Sacerdoti oggi: vivere e non solo sopravvivere

di Cola-Hagemann-Norris

In conclusione del Congresso, un forum ha messo a fuoco alcuni punti nevralgici della vita sacerdotale oggi. Vi sono intervenuti il teologo Thomas Norris di Maynooth (Irlanda), il sacerdote e psicologo Silvano Cola, responsabile del Centro sacerdotale dei Focolari e Wilfried Hagemann, rettore del seminario ed incaricato per l’accompagnamento e la formazione dei giovani sacerdoti nella diocesi di Münster (Germania). Riportiamo i loro contributi, mantenendo la spontaneità del parlato.

Un profilo del sacerdote oggi

Hubertus Blaumeiser: Cominciamo questo forum partendo dalla teologia. E chiediamo a Thomas Norris di tracciare un rapido profilo del sacerdote oggi.

Thomas Norris: Il sacerdote oggi da un lato dev’essere, come sempre, l’uomo scelto da Dio per il suo popolo, al servizio del popolo di Dio. "Come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi", dice il Risorto agli apostoli; e questo sottolinea come il sacerdote partecipa alla missione di Gesù, continua Gesù: come lui, egli porta la vita della santissima Trinità dal Cielo in terra.

Però, in questa nostra epoca c’è una sottolineatura nuova. Noi viviamo in un mondo che, nonostante tutti gli ostacoli, va sempre più verso l’unità. Il Concilio Vaticano II e il successivo cammino della chiesa evidenziano questo aspetto universale. Su questo sfondo, in questi ultimi anni c’è una nuova comprensione della chiesa come mistero, come comunione e come missione.

Per essere concreto, si può dire che il sacerdote oggi deve essere l’uomo dei rapporti. André Malraux ha scritto che il sacerdote è l’uomo dei rapporti profondi. Quest’espressione mi sembra molto significativa. Si può dire, infatti, che il sacerdote è l’uomo del dialogo, e questo in tre ambiti.

Innanzi tutto con Dio: il sacerdote come uomo di Dio, come l’uomo perso in Dio.

E poi nella chiesa: il sacerdote come uomo della comunione, l’uomo che costruisce insieme con altri sacerdoti e con tutti la chiesa come comunione.

E infine nell’ambito della missione: il sacerdote come l’uomo del dialogo a respiro universale, nei confronti delle altre religioni, del mondo, di chi non crede.

Concluderei questa mia breve risposta ricordando quanto disse un giorno Atenagora, il grande patriarca di Costantinopoli: Nel primo millennio noi cristiani abbiamo definito i grandi dogmi sulla Trinità e sulla cristologia e abbiamo posto insieme le fondamenta della nostra fede; nel secondo millennio purtroppo abbiamo combattuto l’uno contro l’altro e tra i cristiani sono sorte le divisioni; ma nel terzo millennio riscopriremo i rapporti, i dialoghi, soprattutto l’amore scambievole, il comandamento nuovo di Gesù. E così l’umanità, per la seconda volta nella storia, riscoprirà il vangelo.

Ecco quanto attende, per il terzo millennio, tutti i cristiani e in modo speciale i sacerdoti. Questa è la loro vera vocazione: essere esperti nel creare autentici rapporti tra gli uomini, vivere intensamente il comandamento nuovo per poterlo annunziare agli altri e costruire la chiesa-comunione.

Le difficoltà dei giovani sacerdoti

Hubertus Blaumeiser: Emerge oggi, fra i seminaristi, un certo scoraggiamento, davanti alle situazioni concrete e a volte dolorose in cui si trovano non pochi sacerdoti. C’è un numero notevole di giovani sacerdoti che, dopo pochi anni, a volte dopo un anno o solo dopo pochi mesi, lasciano il ministero. Perché? Rivolgiamo questa domanda a Wilfried Hagemann che vive in un contesto in cui la chiesa sperimenta fortemente l’urto della secolarizzazione.

Wilfried Hagemann: Certamente questo è un grave problema. Abbiamo giovani sacerdoti che erano andati nelle parrocchie con tanto entusiasmo, con tanta audacia, con tanta buona volontà, ma a volte incontrano subito grosse difficoltà con se stessi ed anche con gli altri.

