Riflessioni su diversi temi d’attualità, basate nell’esperienza

Psicologia, spiritualità e pastorale

Intervista a mons. Giuseppe Petrocchi

Il nostro intervistato, laureato in psicologia all’Università La Sapienza di Roma, dopo lunghi e intensi impegni pastorali e d’insegnamento è stato recentemente nominato vescovo di Latina (presso Roma). Pensiamo che la sua competenza teorica e l’esperienza radicata nella spiritualità dell’unità potranno essere d’interesse e di stimolo ai lettori.

Fede e psicologia

GEN’S: Come vede, detto molto sinteticamente, il rapporto tra vita di fede e psicologia?

Partirei da un presupposto teologico, espresso molto bene dal Concilio Vaticano II nella sua nota affermazione: "Cristo… rivelando il mistero del Padre e del suo Amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione" (GS, 22). Quindi l’esperienza di fede – sia come visione del mondo sia come vissuto – opera sempre come fattore di cambiamento e di crescita, e non soltanto sul versante spirituale ma anche su quello psicologico.

In tal senso direi che ogni esperienza autentica di spiritualità ha sempre una valenza terapeutica. Riveste un significato primario il fatto che quando Gesù invia gli apostoli ad annunziare il Vangelo, li manda anche a guarire: l’"evento" del risanamento da una malattia e della restituzione della persona ad una pienezza integrale rappresenta un segno distintivo dell’avvento del Regno di Dio. Per questo quando nella vita ecclesiale vediamo le persone fiorire o rifiorire anche umanamente, crescere in maturità, in capacità di relazionarsi in modo costruttivo, abbiamo un attestato probante che stiamo camminando nella direzione giusta e che il Vangelo è effettivamente messo in atto.

Psicologia e pastorale

GEN’S: In che senso e in che misura la psicologia l’ha aiutata nella pastorale?

Le conoscenze di tipo psicologico mi sono servite non solo come strumento per sostenere e accompagnare il cammino di fede, ma anche in quell’altro aspetto, direi prevalente e più efficace, di aiuto importante per cogliere, con una consapevolezza più vigile e più critica, gli effetti piscologici che derivano da una fede vissuta. Il fatto di possedere alcune categorie interpretative e metodiche psico-terapiche mi ha dato la possibilità di entrare meglio nelle dinamiche di carattere psicologico connesse alla esperienza di fede e poterle valorizzare ed orientare con maggiore incisività come forza di crescita della persona. Si è trattato – torno a ripeterlo – di canalizzare con strumenti psicologici un flusso di novità (cognitive, emotive, comportamentali), che discendeva dal vissuto spirituale.

I cambiamenti prodotti nella personalità dall’esperienza di fede ho potuto constatarli con particolare evidenza in giovani che presentavano problemi di tipo psicologico, come tratti nevrotici e difficoltà nel rapporto con gli altri, ed anche in persone che avevano tentato approcci solamente psicoterapici con risultati precari, qualche volta nulli e in alcuni casi anche con esiti peggiorativi. Ebbene laddove si verificava un sano coinvolgimento in un cammino comunitario centrato sui valori della fede, questo aveva anche sul piano psicologico riflessi che aiutavano a modificare assetti inadeguati della personalità e a promuovere l’acquisizione di atteggiamenti più centrati e produttivi. Si trattava di impegnare, sui punti in cui il disagio si manifestava con particolare rilevanza, una energia che aveva la sua origine non nel piano psicologico ma da quello spirituale.

Il percorso spirituale e quello psicologico, dunque, non mi sono apparse due vie parallele ma un cammino (fatto di diverse corsie: le necessarie distinzioni!), che attraversa l’intera personalità e si sviluppa a raggiera a partire da un centro. Certamente il fatto di sapere che avevo competenze psicologiche ha portato alcune persone ad aprirsi con maggiore profondità, a dare maggior credito alle cose che venivano dette e a fidarsi quando si scopriva che nel vissuto comunitario di fede il soggetto era sollecitato e aiutato ad affrontare, rivedere e modificare certi assetti della personalità che denunciavano scompensi. Tuttavia non ho mai fatto interventi di tipo puramente psicologico.

Sono convinto che la guarigione non possa essere autentica se non investe la personalità nel suo insieme. Credo che uno dei problemi di certe correnti psicologiche sia quello di aver pensato di produrre un cambiamento stabile e globale del soggetto operando solo a livello psicologico e disconoscendo la dimensione spirituale, che è costituiva della persona umana. Quando l’approccio non punta all’essere umano integrale, comprese le relazioni interpersonali, si finisce per "sezionare" una parte della persona: l’intervento solo su quel "ritaglio" è destinato ad essere provvisorio o addirittura negativo.

