Flash di vita

Conferenze episcopali luogo di comunione

Il cardinale Miloslav Vlk, arcivescovo di Praga e presidente del CCEE (Consiglio delle conferenze episcopali europee), dopo la pubblicazione del documento pontificio "Apostolos suos" (23/7/98), ha rilasciato questo commento.

Noi vescovi dell’Europa centro-orientale alle volte sentiamo più fortemente la grazia della comunione tra i pastori che si realizza in una Conferenza episcopale, perché nel tempo del comunismo nei nostri Paesi non esistevano questi organismi, nel senso voluto dal Vaticano II.

In realtà i vescovi stessi mancavano od erano pochissimi. Si realizzavano piuttosto incontri dei vicari capitolari che spesso assumevano i compiti dei vescovi. I vicari capitolari, però, erano sacerdoti – a volte compromessi col regime – che per "benigna concessione" dei comunisti amministravano le diocesi. Essi non erano approvati dalla Santa Sede ed i loro incontri erano sempre sorvegliati dai comunisti.

La tattica astuta del regime era quella di distruggere la comunione e l’unità della Chiesa, "privandola della sua testa", impedendo in ogni modo l’esercizio del ministero episcopale.

La mia diocesi natale è stata senza vescovo per 36 anni. Per lungo tempo il contatto diretto con la Santa Sede non esisteva. Anche con il Santo Padre i contatti erano vietati, ma noi ascoltavamo via radio la sua parola e questo ha fatto crescere un rapporto ed un amore molto profondo verso di lui. Egli era per noi "il vescovo" per eccellenza.

La mancanza di contatto con la Santa Sede – alle volte non cercato – ha portato al sorgere della cosiddetta "chiesa clandestina" che ha sviluppato le sue strutture per conto proprio. Essa, per esempio, ha provveduto alla consacrazione di vescovi (anche sposati) senza la nomina e l’approvazione del Papa.

Ora dobbiamo guarire le conseguenze di questa mancanza di comunione con il Santo Padre e con la Chiesa universale. L’oblio della comunione ha creato gravi danni e si è diffusa ad ogni livello, isolandoci anche dalle Chiese degli altri paesi e frenando i contatti tra le diocesi.

Particolarmente preziosi e significativi sono stati i contatti e le visite, semiclandestine, non ufficiali, da parte di diversi cardinali e vescovi, venuti dal di fuori, all’unico vescovo rimasto fedele al Santo Padre, il cardinale Tomásek. Essi sono stati un segno di collegialità molto importante ed anche un grande aiuto per sopravvivere.

In questo modo anche i comunisti hanno visto che la collegialità e la comunione esistevano, nonostante i loro sforzi per distruggerla. Queste esperienze dolorose e negative, per me, alle volte, sono più significative che quelle positive.

Dopo la caduta del comunismo sono stati nominati come vescovi, in gran maggioranza, sacerdoti che erano stati perseguitati in precedenza dal regime. Tutti avevamo vissuto il dolore della "non-unità", della "non-comunione", ma insieme avevamo anche sperimentato che tutto può essere vietato o proibito, ma non la possibilità di vivere il vangelo insieme, la carità reciproca, soprattutto in piccole comunità, dove si poteva sperimentare la presenza del Risorto, del suo Spirito fra noi.

Avevamo vissuto la profonda esperienza di un Dio vicino. Tutto mancava, ma non Dio! Diversi di noi si erano resi conto del fatto che la comunione reciproca meritava la presenza di Gesù fra noi e quindi diveniva il luogo della nuova evangelizzazione.

Per questo siamo usciti dall’esperienza del comunismo con il grande desiderio di creare in ogni luogo la comunione. Come vescovi sentiamo la priorità di portare questa esperienza nella Conferenza episcopale per poter realizzare degnamente il compito, affidatoci dal Signore, dell’annuncio del vangelo a tutto il mondo. Il servizio al vangelo, infatti, è il senso della Chiesa stessa e quindi di ogni sua struttura.

Anche alla luce di questa esperienza mi sembra di poter affermare che le Conferenze episcopali servono l’evangelizzazione innanzitutto perché sono un organismo di collegialità episcopale, cioè un luogo di carità che concretizza l’ecclesiologia di comunione delineata nel concilio Vaticano II.

L’amore vissuto reciprocamente e la collaborazione sono la prima testimonianza che noi vescovi, come successori degli apostoli, siamo chiamati a dare. La comunione tra noi rende credibile e visibile il vangelo, come Gesù stesso ha chiaramente affermato: "Siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato" (Gv l7, 21).

Ma, come ho già accennato, direi che il rapporto tra collegialità ed evangelizzazione è ancora più radicale. La comunione reciproca tra gli "apostoli" non rende solo credibile l’annuncio del vangelo, ma è il luogo normale dove l’unico evangelizzatore, l’unico Maestro, si rende presente e può parlare. Nel vangelo di Matteo leggiamo: "Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18, 20).

Questa è stata l’esperienza che ho vissuto durante il comunismo e che in seguito ho sperimentato tante volte come vescovo. Quando ci "riuniamo nel suo nome" il Risorto si rende realmente presente fra noi. Ed il nostro mondo attende di sentire la voce dell’unico Maestro, più che le nostre parole o le nostre strutture organizzative.

Anche il Codice di diritto canonico non ha definito le Conferenze episcopali una super-curia, ma "un’assemblea di vescovi" (can 447). Vivere la collegialità tra i vescovi é lo scopo primo delle Conferenze episcopali e per questo occorre andare agli incontri con questa prontezza di amarci a vicenda.