Una prima difficoltà nasce dal fatto che spesso non trovano la comunità cristiana che hanno sognato, ma parrocchie frantumate, a volte già secolarizzate nelle loro stesse strutture. Notano che sono piuttosto pochi i cristiani che frequentano la messa domenicale, e tanto più quella feriale, e per di più anziani. I giovani non sembrano mostrare particolare interesse per le cose riguardanti la fede: vengono piuttosto per motivi di ritrovo e chiedono al giovane prete di organizzare il loro divertimento.

Giustamente il giovane sacerdote allora si chiede: "Ma cosa sto a fare qui, se il mio ministero non interessa quasi a nessuno?". Da qui la crisi, spesso precoce.

Penso che qui dobbiamo fare una svolta pastorale profonda. Prima di dare i sacramenti, dobbiamo cominciare col donare cose più fondamentali, dobbiamo con la nostra vita insegnare a vivere il vangelo. Ma come fa un giovane prete a realizzare questo se non si è specializzato in questo stile di vita quando era in seminario? La problematica quindi si sposta più a monte, ai luoghi della nostra formazione.

A Münster abbiamo capito che esiste uno choc della prassi – praxischoc in tedesco – cioè un giovane prete va in parrocchia e trova un mondo diverso da quello che pensava prima, e si spaventa. Nella nostra diocesi abbiamo proposto al vescovo di far fare due anni di pratica in parrocchia prima di essere ordinati sacerdoti: un anno prima del diaconato e poi un secondo anno da diacono, per capire come è oggi la comunità e anche per sperimentare se si è capaci di affrontare e superare queste difficoltà e dare il proprio contributo nel costruire un mondo nuovo.

Credo che oggi il giovane sacerdote debba avere questo spirito missionario, questa capacità di essere veramente radicato in Dio e di riuscire a creare rapporti veri con gli altri. Quando in questi giorni si è detto che il sacerdote deve essere perso in Dio, ho pensato: come si prega oggi? Poi mi è venuto in mente che le parole perso e persona, anche se non hanno la stessa etimologia, sono molto vicine. Ora più uno è perso, più sa uscire da se stesso, più è persona, e più è anche capace di dialogare con il mondo. E io credo che imparare a darsi, ad amare, rimanendo sempre in Dio, è forse oggi la cosa più necessaria. Ripeto però che non basta un semplice desiderio di donarsi agli altri, è necessario essere ben radicati nella propria donazione a Dio. Questo secondo me è necessario per evitare che i giovani sacerdoti si sentano facilmente delusi.

La sfida della maturità psicologica

Hubertus Blaumeiser: Vuol dire che i giovani sacerdoti sono troppo riferiti a se stessi quando escono dal seminario?

Wilfried Hagemann: Non volevo affermare questo, ma volevo piuttosto dire che la maturità oggi, anche la maturità psicologica – lo vedo pure in altri studenti –, non si raggiunge così facilmente. è un lungo processo di perdersi, di donarsi, e facilmente un giovane, diventando sacerdote, cerca subito il successo. Egli deve essere pronto a non vedere niente, a vivere questa esperienza di insuccesso in una visione di fede. È con la sua morte che Gesù ha generato la chiesa. Non dico che i giovani preti questo non lo sappiano, ma che devono imparare a viverlo concretamente.

Hubertus Blaumeiser: Che cosa può aiutare a percorrere questo cammino di maturazione?

Wilfried Hagemann: Credo che vivere il vangelo significa innanzitutto accettare l’altro. Quando un giovane diacono o prete inizia un’esperienza in parrocchia, come prima cosa dovrebbe aprirsi al parroco, non giudicarlo. E fare questo non per semplice obbedienza, ma perché è meglio il meno perfetto in unità che il più perfetto fuori dell’unità. Muovendosi su questo binario egli esce da se stesso, diventa più maturo e acquisterà la capacità di dialogare con tante altre persone.

Io credo che comincia nella casa parrocchiale quello che dobbiamo essere nel mondo.