Ho visto, inoltre, che il processo maturativo integrale porta con sé un altro effetto importante. La persona che, in un cammino spirituale comunitario, viene aiutata ad affrontare in modo nuovo i problemi che porta in sé – se necessario, anche con aiuti tipicamente terapeutici, che però accompagnano questo itinerario, non lo sostituiscono – nella misura in cui migliora diventa essa stessa gradualmente capace di individuare ed interpretare problemi simili che scopre in altre persone, e quindi di sostenerle ed aiutarle. C’è una sorta di effetto a catena sia nel bene che nel male. Come certi disagi si diffondono e si trasmettono, così certe scoperte, se diventano realmente produttive nelle persone, danno a queste, mano a mano, la capacità non solo di cambiarsi ma anche di cambiare gli altri e gli ambienti dove operano. La dimensione della globalità, un approccio che punti all’unità non solo "dentro" la persona (armonizzandone le molteplici componenti), ma anche "tra" le persone, rappresenta un presupposto indispensabile se si vuole aiutare qualcuno a risolvere anche i suoi problemi psicologici.

L’"alleato" che è in noi

GEN’S: Una volta l’abbiamo sentita dire a dei giovani cristiani, più o meno queste parole: "Quando qualcuno vi fa delle proposte disoneste, voi rispondete rivolgendovi a "Gesù in lui". Vedrete che se il vostro parlare è condito dalla sapienza che viene dal Vangelo vissuto, facilmente l’altro condividerà o almeno rispetterà i valori che proponete, perché toccherete certe corde che sono presenti nell’intimo del suo essere...". Come si potrebbe tradurre ciò in linguaggio psicologico?

Nel profondo di noi stessi e degli altri c’è sempre una sorta di "alleato" che interviene quando si prospetta un’esperienza orientata al bene. Questo assunto di ordine psicologico è fondato sulla visione dell’essere umano creato da Dio e fatto per Dio, quindi segnato in modo indelebile, nel profondo del suo essere, da una tensione alla verità e all’amore. Nella struttura ontologica di ogni uomo – lo si ammetta o no – c’è una nostalgia di Assoluto. Anche se nella personalità si sono sviluppati successivamente strati negativi ed ostili ad un discorso puntato all’amore, il nucleo profondo di ogni persona – che non può essere modificato neppure dalla persona stessa – porta in sé un’esigenza di verità e di bene. Per cui quando si opera per raggiungere questo nucleo profondo, si deve sempre presupporre che all’azione proveniente dall’esterno ne corrisponda un’altra che si muove dal di dentro. L’"alleato" interno è fondamentale.

Ci sono dei giovani con i quali l’approccio è più facile, è più transitabile; altri invece sembrano quasi impermeabili. Però, se si riesce a oltrepassare queste barriere esterne, si attiva dentro l’azione dell’"alleato". Anche nelle personalità più difficili c’è sempre un punto dove questo involucro esterno è più fragile, più penetrabile. Bisogna allora avere la pazienza di girare attorno alle mura per capire dove esse possono essere scalate più facilmente, sapendo che non si tratta di un’azione mirata ad intromettersi con prepotenza nella personalità altrui ma di un aiuto offerto al "prossimo" per consentirgli di far emergere le sue potenzialità positive, nascoste nel suo essere più intimo. È una scommessa sull’altro, sulla sua realtà più originaria e più vera. Non rappresenta, dunque, una intrusione nella sua interiorità, ma un atto di solidarietà che richiede e potenzia la sua libertà.

Se possono capitare dei casi in cui sembra che l’"alleato" interno resta come imprigionato in schemi di pensiero e di comportamento inadeguati e al tempo stesso immodificabili (e quindi psicologicamente carenti) bisogna avere quella carità che sa aspettare. La perseveranza può anche portare a scoprire – ne ho fatto spesso esperienza – che con il passare del tempo e in circostanze diverse, si ottengono, imprevisti e inaspettati, non solo i risultati sperati, ma acquisizioni ancora più grandi. Nel corso della vita umana bisogna mettere in conto anche l’azione abrasiva degli eventi, l’effetto corrosivo delle difficoltà e della sofferenza: spesso il dolore può spaccare l’involucro e consentire di liberare l’"alleato" che vi era come incapsulato. La capacità di attendere, di rimanere fedeli all’altro, di non scoraggiarsi per il fallimento temporaneo, può davvero consentire di cogliere la novità anche a distanza di anni. Dei ragazzi mi hanno detto che certe parole, ascoltate apparentemente senza alcun effetto, si erano depositate nel loro cuore ed erano state decisive per risolvere problemi incontrati dopo 15-20 anni. In questo senso, il seme deposto dalla carità può avere un’incubazione anche di decenni. Partire dal presupposto che nel profondo dell’altro c’è una realtà dinamica che tende al bene, che simpatizza per ciò che è vero e bello, significa tener presente che le forme di attivazione del cambiamento debbono trovarsi nel suo cuore. Il cambiamento non viene mai da un’azione esterna se questa, anche per una grazia speciale di Dio, non mette in moto l’azione interiore. Saperlo è molto importante, perché nessuna tecnica psicologica può produrre un miglioramento se questo non parte da dentro.

