Flash di vita

L’impatto
della testimonianza

Hermann Spicker, parroco vicino ad Eschede, dove il 3 giugno è avvenuto il gravissimo incidente ferroviario in Germania con più di cento morti, quella mattina stava iniziando un incontro ecumenico da lui promosso con 50 persone tra luterani e cattolici, quando è arrivata la notizia del disastro.

Hermann e tutti i presenti sono subito partiti e in quaranta minuti erano già sul posto. Una visione terrificante: cadaveri e feriti dappertutto. Sembrava, ha detto Hermann, un infernale campo di battaglia. Ha subito capito che bisognava darsi da fare per trasformarlo, mettendo in azione l’amore tra tutti.

Un bimbo, che aveva perso un occhio e mostrava una ferita sanguinante sulla testa, gli viene incontro chiamando disperatamente la mamma. Lo prende in braccio e copre la ferita nel tentativo di fermare l’emorragia. È una tragedia dopo l’altra. Hermann cerca di ascoltare, consolare e prendere le opportune decisioni. S’inginocchia davanti ad un pompiere che, avendo superato ogni umana resistenza, non ce la fa più e piangendo batte i pugni per terra.

Dopo 20, 30, 40 ore di lavoro con centinaia di soccorritori, si continua a raccogliere cadaveri, spesso fatti a pezzi. Molti soccorritori sono allo stremo delle loro forze e sul loro volto non di rado si vedono i segni dell’impotenza o addirittura della disperazione.

Si trova in questo stato un donna venuta da lontano per aiutare e che ora non sopporta più la puzza dei cadaveri sulla sua pelle. Hermann la porta a casa sua in parrocchia, le procura altri vestiti e le trova una famiglia che si occuperà di lei. "Non avrei mai immaginato – le dice la donna – che sarebbe stato proprio un prete a farmi ritrovare la mia umanità, il mio essere donna in questa tremenda situazione. Grazie!".

L’impegno di quelli che insieme ad Hermann cercano di vivere il vangelo in parrocchia è totale: dopo solo trenta minuti mettono a disposizione 70 camere singole nelle loro case per accogliere i parenti delle vittime.

Oltre a mantenere i contatti con le autorità del posto per coordinare gli sforzi, Hermann è chiamato al telefono dal cancelliere Helmut Kohl, che proprio da lui vuole essere aggiornato di tutto.

Come sempre avviene, sul posto ci sono anche i mass media e, siccome Hermann parla l’inglese, viene intervistato anche da reti televisive dell’Inghilterra e degli Usa. Alla domanda: "Come sta vivendo l’accaduto e come fa a resistere?", ha risposto: "Innanzi tutto sono un uomo e fa parte della nostra natura umana aiutarci a vicenda; in secondo luogo sono un cristiano e come tale la mia fede mi dice che Dio ci ama anche in questa situazione così dolorosa; infine sono un prete e son venuto qui non per dire belle parole ma per essere utile a queste persone e dare la mia vita per loro".

Questa intervista ha suscitato reazioni molto forti anche in Inghilterra e negli Stati Uniti. Sono arrivati echi e telefonate. Un sacerdote inglese ha chiamato Hermann per ringraziarlo e dirgli tra l’altro: "Con le tue parole ho capito finalmente il valore del celibato: siamo sacerdoti per dare la vita!".

Un giornalista della BBC ha voluto un colloquio personale con lui, confidandogli quanto sta soffrendo per le continue pressioni che subisce nel suo lavoro. Alla fine gli ha detto: "Grazie! Lei mi ha guardato veramente negli occhi".

"Forse per la prima volta, dopo anni – ci ha detto Herman – i mass media tedeschi, anche quelli che normalmente attaccano la chiesa, l’hanno messa sul moggio, impressionati per la presenza attiva dei cristiani in una circostanza così dolorosa". "Grazie a questa testimonianza – ha commentato qualcuno – il nostro popolo, normalmente disperso a motivo dell’individualismo, per qualche giorno si è ritrovato più unito".

Pronto a dare la vita

Renato Chiera, un sacerdote italiano che da molti anni accoglie in una casa, a Rio de Janeiro, i ragazzi della strada, spesso presi di mira per essere eliminati dagli "squadroni della morte", ci racconta questa drammatica esperienza.

Alle due di notte vengo svegliato da un rumore e vedo la luce accesa nel mio bagno. Mi trovo davanti un giovane con il mio portafoglio in mano. "Avevo fame", dice, e mi restituisce il portafoglio.

È un diciannovenne, che nel passato era stato accolto per un certo tempo nella nostra casa, per non essere ammazzato dagli squadroni della morte. Aveva le tasche e la borsa piene di cose rubate. "Perché non sei fuggito?", gli chiedo. "Ero indeciso. Perché rubare a lei che mi ha fatto tanto bene?".

Siccome tremava dal freddo, gli ho preparato da dormire nella sala. La mattina mi confida che altri due assieme a lui avevano programmato tutto, disposti a uccidermi, se io avessi reagito. Dopo una buona colazione, gli ho consigliato di dileguarsi senza farsi notare.

La settimana dopo un’altra visita. Arrivando a casa vedo spegnersi la luce nella mia stanza. La porta è aperta, ma non trovo nessuno. Nella camera accanto c’è un giovane ferito sul letto. Gli chiedo come mai è in quello stato. Mi risponde che fuggiva, perché volevano ammazzarlo. Non trovando nessuno in casa, ha buttato giù la porta. Anche le finestre erano rotte e si notavano buchi provocati da tiri di pistola. E dentro di me riecheggiava una voce, quella che stavo meditando in quel mese: "Sono io, non aver paura!".

Data la grande stanchezza e le tensioni quotidiane, il medico mi manda a riposare. Intanto arrivano telefonate minacciose: "Lei ha dieci giorni di vita..., otto giorni..., due giorni: arriveremo presto". La tensione aumenta, ma nello stesso tempo Gesù continua a ripetermi: "Sono io, non aver paura!".

Vengo invitato a partecipare alla Biennale del Libro a S. Paolo, dall’Editrice Cidade Nova, per un dibattito su "Gioventù ed esclusione". Ci avvertono che è stata messa una bomba nel bagno, ma la polizia la trova esattamente accanto al posto dove dovevo apporre l’autografo al mio libro, Filhos do Brasil.

E come un ritornello mi sento ripetere questa Parola di vita: "Sono io, non aver paura!".

Pochi giorni dopo il ritorno a casa vengo investito da una macchina. Il conducente, ubriaco, fugge. Mentre vengo trasportato in ospedale, in preda a forti dolori e non potendo più muovere le gambe, penso che sarei rimasto immobilizzato. "Dalla fecondità dell’azione passerò a quella della sofferenza", mi son detto. E ancora: "Sono io, non aver paura!". Dopo l’esame: nessuna lesione, solo un periodo in ospedale e una lunga fisioterapia.

Tanti vengono a trovarmi e con loro vedo sempre più chiara la luce di Gesù in mezzo a noi. È questa la realtà che devo vivere. Infatti constato, ad esempio, che nella parrocchia in questo periodo di inattività da parte mia, tutto è andato avanti, anche meglio di quando ero presente e mi preoccupavo.

a cura della redazione