Uscire da se stessi per diventare se stessi

Hubertus Blaumeiser: Uscire da se stessi per diventare se stessi: un concetto insolito nel contesto di una cultura e di una visione antropologica, come quella di oggi, che accentua molto la dimensione della libertà e dell’identità del soggetto. Chiediamo a Silvano Cola, esperto in psicologia, di approfondire maggiormente questa prospettiva.

Silvano Cola: Mi riallaccio a quanto detto da Wilfried Hagemann. Noi dobbiamo sempre partire da un concetto fondamentale: che il nostro modello è Gesù; se non c’era Gesù non c’eravamo neanche noi come preti o come seminaristi. Ma se Gesù è il modello vuol dire che ha segnato una strada.

Quando qualcuno diventa prete, se ha quel modello davanti, anche se trova il deserto dappertutto, come Gesù l’ha trovato venendo sulla terra, crea quello che non c’è.

Gesù è venuto a creare l’unità, a modo del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo. Io ricordo sempre quello che dice Chiara in una meditazione: come un emigrante, quando va in terra straniera porta dove va gli usi, i costumi e la civiltà del mondo da cui proviene, così il Verbo di Dio, venendo come emigrante sulla terra, ha portato la sua civiltà. E qual è la sua civiltà? è l’amore perché Dio è Amore. Ecco perché "amatevi gli uni gli altri…; il mio comandamento è che vi amiate gli uni gli altri…; nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita".

Cosa implica l’amore? Implica proprio questo non vivere per sé ma vivere per l’altro. Questo che sembra un concetto molto spirituale, è anche l’unico modo per personificarsi, perché Gesù riporta l’uomo alla sua origine, cioè ad essere a immagine e somiglianza di Dio.

Quindi uscire da sé, o dar la vita per gli altri, è l’unica via per diventare persona. Tutta la psicologia oggi, parlo di psicologi non cattolici, non cristiani, parla di questa trascendenza di sé nell’altro. Cioè se io voglio essere, devo uscire da me, trascendermi nell’altro.

Se una volta il concetto di personalità era frangar non flectar (mi spezzo ma non mi piego), cioè io sono io, il carisma dell’unità ci insegna a farci uno con l’altro. Ce lo ha insegnato innanzi tutto san Paolo: se uno piange, piango con lui, cioè mi faccio uno, mi piego. Questo è il cristianesimo, cioè l’amore, ed è l’unico modo di trascendersi e di diventare persona.

Ogni malattia mentale, mettiamo le due grandi classi: le psicosi e le nevrosi, da cosa dipendono? Dal perdere la relazione con l’altro, o con le persone o con le cose. Quando tu ti chiudi in te stesso e rifiuti la relazione, tu hai smesso di maturare psicologicamente, cioè ritorni bambino nel seno della madre. Se vuoi maturare apri l’anima a tutte le relazioni, sapendo che tu devi costruire delle relazioni positive amando. Non c’è altra via.

Gesù ne ha parlato in infiniti modi: "Chi perde la propria vita la salva"; tradotto in termini di psicologia: se io non penso a me stesso, ma penso al bene dell’altro, io la mia vita la salvo, perché la perdo per l’altro. Se io sono chiuso in me stesso, mi perdo, cioè perdo la vita.

Il filosofo ebreo Lévinas, quando guarda all’età moderna, al postmoderno, fa l’esempio di Caino e Abele. Quando Caino risponde a Dio: "Chi è mio fratello Abele?", dice una cosa esatta: io sono io, lui che c’entra con me? Manca però l’etica, manca il rapporto. Lévinas ha capito profondamente che il dualismo è morte, mentre la relazione è vita; la vita è relazione, la persona è relazione. Questo lo diceva già san Tommaso quando si chiedeva che cosa costituiva le Persone divine. E rispondeva: è l’essere in relazione all’altro. La stessa cosa vale in psicologia. Anzi c’è un principio generale che converrebbe tenere in testa: tutto quello che è vero teologicamente, è vero anche psicologicamente, perché l’uomo è fatto a immagine di Dio.

Per cui tante difficoltà, anche per le vocazioni, si spiegano secondo me in questo senso: abbiamo perso il senso della sfida che Gesù ha dato al mondo venendo sulla terra. Non c’era niente, c’era il deserto. è morto in croce, quindi nel totale fallimento, umanamente nel totale fallimento. Ma è lì che è stato sacerdote perché in quel momento ha creato l’unità fra Cielo e terra, in quello che umanamente appariva il fallimento.