D’altra parte, ogni impegno per aiutare l’altro a migliorare sarebbe inutile, se non ci fosse questa fiducia profonda che in ogni persona c’è la capacità e la forza di cambiare. Lo scoraggiamento viene quando ci si limita agli effetti registrabili nello strato esterno e non ci si rende conto che esiste uno strato più profondo in cui si possono produrre modifiche non viste da "fuori" (e spesso ignorate anche da chi si guarda "da dentro") e non constatabili a breve scadenza. Questa convinzione è importante per ogni educatore e per chiunque voglia aiutare un altro a correggersi e a progredire.

Fragilità dei giovani?

GEN’S: Una delle carenze a cui è esposta la gioventù, accentuata, sembra, nelle attuali generazioni, è la mancanza di perseveranza nelle responsabilità, nei propri ideali, negli impegni presi. Nella sua esperienza, a cosa attribuisce questa fragilità dei giovani d’oggi?

Io ritengo che siano in circolazione alcuni assiomi culturali sbagliati che, essendo diventati con il tempo mentalità comune, conducono ad applicazioni educative dannose. Questi assiomi andrebbero adeguatamente discussi e sottoposti ad una sana revisione critica.

A mio avviso, uno dei motivi della fragilità dei giovani è da individuare nel fatto che spesso non sono aiutati a vivere con impegno l’esistenza, affrontando le esigenze forti che ogni progresso umano comporta. I grandi pensatori della Grecia antica, che avevano ben sviluppato il senso della saggezza, dicevano che ciò che è bello è anche difficile. L’applicazione diffuso dell’assioma (mai tematizzato) che andare incontro ai giovani significhi semplificare, rimuovere gli ostacoli dalla loro strada, aderire a tutte le richieste senza aiutarli ad affrontare i problemi, produce delle personalità deboli, specialmente in un ambiente povero di valori come quello odierno. Questa strategia educativa, permissiva e consumista, non li equipaggia a vivere l’impatto inevitabile con le contrarietà: perciò capita che quando si imbattono nel dolore, l’effetto è devastante perché non hanno sviluppato capacità di pazienza, di lotta, di speranza e sono facilmente portati ad abbandonarsi ad atteggiamenti rinunciatari e di accusa, a cercare compensazioni e risarcimenti in esperienze trasgressive e non di rado molto negative.

Quando invece i giovani colgono il significato della propria esistenza alla luce di valori forti e sono allenati ad affrontare la fatica di crescere e maturare, allora esprimono una straordinaria creatività e – come frutto di questa buona semina spirituale, psicologica, sociale – raccolgono la gioia. Questa è simile alla luce della lampadina di una bicicletta. La luce c’è se gira la dinamo. Ma la dinamo gira se uno pedala, vale a dire – fuor di metafora – se s’impegna ad amare nella verità. Se uno non ama, il rapporto di comunione "non gira", e la luce della gioia non si accende. Si cammina al buio e con la scontentezza nell’anima. Ampi settori della società odierna hanno pensato di far accendere la luce della gioia senza proporre la faticosa ma splendida impresa di vivere il superamento di sé, in un’esperienza d’amore e di comunione che comporta anche spirito di sacrificio, perseveranza, apertura a Dio.

Impegno spirituale, disponibilità alla comunione, maturazione psicologica, costruttività sociale sono vasi comunicanti: non può elevarsi o diminuire il livello in uno di questi "contenitori" senza che aumenti e si abbassi il livello negli altri.

Difficoltà nei sacerdoti

GEN’S: Sovente i mezzi di comunicazione fanno arrivare al grande pubblico delle difficoltà morali dei sacerdoti. Non possiamo chiederle una diagnosi approfondita in poche battute; cosa, tuttavia, si sentirebbe di dire, in base alle sue conoscenze psicologiche e alla sua notevole esperienza di comunione con tanti sacerdoti?