Sarebbe troppo poco pensare alle Conferenze episcopali come a luoghi di scambio di vedute, di consultazione reciproca, come gruppi di lavoro. Esse sono innanzitutto realtà di collegialità nel senso forte, cioè un luogo dove si fa una vera esperienza della presenza del Risorto, dove si sperimenta e si rende visibile l’"atmosfera" della presenza dello Spirito Santo. Questo è il primo contributo efficace delle Conferenze episcopali per l’unità della Chiesa universale.

Ho l’impressione che questa dimensione sia ancora molto da scoprire e che le nostre Conferenze debbano ancora fare dei passi per divenire un luogo di vita, di atti, di gesti, piuttosto che di carte, di burocrazia e di iniziative.

Le Conferenze episcopali realizzano la comunione universale a livello locale, a servizio di una Chiesa concreta in un determinato territorio ed in un determinato tempo. Siamo sempre dentro a questo "gioco" dinamico e complesso di una comunione che é insieme unità e pluralità. Nessuno di noi è un "imprenditore privato" nella vigna del Signore! I vescovi hanno il grave ministero dell’unità della Chiesa e per questo cercano le forme concrete di collegialità fra loro e con il successore di Pietro.

Questa comunione ha conseguenze concrete importanti. Essa permette di affrontare insieme le sfide presentate alle Chiese dai veloci ritmi della storia, della tecnica e della cultura. Come esemplificazione possiamo pensare a tutte le questioni implicate nel rapporto Chiesa-stato, ai dibattiti etici circa la vita, alla trasformazione del volto dei nostri Paesi per i flussi migratori oppure alle questioni che interpellano direttamente l’evangelizzazione: l’indifferenza pratica davanti alla fede, la presenza ed il diffondersi delle sette o nuovi movimenti religiosi, il cammino ecumenico, il dialogo con altre religioni e culture.

Una Conferenza episcopale conosce i problemi e le domande concrete del Paese e non lascia ogni singolo vescovo diocesano nel compito proibitivo ed inefficace di affrontare da solo queste immani questioni.

L’esigenza di una comunione sempre più ampia e di una collaborazione più stretta davanti alle problematiche della nostra storia ha fatto nascere degli organismi continentali di coordinamento tra le Conferenze episcopali.

È stata soprattutto l’esperienza di collegialità sperimentata dai vescovi durante il Concilio Vaticano II che ha suscitato l’esigenza di continuare questa "vita" di comunione sostenuta da strutture come i Sinodi o gli organismi continentali. Essi sono a servizio di questo segreto della vita dalla Chiesa.

Mi riferisco ancora all’Europa. Soprattutto per noi vescovi dell’Est, che in precedenza non potevamo partecipare, è stata un’esperienza molto profonda il poterci incontrare con i vescovi degli altri Paesi per uno scambio di doni, di problematiche, di idee. Penso a diverse assemblee plenarie del CCEE, ad un incontro realizzato a Varsavia per i vescovi dei Paesi ex-comunisti, al simposio di Roma del 1996.

Proprio in questo simposio ci siamo fermati a riflettere sul ruolo della Chiesa in una società segnata dalla democrazia e dal pluralismo. Siamo coscienti che lo sviluppo di una cultura pluralista che esalta la libertà, l’individuo, la democrazia, le differenze, influisce inevitabilmente sulle Chiese e sui vescovi e senza le opportune mediazioni può far sorgere una ricerca di maggior indipendenza, di decentralizzazione, di autonomia da parte delle Chiese locali, non sempre illuminata.

Questa esigenza di dare importanza all’aspetto locale, alle volte, può prendere una direzione sbagliata che fa perdere la dimensione di Chiesa cattolica, universale, e questo è pericoloso perché la Chiesa locale deve conservare sempre la sua caratteristica cattolica, espressa attraverso la comunione. Uno sviluppo per conto proprio, senza questo legame con la Chiesa universale, è autodistruttivo.

A conclusione di un recente incontro dei vescovi europei nominati negli ultimi cinque anni, organizzato dal CCEE insieme alla Congregazione per i vescovi, diversi partecipanti ci hanno detto: "Dopo questi giorni di collegialità "effettiva ed affettiva" torniamo in diocesi con una luce nuova sui problemi delle nostre diocesi e del nostro Paese, ma anche più coscienti che i nostri problemi locali non sono gli unici e che noi siamo vescovi della Chiesa universale".

Per vivere questa comunione dobbiamo sfruttare tutti i mezzi a disposizione ed anche inventarne sempre di nuovi. Nel CCEE, per esempio, è diventato abituale usare lo strumento delle conferenze telefoniche. Esse ci permettono di confrontarci con regolarità sulle decisioni da prendere, ma soprattutto di avere un rapporto fra noi sempre più vivo.

Particolarmente importante per me è anche l’esperienza che condivido con numerosi vescovi di ogni continente alla luce della spiritualità dell’Opera di Maria. Ci incontriamo ogni anno a Castelgandolfo per approfondire l’unità fra noi in stretto collegamento con il Papa che ci riceve in udienza e ci dice una parola.

Anche questi incontri testimoniano come i vescovi hanno il desiderio di sperimentare, vivere ed approfondire la collegialità e che essa è un segno dei tempi, dell’azione dello Spirito nella nostra storia.

Le Conferenze episcopali sono chiamate ad essere sempre più luoghi primari di comunione ecclesiale tra i pastori.

 

Card. Miloslav Vlk