Tra i carcerati: testimoniare l’amore più grande

di Calogero Calanni e Pietro Gennaro

Due sacerdoti siciliani, in località diverse, fanno la medesima esperienza: quando l’amore è autentico e disinteressato, allora quell’immagine di Gesù crocifisso che è il mondo dei carcerati cambia aspetto. Ma occorre innanzi tutto convertire se stessi.

Pietro Gennaro: 20 anni fa, vissi sulla mia pelle tutta la problematica dei primi anni ’70: ricerca di identità, crisi di solitudine, disunità tra clero e vescovo, mal posta apertura al sociale, fino al punto da perdere di vista la mia scelta originaria: Dio. Conducevo una vita borghese, da ministro burocrate.

Mi dedicai a degli hobby che non avevano nulla a che spartire con i miei compiti di prete. Spesso trascorrevo qualche ora andando a caccia con degli amici; mi piaceva pure la pesca fino al punto da procurarmi una grossa imbarcazione da diporto, completa, s’intende, di reti e di ogni marchingegno da pescatore professionista. Ma soprattutto mi affascinava la radiofrequenza, tanto da potermi collegare con radioamatori non solo dell’Europa ma perfino di oltre-oceano.

Con una vita così, il mio rapporto con Dio si era di molto affievolito e l’attività pastorale languiva. Fu a questo punto che un sacerdote mi rivolse un invito inaspettato: "Perché non vieni con me domani sera a Roma ad un convegno di sacerdoti? Vedrai che non avrai a pentirtene". Capirai, pensai tra me, trovarmi solo tra preti... deve essere una barba tale... no, non ne parliamo neppure. Quella notte non riuscii a chiudere occhio. Rividi tutta la mia vita passata e mi sentii un fallito, ma davanti al volto sereno di chi mi aveva invitato, decisi di fare un salto nel buio e partii.

Fu per me una folgorazione! 720 tra sacerdoti e religiosi di tutte le nazionalità, congregazioni, razze, culture, in un clima di armonia e di sincera fraternità. Credetti di essere sbarcato su un altro pianeta. Si parlava della nuova spiritualità dell’unità, dell’amore scambievole fino a dare la vita. Mi pareva un’utopia una vita così. Io mi conoscevo bene. Sarebbe venuto fuori qualcosa di buono da me?

Durante l’incontro però vedevo che si viveva nei miei confronti quello che si diceva: letto rifatto e servito a tavola, sembrava che gli altri vivevano soltanto per servirmi. "Eh no, qui son tutti matti, pensai, sarà tutta una montatura". Man mano, però, incominciavo a sentirmi sciogliere dentro: come mai mi sentivo accettato per quello che ero?

Le parole: Dio al primo posto, perdere tutto, inabissarmi nel presente per amare il fratello, capovolsero la mia vita. Perdere tutto, lasciare tutto! Queste parole mi risuonavano potenti nell’anima; da dove cominciare? Rientrato in paese trovai la forza di sbarazzarmi del fucile, dell’imbarcazione con tutta l’attrezzatura; mi sembrò un po’ duro staccarmi dalla radio frequenza, ma vinsi anche questa, smantellai tutto e non se ne parlò più.

Chiesi al mio vescovo di lasciare la parrocchia a cui ero molto attaccato e fui promosso da parroco a viceparroco in una parrocchia con un confratello che condivideva lo stesso ideale. Trascorsi appena due mesi, il mio vescovo mi fece la proposta di celebrare la messa nel carcere. Le gambe mi tremavano. Ho pensato a Gesù abbandonato, tagliato fuori da tutti.... L’amore verso ogni carcerato per me doveva essere una scelta rinnovata a Lui. Mi buttai e dissi di sì.

All’ora stabilita fece il suo ingresso nella disadorna cappella un gruppo di detenuti; mi scrutavano studiandomi, mentre accendevo le candele e preparavo le ampolline.

"Il Signore sia con voi... e con il tuo spirito" dovetti aggiungere da me. Nessuno, infatti, conosceva la risposta. Ma l’esame più difficile fu il commento al Vangelo che parlava di Zaccheo. Non riuscii a dire niente di quanto con cura mi ero appuntato ma sentii che potevo amare concretamente. Dicevo a ciascuno di loro: "non mi interessa che cosa hai fatto o che cosa farai, voglio solo sapere se vuoi essere aiutato e se ti posso aiutare". Così mi trovai a fare il fattorino per sbrigare una pratica di pensione, il detective per rintracciare una moglie che da sei anni non dava più notizie, l’intermediario per ottenere la disponibilità di bravi avvocati a difendere gratuitamente qualche detenuto in difficoltà economiche.

Un inizio con timore e tremore

Calogero Calanni: Nel 1993 il vescovo mi invitò a supplire il cappellano del carcere che si era ammalato e dopo qualche anno mi confermò come cappellano. Iniziai questo lavoro con timore e tremore.

Andando da loro mi son messo nell’atteggiamento di vedere in ogni carcerato non un miserabile da compatire ma il volto del Cristo sofferente da amare e servire.

