25 giugno 2006 - 12a domenica t. ord.

Gb 38,1.8-11 / 2Cor 5,14-17 / Mc 4,35-41

 

Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?

(Mc 4,40)

 

Il Vangelo di Marco risponde a due domande: chi è Gesù? Chi è il discepolo? Sono domande che emergono e trovano risposta anche dal brano di questa domenica: la tempesta sul lago.

Alla prima domanda risponde il centurione romano, un pagano, vedendo in che modo sa morire l’Amore: “Veramente quest’uomo era figlio di Dio”.

Il discepolo allora è colui che si mette a seguire Gesù come maestro. Per seguire ci vuole fede. Questa fede è a rischio in ogni prova, come per i discepoli, soprattutto ogni volta che si tratta di “perdere” come chiede l’Amore. Ma il fascino di Gesù è più forte della paura; per questo nonostante tutto i discepoli continuano a seguire Gesù. Teniamo vivo questo fascino cercando di affascinare altri sulla persona di Gesù; sperimenteremo, come scrive san Giovanni, che “chi ama non teme”.

 

In questi mesi, malgrado i disordini in città, ho continuato a vivere nella speranza che un giorno non lontano nel nostro dilaniato Paese regni la pace fra tutti. Nel mio quartiere vivono mescolati gli appartenenti ad etnie diverse. Questo significa ogni giorno morti sulle strade, minacce, violenza, persone che approfittano della situazione incontrollabile per il proprio tornaconto.

Pur in tanta desolazione, capisco che, se faccio spazio dentro di me a Dio Amore e lo manifesto agli altri, l’ideale di unità sarà come un seme che alla fine germoglierà in tutti i cuori. Posso coltivare ogni giorno questo seme dovunque mi trovi, al lavoro o con i vicini di casa, senza mai far caso all’etnia di appartenenza.

Sulla strada che percorro ogni giorno per andare al lavoro incontro sempre un uomo con una piaga infetta alla mano. Gli ho domandato perché non va a farsi curare e mi ha risposto che non ha i soldi necessari. Gli ho proposto di venire da me a medicarsi, mi pagherà quando potrà. È venuto un paio di volte, poi non l’ho più visto.

L’ho incontrato di nuovo e gli ho chiesto perché non era più venuto a curarsi. Mi ha detto che ha paura: di me che non appartengo alla sua etnia, di chi incontra lungo la strada e dei suoi fratelli che potrebbero punirlo perché si è fatto curare da persone di etnie diverse. Mi sono resa conto di come ormai in molti abbiano perso ogni fiducia negli altri.  Ho sentito che dovevo amarlo fino alla fine e interrompere questa catena di odio e di pregiudizi: ho deciso allora di portare con me il materiale sanitario necessario per rifargli la fasciatura ogni giorno, al ritorno dal lavoro.

Un posto tranquillo in cui medicarlo mi è sembrato, in mancanza di meglio, il piccolo rifugio di legno dove sostano a volte i soldati addetti alla vigilanza nel nostro quartiere. Ho chiesto loro il permesso e me l’hanno accordato, un po’ sorpresi e curiosi nel vedere che curavo una persona di un’altra etnia.

Sistemata la fasciatura, mi sono accorta di aver dimenticato a casa le forbici. Mi son guardata intorno in cerca di qualcosa che fosse adatto a tagliare la benda e, subito, il soldato che mi guardava mi ha offerto, con molta gentilezza, la sua baionetta. Il ferito era sbalordito e contento, sia per la premura dei soldati sia per la mia determinazione a curarlo. Mi ha detto che non pensava esistessero persone che non fanno dell’appartenenza etnica una barriera.

È stata per me una conferma in più che l’amore è l’unica soluzione ai nostri problemi.

Spes (Burundi)