24 ottobre 2004 - 30a domenica t. ord.
Sir 35,12-14.16-18 / 2Tm 4,6-8.16-18 / Lc 18,9-14
Abbi pietà di me peccatore
(Lc 18,13)
Attraverso la parabola del
fariseo e del pubblicano ci vengono descritti non solo due modi diversi di
pregare, ma due modi di vivere la fede, sempre attuali. Davanti a Dio il fariseo vanta i suoi meriti (pur veri),
dice continuamente “io”, non chiede perdono di niente, ringrazia per non essere come gli altri uomini, da cui
prende le distanze. Il pubblicano,
invece, non osa alzare gli occhi al cielo e si consegna interamente alla
misericordia di Dio: “Abbi pietà di me
peccatore”. Proprio quest’ultima preghiera e l’atteggiamento di umiltà che l’accompagna, saranno più
graditi a Dio.
Nella mentalità dominante di
oggi sembra sparito il senso del peccato personale; è troppo facile e comodo
guardare solo a quello degli altri... Chiediamo il dono dell’umiltà:
riconoscendo i nostri peccati, vedendoli alla luce della sempre sorprendente misericordia di Dio, sapremo attribuire
più a Dio, che a noi, il merito del bene che riusciamo a fare.
Mi vengono a chiamare perché una ragazza sta per morire. Chi mi
accompagna mi dà alcune notizie sulla sua salute. Mentre ci avviciniamo alla
casa, mi accorgo che entriamo nel quartiere delle prostitute. La ragazza è una
di loro e si chiama Eliete. Sulla porta incontro il medico che sta uscendo.
“Dottore, è grave?”. “Padre, io ho fatto la mia parte - mi risponde - adesso
lei faccia la sua, perché questa povera giovane al massimo avrà due o tre
giorni di vita. Stia molto attento, però, perché si tratta di una malattia
venerea contagiosa”.
Trovo una giovane diciottenne fisicamente disfatta, con la pelle
purulenta in quasi tutto il corpo. Mi racconta la sua storia, dolorosissima,
penosa: non ha mai sperimentato l’amore. È stata spinta a quella vita per
sopravvivere. Adesso sa che tra breve si presenterà a Dio e vuole confessarsi e
ricevere l’Eucaristia: “Voglio morire come una figlia di Dio, anche se sono una
grande peccatrice”.
Sono sicuro che in lei non c’è peccato e, se ci fosse stato, per tutto
quello che ha patito è così purificata che andrà dritta in cielo. Mi vengono in
mente le parole di Gesù: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel
regno di Dio” (Mt 21,31). Sono parole rivoluzionarie e sento che sono proprio
vere.
Prima, però, di darle l’unzione degli infermi, ricordando le parole del
medico, mi sono sentito come paralizzato dalla paura: “Se la tocco, prenderò
facilmente la malattia?”. Tormentato da questo pensiero le do la comunione e
quasi decido di non amministrarle l’unzione degli infermi. Ma una voce mi
rimbomba dentro e mi dice forte: “Sei sacerdote per tutti, anche per lei. Non
puoi negarle quanto Gesù le ha guadagnato con il suo sangue!”. Cerco di vincere
la paura di perdere la buona fama e faccio quanto dovevo. Vedo sorridere la
giovane. Gioisco anch’io e rimango con lei più a lungo. Parliamo di Gesù
dinanzi al quale siamo tutti uguali. “E se Gesù ti guarisse, cosa farai?” le
chiedo. “Tornerei a casa dai miei e direi loro che è meglio morire di fame che
vivere in quest’inferno”. Chiediamo insieme “nel nome di Gesù” la grazia della
guarigione.
Dopo qualche tempo le due ragazze che l’assistevano mi portano la bella
notizia che Eliete è guarita, ha abbandonato per sempre quel luogo di dolore ed
è tornata a casa da suo padre.
E. P., Brasile