata davanti alla porta della sua camera, timida e titubante. Avrei voluto bussare... ma quali parole usare per farsi intendere? Ero rimasta lì per qualche secondo, poi mi ero arresa ancora una volta.

La mattina dopo entrai in chiesa e mi misi in fondo, con il viso tra le mani per non far scorgere le lacrime. Era quello l’unico posto dove non occorreva parlare un’altra lingua e neppure era necessario spiegarsi. Abbassai gli occhi sul Vangelo di quel giorno e trovai: “Abbiate fede, io ho vinto il mondo”. Queste parole scesero come olio nell’anima e provai una grande pace. Rientrando per la colazione, notai che la prima a scendere dalle stanze fu Godeliève, che cercava un caffé in fretta, per non vedere nessuno. Ma lì si arrestò; forse la mia pace aveva toccato il suo animo in modo più forte di qualunque parola.

Quella sera, sulla strada di ritorno verso casa, Godeliève mi raggiunse con la bicicletta e sforzandosi di parlare in modo a me comprensibile, mi sussurrò: “Non sono necessarie le tue parole; oggi la tua vita mi ha detto: ama anche tu!”. La montagna si era spostata.

Lella