Ora se noi non partiamo con questi concetti forti, di fronte alle difficoltà ci perdiamo.

Una luce sul celibato

Hubertus Blaumeiser: Wilfried Hagemann ha sottolineato l’impatto con la realtà pastorale come una fonte di difficoltà per i giovani sacerdoti. Certamente un’altra difficoltà sentita dai giovani, dai seminaristi, da sacerdoti giovani o anche meno giovani, è la legge del celibato che c’è nella chiesa latina. A partire dalle prospettive appena enucleate, c’è una luce?

Silvano Cola: Una luce a mio avviso c’è. Perché se la Trinità è vita d’amore reciproco vuol dire che la realizzazione anche dell’uomo è nella reciprocità, nel vivere "alla Trinità".

Dio non ci chiede semplicemente la rinuncia a un bene, come è il matrimonio, ma ci propone di vivere, come lui, alla Trinità. Ed ecco la grande intuizione di Chiara quando guarda alla casetta di Nazaret: tre vergini che vivono insieme e sono la riproduzione più bella che ci sia stata sulla terra della Trinità; tre vergini che sono un cuore solo, un’anima sola. è a questo tipo di famiglia che Dio ci chiama, che è più bella dell’altra, quella naturale.

Ma se perdiamo questo concetto, evidentemente di fronte a un innamoramento uno crolla e dice: ho sbagliato strada. E se ne va tranquillamente. L’innamoramento è una possibilità di conoscere fino a che punto tu puoi amare l’altro, anche fino a dare per lui la vita. Ma se noi questa realtà la viviamo senza appoggi umani, come la vive Dio – "amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi" – allora questa è famiglia soprannaturale. Dio non ci chiede di rinunciare alla famiglia, Egli ci chiede di scegliere una famiglia più bella, più grande, per essere poi anche a disposizione di tutti ed essere amore e misericordia per tutti.

Il celibato non si risolve diversamente. Uno può dire: io basto a me stesso. Ma questo è puro egoismo, psicologicamente, ed è infantilismo anche. Tu puoi anche non aver bisogno della donna, del matrimonio, ma hai bisogno di amare, perché il tuo essere è, a somiglianza di Dio, amore. Se non ami sei morto.

Io penso che bisognerebbe sempre ricordare questi punti fondamentali. Se scegliamo la strada del sacerdozio, scegliamo la via di Gesù. Gesù ha radunato attorno a sé alcuni apostoli ed ha vissuto con loro. è quello che noi chiamiamo: vivere con Gesù in mezzo. Essi avevano fisicamente Gesù tra loro; egli ha vissuto con loro e li ha abituati a creare questa famiglia, diversa dalle altre. Tanto che Gesù, quando gli apostoli ad un certo punto gli fanno delle obiezioni, dice loro: Volete andarvene anche voi? E loro rispondono: Ma da chi andremo? Tu solo hai parole di vita!

Questo si verifica quando c’è l’unità, quando, per l’amore reciproco, abbiamo veramente Gesù fra noi. Ti offrissero anche il mondo intero, le stelle, i cieli, tu dirai: no, questa è la vita divina, quindi ho tutto. è qui che dobbiamo arrivare.

Vita in comune

Wilfried Hagemann: Al tempo del Concilio mi colpì molto quanto si afferma nel Decreto Presbyterorum ordinis al n. 8: i sacerdoti dovrebbero vivere insieme o in una stessa casa o ritrovandosi ogni giorno alla mensa comune o incontrandosi almeno regolarmente, se possibile settimanalmente, per avere questo spirito di Gesù tra di loro.

Silvano Cola: è quello che noi chiamiamo: avere Gesù in mezzo, perché ti ritrovi con gli altri non per allegria e tanto meno per risparmiare sul pranzo ma vai lì per vivere ad immagine della Trinità.