Quando in una persona si determina uno scarto tra l’ampiezza di una difficoltà e la sua capacità di vivere nella verità e nel bene quel problema, su questo scarto compaiono prima o poi sintomi (spirituali e psicologici) negativi, accompagnati da comportamenti che facilmente diventano distruttivi per la persona e per l’ambiente sociale. L’esposizione continua ad una società complessa, attraversata da non poche tensioni patogene, deve essere accompagnata da una adeguata crescita spirituale e psicologica, che consenta al soggetto non solo di neutralizzare le "tossine" culturali con cui viene a contatto, ma di proporsi come protagonista nella edificazione della civiltà dell’amore.

Il sacerdote oggi è sottoposto a una continua aggressione da parte di un mondo che sotto molti versanti si è paganizzato e propone stili di vita che non sono conformi alla scelta evangelica tipica del cristiano.

Non si tratta tanto di studiare le casistiche devianti, quanto di chiedersi quali sono le risorse positive che possono mettere i sacerdoti in condizioni di "rendere inoffensive" le continue spinte negative che ricevono dall’ambiente in cui vivono e di spendersi per la edificazione di una comunità ecclesiale e civile secondo Dio, e quindi davvero a misura d’uomo. Penso, per esempio, alle conseguenze distorsive che può avere nell’affettività di un consacrato il martellante messaggio erotizzato che ci viene dai mezzi di comunicazione sociale o dall’impatto con certi stili di vita. È impossibile che una persona non ne risenta. Allora bisogna vedere quali sono le forze e le strategie che la persona possiede per affrontare queste difficoltà e per superarle. Anche sul piano biologico l’organismo normale non è quello che non viene aggredito dai batteri, ma quello che ha in sé anticorpi in grado di affrontarli e vincerli. Credo che il problema più grave al quale un presbitero oggi possa andare incontro è lo scarto che può verificarsi tra il suo livello di spiritualità e l’esposizione ai problemi che vive giorno per giorno.

In un mondo come il nostro abbiamo una moltiplicata urgenza di attingere a forme di spiritualità che consentano non solo di affrontare i mali dell’ambiente senza "ammalarsi", ma di avere la capacità di potenziare il positivo e di trasformare il negativo in positivo. Per far questo occorre una spiritualità evangelica forte.

Perciò, credo che certe dinamiche psicologiche che nel presbitero possono rivelarsi scompensate abbiano, in ultima analisi, origine da un’insufficienza spirituale. Infatti, se certi problemi psicologici fossero stati inclusi dentro una spiritualità robusta e autenticamente comunionale, essi, pur rimanendo e causando sofferenza, sarebbero stati vissuti con serenità e senza guasti comportamentali: anzi – come insegna la storia del cristianesimo – quelle difficoltà sarebbero diventate una misteriosa sorgente di crescita personale e collettiva. Ciò non esime, ovviamente, dal ricorrere – se opportuno – ad idonee terapie psicologiche, ma queste vanno "inscritte" in un quadro comunionale sicuro e vitale.

Temo che talvolta si insista troppo su metodologie pastorali, itinerari operativi, approfondimenti dottrinali (non di rado privi di quadri unitari di riferimento, e quindi frammentati) senza che venga sottolineata la fondamentale e imprenscindibile importanza di una spiritualità intensa (con tutta la ricchezza della vita ascetica e mistica), che abbia un’anima-Chiesa e una apertura al mondo provvista di sapiente capacità di discernimento.

Un altro aspetto fondamentale è la dimensione comunitaria della vita personale e pastorale, perché se si affronta una realtà complessa ed insidiosa come quella odierna con atteggiamento individualistico, per molti la sfida sarà perduta in partenza. È necessario vivere nel segno del "noi" – cioè di una comunionalità vera e radicata nel Vangelo – il confronto con i problemi del mondo d’oggi. Se non riscopriamo il primato della spiritualità anche a livello psicologico, l’attenzione (certamente dovuta) alla psicologia ci spingerà a cadere facilmente nei lacci dello psicologismo: poiché saremo portati ad affrontare con la psicologia problemi che questa scienza può aiutare a risolvere, ma che mai può superare da sola.

Crisi della confessione

GEN’S: La prassi tradizionale della Chiesa cattolica riguardo al sacramento della confessione o riconciliazione è in crisi. Diminuisce di fatto la sua pratica e allo stesso tempo cresce nelle persone la necessità di confidarsi, di confrontarsi per capire meglio i problemi, di essere aiutate, per cui si rivolgono sempre di più a psicologi e psichiatri...

