Dialogo

"Rimango colpito dalla figura di Gesù crocifisso e abbandonato, così come è presentato spesso nella vostra rivista, e dall’invito di identificarsi con lui nei momenti dolorosi della vita. Mi domando però se, così facendo, non si fugga dalle difficoltà e non si eviti forse di guardare in faccia la realtà anche nei suoi aspetti oggettivamente negativi". (Un seminarista di Augsburg)

Sofferenza
e maturità psicologica

Il lettore fa riferimento ad uno dei cardini della spiritualità dell’unità: il mistero di Gesù abbandonato. Secondo l’intuizione spirituale di Chiara Lubich, proprio nel culmine del dolore di Gesù, cioè nel suo abbandono da parte del Padre, Dio rivela tutto il suo amore. Gesù in questo momento, in cui sente il Padre infinitamente lontano, è la sintesi di tutti i dolori umani. Da allora ogni dolore e difficoltà può acquistare un nuovo significato: diventa un volto di Gesù abbandonato che si è invitati a riconoscere e ad amare1. Quest’atto di identificazione con il Cristo crocifisso e risorto è senza dubbio una delle esperienze spirituali più profonde e significative che si possa fare.

Ma il lettore si pone la domanda se tale identificazione non può essere anche un modo per non guardare in faccia la realtà negativa. A questo punto forse è utile distinguere nell’esperienza spirituale due aspetti, uno più nettamente spirituale e un altro psicologico. Qui vorrei porre l’attenzione soprattutto sul secondo. Ci si può domandare, infatti: un’esperienza spirituale, come quella descritta sopra, può essere – da un punto di vista psicologico – anche una fuga dalle difficoltà? Deve esserlo per forza? Come si può convivere con Gesù abbandonato in modo che ciò comporti anche una crescita umana e psicologica, oltre che spirituale?

La breve ma significativa esperienza riportata nella pagina precedente, e tante altre dello stesso tenore che si potrebbero riferire, lo mostrano chiaramente. Ma qui ci limitiamo – come detto prima – ad offrire qualche elemento in prospettiva psicologica.

Ogni persona – lo voglia o no – deve fare i conti con il negativo che trova nella sua vita: con le tracce dolorose che il proprio passato famigliare o personale hanno lasciato, con i limiti della propria personalità, con la mancanza di comprensione da parte degli altri, con i conflitti e i dolori che incontriamo nella società... Questi momenti d’incontro con il negativo sono di un’importanza cruciale dal punto di vista psicologico. In essi si può costatare se una persona ha potuto sviluppare una struttura psichica capace di affrontare situazioni dolorose in modo costruttivo, e quindi di crescere umanamente attraverso di essi, o se tende piuttosto a bloccarsi, a chiudersi di fronte alle difficoltà. Certe situazioni – come il distacco dalla propria famiglia, la morte di una persona amata, una malattia grave, un fallimento in campo sociale... – possono essere talmente dolorose da indurre in una crisi profonda anche persone psicologicamente mature. Ogni persona sviluppa dei meccanismi per far fronte a tale crisi. Certi meccanismi (come la negazione, la repressione, la proiezione, la scissione ecc.) aiutano la persona a non sentire il dolore in tutta la sua virulenza, ma rischiano in genere di distorcere la realtà e quindi di non affrontarla. Fra questi meccanismi si può elencare anche quella che chiamerei "spiritualizzazione precipitata". Per non confrontarsi con la realtà dolorosa, con i limiti propri o altrui, si tende a spiritualizzarli, dando ad essi un altro nome ("croce", "Gesù abbandonato"). In questo modo, infatti, un principio spirituale può diventare un mezzo per evitare – forse per un’ansia che si teme diventi insopportabile – l’impatto con la realtà.

Vorrei richiamare a questo punto i vari passi che per Chiara Lubich fanno parte della scelta di Gesù abbandonato. Vedo descritta in essi una dinamica che aiuta a passare da una "spiritualizzazione precipitata", e quindi psicologicamente non costruttiva, ad una spiritualizzazione matura. Chiara delinea in genere quattro passi: 1. Dare un nome al dolore. 2. Riconoscere che questo dolore è un volto, un "vestito" di Gesù abbandonato. 3. Scegliere Gesù abbandonato con questo specifico volto. 4. Non fermarsi al dolore, ma chiedersi qual è la volontà di Dio e mettersi ad amare, mettersi all’opera nel momento presente2.

Chiara sottolinea l’importanza di dare un nome al dolore, evitando così di fuggire dalla sua concretezza. Ma poi dà al dolore anche un significato trascendente e profondo: esso diventa occasione per incontrare Gesù Cristo. Chi accompagna persone con quest’esperienza spirituale in un lavoro terapeutico o di crescita psicologica si accorge che hanno un "mezzo" potente per affrontare quei luoghi dolorosi (spesso inconsci perché troppo dolorosi e quindi repressi) della propria storia personale che hanno causato un arresto nella crescita psicologica. Poterli rivisitare con la convinzione di trovare anche in essi un volto di Gesù abbandonato e risorto, porta spesso le persone all’esperienza di una maggiore libertà e capacità di donazione di sé.

Infatti, Chiara vede il dolore come un passaggio. Dopo aver dato un nome al dolore e abbracciato Gesù abbandonato in esso, si tratta di amare nel momento presente. Solo con quest’ultimo passo si supera il dolore e si fa l’esperienza del Risorto. Ciò si può esprimere anche in termini psicologici: chi si ferma nel dolore, nelle ferite della propria storia, rischia di rimanerne schiacciato. Si sente vittima (della propria famiglia, dell’incomprensione degli altri, della situazione sociale) e rischia di chiudersi in un pensiero e in un sentimento autodistruttivo, depressivo o addirittura masochistico. "La via dell’amore, trascendente e incarnato, al di là dello stoicismo o della fuga, resta invece l’unica vera via di accesso trasformante alla dimensione umana, un ingresso che si attua nell’accettazione, nell’assunzione e nell’offerta"3.

Andreas Tapken