Wilfried Hagemann: Quando 30 anni fa, dopo i miei studi, sono ritornato in Germania, ho pensato: voglio vivere così, e ho cercato di trovarmi con altri sacerdoti settimanalmente. Ero padre spirituale e a volte, in seminario, mi dicevano: Dov’è il nostro padre spirituale? È via? Ho risposto: "Devo andare via per essere con voi, perché se non vado via non ho più quest’anima di cui voi avete bisogno".

In quel tempo i miei confratelli mi hanno fatto scoprire che un mio difetto è facilmente l’attivismo. Chi può dire al sacerdote: "Tu fai troppo?". Solo i confratelli.

Ad un certo punto mi sono reso conto che non era sufficiente ritrovarsi una volta la settimana. Sono andato dal vescovo e ho chiesto di poter far vita comune con altri sacerdoti. E lui mi diceva: "Non è possibile, nella nostra diocesi ogni sacerdote deve essere nella sua parrocchia". Ho accettato la decisione e sono ritornato a casa. Un anno dopo sono andato di nuovo dal vescovo a riproporre la mia richiesta. Gli ho detto: "Vedo che la solitudine fa male alla mia anima; io lavoro troppo; non c’è nessuno che mi corregge in questo senso. Lei deve darmi un aiuto". Mi ha detto: "No, nella nostra diocesi non è possibile". Quando sono ritornato dal vescovo la quinta volta mi ha dato un altro sacerdote con cui ho vissuto in comunione. E poi anche il vescovo ha capito: dove questi due vivono insieme posso mandare altri sacerdoti in difficoltà. Così la mia piccola casa è diventata quasi un seminario dove sacerdoti in difficoltà vivevano e ritrovavano la loro vocazione, vivendo insieme, amandoci, pronti a vivere per l’altro e con l’altro e ad accettarlo così come è.

In questo modo più facilmente ci si verifica o ci si purifica l’un l’altro e viene fuori una vita più bella. E se qualcuno ha avuto un bel successo nella pastorale può raccontarlo subito agli altri per poterlo dimenticare, per essere più nell’attimo presente. Inoltre si prega insieme, non si è tentati di lasciare il breviario, perché ci sono gli altri. è una vita più umana, più familiare.

Il nostro vescovo ha capito tanto bene questa cosa che oggi ogni sacerdote in diocesi che vuol vivere insieme con altri ne ha la possibilità. E già sono venti le comunità sacerdotali, non soltanto dei Focolari ma anche di Charles de Foucauld e di altre comunità ecclesiali, che vivono così e sono un fermento nella diocesi. E se tu vedi questi sacerdoti, li trovi felici; sono normali hanno le difficoltà di tutti gli altri, ma sono insieme e si aiutano a vicenda. Ed è bello essere sacerdoti così.

Rivestirsi di vangelo prima di parlarne agli altri

Thomas Norris: Posso sulla stessa linea condividere una piccola esperienza personale, perché ogni mercoledì pomeriggio vado a Dublino – è un po’ distante dalla mia università-collegio – per passare il resto del giorno con un gruppetto di sacerdoti con cui cerchiamo di vivere questa realtà di famiglia di cui qui si parla. Posso dire sinceramente che questa è una sorgente di vita, di ispirazione. Tornando alla mia abitazione, mi sento rinnovato. Ma perché – mi sono domandato tante volte – mi sento puntualmente ricreato, gioioso, lanciato a pieno nella mia vita di sacerdote? Perché essendo per gli altri, vivendo questo rapporto, questo dialogo che è così semplice – parliamo di tutto, facciamo anche un po’ di relax insieme – perché, essendo in compagnia, sono con Gesù, come egli ha promesso: io sono là dove due o tre sono riuniti nel mio nome. E così, dopo essere stato con il Sacerdote in mezzo a noi, torno sempre rinnovato. E noi facciamo di tutto per non mancare a questo stare insieme. E in questa comunione scopriamo anche la via per mantenere la nostra umanità, per non essere persone stressate ma cristiani che cercano di rivestirsi di vangelo prima di predicarlo agli altri.

Quattro anni fa, quando durante la precedente edizione di questo Congresso, siamo andati dal papa, egli ci ha detto che questa spiritualità dell’unità era un’ottima preparazione al sacerdozio. Ed ha spiegato: perché voi scoprite la famiglia; non la famiglia basata sul matrimonio, ma la famiglia più grande basata sull’amore scambievole; e così sarete capaci di costruire la famiglia di Dio.