Non entro nel merito di un tema molto ampio come quello della confessione, ma lo tocco solo nella prospettiva psicologica. Spesso, dietro una certa trascuratezza che può registrarsi negli stessi ministri riguardo al servizio della confessione c’è la difficoltà di incontrare l’altro in un rapporto autentico, profondo, impegnativo. Ciò vuol dire, in molto casi, che l’"io" è poco abituato al dialogo con sé, perché noi diventiamo capaci di avviare il colloquio con l’altro nella misura in cui abbiamo aperto un colloquio con noi stessi e viceversa. Il dialogo intra-personale e quello inter-personale sono facce di una stessa medaglia.

Dietro la crisi della confessione c’è, frequentemente, la crisi della capacità di dialogo e di incontro con l’altro in profondità, al di fuori degli schemi comuni e delle formalità rassicuranti. Infatti, dove si raggiunge un rapporto vero di amore – un confronto personale nella dedizione e nella accoglienza – lì fiorisce nel, ministero sacerdotale, l’esigenza della confessione-sacramento. Se la confessione si è impoverita e viene sostituita da pratiche psicologiche, è anche perché essa ha smarrito in molti l’anima, che è la spiritualità, e quindi perde significato.

Non si tratta di mettere in competizione confessione-sacramento e approccio di tipo psicologico: queste forme hanno natura e funzioni diverse: possono aiutarsi senza escludersi né confondersi. Se in numerose chiese la pratica della confessione è in disuso, è perché il sacerdote investe poco tempo in questo ministero e forse anche perché la gente non avverte in chi vive questo servizio una spiritualità adeguata a questo tipo di incontro sacramentale.

Secolarizzazione e nuova religiosità

GEN’S: Sembra darsi un doppio fenomeno, apparentemente contraddittorio, nella società occidentale: accanto alla secolarizzazione sempre più estesa, una domanda crescente di religiosità, spesso ambigua…

Il fatto che l’esigenza di spiritualità sia più profonda e più forte del semplice approccio psicologico è dimostrato dal fatto che nonostante la maggior offerta di servizi di questo genere, nonostante il progredire di una razionalità di tipo tecnologico, cresce la domanda di spiritualità. Capita, purtroppo sempre più frequentemente, che persone non impegnate a vivere una spiritualità in forme mature canalizzino il loro interesse verso forme regredite. Ecco il perché del moltiplicarsi delle pratiche esoteriche, magiche, il ricorso all’occulto, ecc. Tali fenomeni degenerativi esprimono bisogni spirituali non adeguatamente intercettati e orientati in forme spirituali autentiche, adulte e davvero capaci di far crescere la persona nella sua totalità.

La comunità ecclesiale è chiamata ad affrontare questa sfida e a proporsi come luogo fraterno, gioioso e maturante di incontro con Dio e con gli altri. Il problema di fondo in molte comunità ecclesiali è dato proprio da una vistosa insufficienza dell’anima evangelica e rispetto alle proporzioni del "corpo" pastorale. Si moltiplicano strutture e iniziative in una sostanziale povertà spirituale, non adeguata alla molteplicità dei problemi entro cui la comunità si muove. I "sintomi" personali e sociali di questa religiosità regredita tendono a scomparire dove diventa gradualmente operante il primato di una spiritualità forte.

Ho potuto notare che nelle comunità in cui sono presenti sacerdoti – se si vuole poco attrezzati dal punto di vista psicologico o delle metodiche pastorali – che irradiano spiritualità forte, lì la ricerca e la intensità dell’incontro personale sono straordinariamente più ampie di quelle che noi potremmo aspettarci. E avviene anche il contrario: sacerdoti dotati di buone conoscenze psicologiche e pastorali si rivelano poco abili nell’avvicinare e "captare" le esigenze profonde dell’altro. Insomma, la possibilità di ricevere e comunicare sulle "frequenze" spirituali – e quindi anche psicologiche – dell’altro risulta proporzionale alla capacità di amare nella verità: questa capacità è certamente ampliata da competenze psicologiche e da tutte gli altri supporti che le scienze umane offrono, ma non può essere da loro surrogata.

Nella situazione attuale emerge, in particolare nel mondo dei giovani, un bisogno di spiritualità, molte volte non espresso e non compreso dagli stessi soggetti che ne sono portatori. E una Chiesa che voglia evangelizzare il mondo d’oggi deve testimoniare innanzitutto una spiritualità autenticamente evangelica, accompagnandola poi con tutto quel tipo di competenze umane – anche psicologiche – che sono certamente utili per favorire la crescita personale e comunitaria. Si tratta, tuttavia, di competenze che devono avere un’anima: senza di essa si rivelano, in verità, poco feconde.

a cura della redazione