Quando stavo con loro mettevo da parte ogni pensiero, davo tutta l’attenzione e il tempo per ascoltarli fino in fondo. L’amore concreto – ho visto ben presto – apre dei varchi nei loro cuori, per cui è più facile costruire la comunione.

Nell’ascoltarli veniva fuori dal loro cuore tutto il dolore delle loro situazioni di vita: separazioni, convivenze, problemi economici, difficoltà con i figli, lontananza dai propri cari, difficoltà di lavoro, difficoltà con le strutture pubbliche, malattie, morte di un parente, reinserimento nella società.

Di fronte a questa varietà e gravità di problemi solo l’amore a Gesù abbandonato mi poteva dare forza e speranza per continuare a lavorare. Ero convinto, infatti, che se stavo dritto in croce, prima o poi i frutti sarebbero arrivati. Con questa premessa, mi davo da fare.

Ricordo tra i "miei" carcerati un immigrato al termine della pena. Era extracomunitario e rischiava il rimpatrio. L’ho accompagnato negli uffici competenti e con l’aiuto di un legale, ha risolto positivamente la sua situazione. Ora lavora da alcuni anni ed è felice.

Un giorno il figlioletto di un altro doveva essere operato e si rifiutava di operarsi senza la presenza del papà. Si è riusciti a fargli avere il permesso e il giorno dell’operazione il papà poteva stare accanto al figlio.

Un altro tornato in libertà continua a tenersi in contatto e sta pensando con la moglie a regolarizzare la posizione matrimoniale.

Cristiani, ebrei e musulmani

Pietro Gennaro: Anche nel mio carcere i frutti non si fecero aspettare e furono al di là di ogni previsione. Così vidi un po’ alla volta ricomporsi la reciproca stima non solo tra i detenuti di culture e di religioni differenti ma, con mia sorpresa, anche tra questi e le guardie.

Nel Natale ’97 il direttore aveva promosso un concorso per il miglior presepe e gli agenti, accolta l’iniziativa, si impegnarono molto per procurare il materiale necessario, per cui vennero fuori dei presepi che si rivelarono piccoli capolavori.

Volle partecipare al concorso anche un fratello detenuto musulmano, coinvolto da questo clima fraterno. Riuscì a rappresentare una chiesa sormontata da un campanile e in cima una croce e una moschea accostata alla chiesa; sulla piazzetta antistante alla chiesa e alla moschea la scena della nascita di Gesù con tutti i personaggi tradizionali: la Madonna, san Giuseppe e il bambino, il bue e l’asinello, qualche pecora e qualche pastorello; mancava, secondo la sua sensibilità artistica, il cammello, che subito gli procurai. Era oltremodo felice.

Un ebreo, in occasione della festa di Pasqua, mi pregò di procurargli del pane azzimo perché anche lui voleva celebrare la Pasqua secondo il suo rito. Il fornaio mi accontentò ben volentieri. L’ebreo pieno di gratitudine mi disse tra l’altro: "In fondo adoriamo lo stesso Dio. Preghiamolo insieme e vogliamoci bene perché figli dell’unico Padre".

"Se non fossi sposato mi consacrerei a Cristo come hai fatto tu"

Calogero Calanni: L’unità con altri sacerdoti e la comunione di vita tra noi sono forza e luce, anche in quest’esperienza. Alle volte, infatti, le situazioni che si hanno davanti sono così contorte che tutto ciò che uno può fare non basta a risolvere i problemi.

È stato così con la famiglia di un detenuto che non aveva il necessario per garantire il cibo per i figli, e il papà non solo non si calava nel dolore dei suoi, ma chiedeva ancora del denaro alla moglie. Quella volta ho cercato di far arrivare alla moglie il necessario per accudire ai figli.

In un’altra situazione mi è capitato di aiutare la moglie di un detenuto a trovare un lavoro e una casa dove abitare. Finita la pena, lo sposo è tornato in famiglia e si è tenuto lontano da ambienti che potevano indurlo a ricadere in errore. Inizialmente tutto sembrava filar liscio, ma con l’andar del tempo si accesero tra i coniugi vecchie incomprensioni sino ad arrivare a nuove denunzie fatte dalla moglie che riportarono in carcere lo sposo ed io fui citato per testimoniare.

In circostanze come queste guardo a lui in croce e ripongo ogni cosa nelle sue mani. L’amore a lui mi fa stare sereno e mi dà la forza per continuare ad essere amore puro per ciascuno, andando al di là delle ingratitudini.

Quando poi giungono messaggi che esprimono riconoscenza per quello che cerchiamo di fare per loro, è una festa. Nel giorno di Pasqua mi è stato consegnato questo biglietto: "Se non fossi sposato e non avessi figli, mi consacrerei a Cristo come hai fatto tu, perché ho capito che c’è un amore più grande... Fuori o dentro queste mura vi sarò sempre riconoscente e mai più mi discosterò da questa vita nuova. La mia era un’anima tinta di sporco e voi mi avete saputo dare l’esempio di come ci si può purificare, seminando amore e pace. Non lo dimenticherò mai". E si firmava: "Una pecorella smarrita che ha ritrovato la via del credo".