Scoprire la famiglia dei seminaristi, dei sacerdoti, per essere capaci da uomini, da cristiani, da sacerdoti di costruire la famiglia di Dio: questo mi è rimasto sempre in cuore ed ho potuto verificare molte volte la realtà profonda di questa frase del papa.

Non la frantumazione ma l’unità di vita

Hubertus Blaumeiser: Qui in sala ci sono alcuni seminaristi di rito orientale e ci sono alcuni seminaristi ortodossi. Loro possono sposarsi. Una parola per loro?

Silvano Cola: Basta che vivano il matrimonio come l’ha voluto Dio, a sua immagine, a immagine della Trinità. Non devono vivere per la moglie o per i figli, devono vivere per Dio. Ma per amare Dio devono amare i prossimi.

In fondo l’unica vocazione è Dio. Se ti sposi, ti sposi per Dio; se vivi, vivi per Dio; se muori, muori per Dio – dice san Paolo. L’importante è averlo sempre davanti. La spiritualità dell’unità ci propone di riscegliere Dio. E questo come primo atto della giornata. Riscegliere Dio per rimettersi a fuoco, perché questa è l’unica verità che dobbiamo vivere. Ama e fa quello che vuoi – dice s. Agostino. Basta che ami l’altro e non te stesso; basta non mascherare l’amore a te stesso con l’amore all’altro, perché questo è infantilismo. è l’amore per l’altro che ti fa persona.

Allora tutto quello che fai durante la giornata, lo fai perché è volontà di Dio. Non ci sono più tante cose da fare, ma ce n’è una sola: la volontà di Dio che ti si presenta in ogni momento. E questo dà unità anche a tutta quanta la giornata. Se è volontà di Dio pregare, ti fermi a pregare come faceva Gesù che si ritirava in disparte e si rimetteva in rapporto col Padre. Se c’era da predicare predicava. Se c’era da mangiare mangiava, e andava a mangiare anche dai peccatori per stabilire dei rapporti con loro, per dialogare. Cioè faceva una vita normale. Noi diremmo: secondo i sette aspetti della carità di cui vi ha parlato Chiara.

Avevano una cassa: facevano la comunione dei beni. Gesù ne parla quando chiede: quanto avete in borsa? Tutto in comune avevano. Vivevano tanti aspetti diversi e tanti momenti diversi, ma era l’unica volontà di Dio che facevano.

Quindi voi, quando vi alzate, se fate meditazione fate la volontà di Dio; se dite il breviario fate la volontà di Dio; se andate a dire Messa fate la volontà di Dio; se andate a predicare fate la volontà di Dio; quando fate colazione o il pranzo fate la volontà di Dio. Questo vi fa essere sempre in Dio. Non c’è più la frantumazione dell’essere, ma c’è l’unità. E poiché l’unica volontà di Dio è il "comandamento" dato da Gesù: "amatevi gli uni gli altri", comandamento che lui ha detto suo, la vita deve essere soltanto un amare continuamente ogni persona, ogni avvenimento, ogni dolore.

Viene un dolore: Sei tu, Gesù! Mi accusano falsamente: sei tu, Gesù, che vieni a visitarmi! Hai un fallimento nella pastorale, volevi fare una grande cosa, e fai fiasco: sei Tu, Gesù! Questo è vivere in Dio.

Diventare eucaristia

Hubertus Blaumeiser: Chiediamo a Wilfried Hagemann un’ultima breve risposta. Tu hai parlato tanto della comunione, della vita in comune. Che cosa è per te Gesù abbandonato, nella tua vita di sacerdote?

Wilfried Hagemann: Posso veramente dire: Gesù abbandonato per me è tutto. Perché in lui ho trovato la possibilità di andare verso la luce di Dio. Nella mia vita ho avuto molte giornate oscure che si sono illuminate attraverso di lui. Per questo, quando celebro l’Eucarestia, penso subito: Anch’io do la mia vita, do il mio corpo. Voglio essere perduto in lui per risorgere con lui, per essere anch’io Eucaristia.