4 febbraio 2007  - 5a domenica t. ord.

Is 6,1-2a.3-8 / 1Cor 15,1-11 / Lc 5,1-11

 

Sulla tua parola getterò le reti

(Lc 5,5)

 

Non riesco a pensare che Gesù, in fatto di pesca, ne sapesse più di Pietro e dei suoi compagni. Tanto meno voglio attribuire alla Parola di Dio la capacità di risolvere tecnicamente i miei problemi di lavoro, di famiglia. La Parola è lo stesso Gesù che mi cerca, mi aspetta per insegnarmi il nuovo modo di vivere la vita di Dio. Se mi lascio attrarre, al primo momento mi sento lontano dalla santità che mi è proposta e come Pietro ho paura che Dio mi venga vicino. Poi diventa come un carbone ardente che mi purifica, che mi fa sentir bene, come Isaia nel tempio. Il passo successivo è “essere Parola”, cioè viverla.

L’effetto è sproporzionato, è una pesca non sperata, miracolosa.  La Parola allo stesso tempo mi… pesca, mi seduce e mi fa diventare un altro Gesù che dice agli altri: “Butta le reti, sono io che te lo dico!”.

Forse perdiamo tanto tempo a voler discernere, a discutere cosa vuole da noi Gesù. Basta una Parola accolta e vissuta con la prontezza dei primi discepoli, pescatori, e il cammino si illumina, ci viene spontaneo esclamare: “eccomi, manda me!”, “Voglio essere pescatore di uomini”. Ogni vocazione trova la sua radice nella chiamata e risposta primordiale, nello stupore di sentirsi amati e scelti per stare con Gesù.

 

Ero molto stanca quella sera, dopo aver ascoltato decine di persone, extracomunitari e no, che si rivolgevano alla sede della Caritas diocesana dove da anni presto servizio di volontariato. Noto quella ragazza minuta, ancora giovane, che trascina camminando la gamba destra. Sul volto e sulle labbra presenta sfoghi vistosi. Giunto il suo turno, con tracotanza e disperazione sbotta: “Mi hanno detto che tu riesci a trovare lavoro, ho fame, non ho soldi”.

Mi racconta in breve la sua storia. Ha 32 anni (anche se ne dimostra molti di più) ed è tossicodipendente, affetta da Aids. È separata dal marito ed ha una figlia di 11 anni, che vive con il papà in un’altra città. L’ascolto, facendo spazio dentro di me al suo dolore. Penso alle umiliazioni che deve aver subito, tra cui quella di essere stata cacciata via da casa dai genitori per timore del contagio… Ma non è per compassione che sento di volerle già bene. Ma perché, malgrado tutto, lei ha ancora voglia di vivere, di lottare.

Cerco intanto di provvedere per quanto mi è possibile. Finito il colloquio, le lascio il mio numero di telefono: in caso di necessità, o se vuole parlare con qualcuno, sa dove trovarmi.

Da allora ci siamo incontrate spesso. Le ho procurato cibo, qualche soldo. Ma ciò di cui sentiva maggior bisogno era sentirsi accettata come persona.

Una sera mi telefona dicendomi di aspettare un bambino. Vado subito a trovarla, e mi dice che, malgrado le tante perplessità ad avere un figlio, ha deciso di proseguire la gravidanza. “Nella vita non ho fatto nulla di buono – spiega -, ma ora mi si è presentata la possibilità di cambiare vita”. Ci ritroviamo l’una nelle braccia dell’altra: mai il suo volto deturpato mi era parso così bello.

“Sei sicura che Dio esiste?”, mi chiede. Le rispondo che anche Gesù si è sentito abbandonato, e che ci ama immensamente, con profonda misericordia. “Fidati di lui – le dico – e vedrai”.

Rossana L.,  Emilia Romagna