Lo Spirito Santo non ci spinge fuori della storia, ma c’invita a calarci dentro di essa: dentro il cuore della storia e dell’umanità di oggi

Capire ciò che lo Spirito
dice alle chiese


Lo scopo essenziale del giubileo del duemila è quello di "suscitare una particolare sensibilità per tutto ciò che lo Spirito dice alla chiesa e alle chiese, come pure alle singole persone attraverso i carismi al servizio dell’intera comunità". L’autore, ispirandosi a questo testo della Tertio millennio adveniente (n. 23), offre innanzitutto ai sacerdoti – ma vale per tutti – una meditazione sulla presenza e l’azione dello Spirito nel nostro tempo, un tema particolarmente attuale in questo anno dedicato appunto allo Spirito Santo.


1. Lo Spirito Santo e la nostra sequela di Gesù"

"Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!" (Gal 4, 4-6).

Dimentichiamo un attimo di essere preti: ne parleremo nel secondo punto. Certo, la nostra identità personale non è più disgiungibile da quella vocazione e da quella grazia che ci è stata gratuitamente conferita con l’ordinazione presbiterale. Ma è assolutamente salutare ricordarci sempre quella che è la vocazione e la grazia radicale che Cristo ci ha donato con la fede e il battesimo. Perché, talvolta, il confrontarsi solo con ciò che concerne il nostro ministero può addirittura rappresentare un sottile alibi, più o meno inconscio, per non offrirci nella nostra nudità regale di figli a Dio Padre e, coram Deo, ai fratelli.

Figli nel Figlio

Sì: il dono di Dio in Gesù per noi è, in radice e come frutto definitivo e unico, l’esser figli. Anzi, con Cristo in Cristo per Cristo, esser fatti figli nel Figlio.

E ciò è azione dello Spirito Santo, che crea in noi la figliolanza, che l’attesta, la nutre e la fa crescere, giorno dopo giorno, nelle gioie e nelle prove. Di quello Spirito che – come scrive Paolo – grida in noi la gratitudine, la festa, il travaglio della figliolanza.

Paolo ne ha esperienza. È vero che è "ispirato", ma quando dice la parola: "Abbà, Padre", la stessa che Gesù usava e pregava nel suo rapporto con Dio, la può dire perché è talmente identificato con Cristo che non può non attestare: "non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me" (Gal 2,20).

Il sacramento dell’ordine ci configura a Cristo nell’esercizio del nostro ministero della Parola, dei Sacramenti, della diaconia della comunità in comunione col vescovo. Ma che varrebbe tutto ciò per noi e, diciamolo pure, anche per quel "di più" dell’efficacia della grazia che non è legato all’oggettività del dono che è trasmesso ma alla libera soggettività di chi ne è ministro, se noi anche esistenzialmente, oltre che sacramentalmente, non possiamo dire, con desiderio, con passione, con dolore del nostro peccato: "mihi vivere Christus est"?

Lo Spirito Santo c’introduce nello spazio di vita tra il Figlio e il Padre. Questo spazio è la nostra dimora, così come di ogni cristiano e, in definitiva, di ogni uomo.

Ascoltare la Sua voce

Non più schiavi della legge, ma figli, liberi, amici. Lo Spirito Santo, la sua divina persona e la sua azione in noi, è difficilmente oggettivabile: anzi, per definizione, è impossibile da oggettivarsi, da catturare, da misurare e raggiungere una volta per tutte.

Eppure, ne possiamo avere esperienza: perché – come afferma Paolo – lo Spirito grida in noi. Ascoltarne la voce non è cedere al facile entusiasmo o all’insipido sentimentalismo: è misurare – nella crudezza della nostra miseria e nello splendore della misericordia del Padre – la nostra conformità a Cristo, la nostra libertà, la nostra capacità di amare, di perdonare, di ricominciare, di servire, di sperare...

Oggi, si ha sete di testimoni e di maestri dello Spirito; non di burocrati del sacro, di manager dell’organizzazione ecclesiastica o di registi impeccabili della liturgia. Ma di persone che, consapevoli dell’abisso della loro povertà da cui sempre di nuovo l’amore del Padre li salva rivestendoli delle vesti nuziali del Figlio, hanno il coraggio di varcare le soglie del mistero, di lasciarsi guidare, anzi dominare dagli impulsi dello Spirito. E di aiutare gli altri a fare lo stesso.

E per questo occorrono la pazienza e la sapienza del silenzio, dell’ascolto, della preghiera; del discernimento della volontà di Dio. La pazienza e la sapienza nell’ascolto e nella comprensione di ognuno che bussa alla porta: "chi ha sete venga a me e beva, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal mio (e dal suo) seno" (cf Gv 7, 37-38).

Quel primato della spiritualità che si è stagliato nitido nel Convegno ecclesiale di Palermo, che, significativamente, è ritornato come un leit-motiv nella seconda assemblea ecumenica di Graz è, in fondo, ciò che il papa ci propone nella Tertio Millennio Adveniente. È qualcosa che, innanzi tutto, riguarda noi.

Che il Signore ci doni la grazia di saperci sempre mettere disarmati di fronte a Lui, per ascoltare la voce dello Spirito, qualunque cosa abbia da dirci, senza paure, senza difese, senza false certezze.

2. Lo Spirito Santo e la comunità cristiana

"Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune" (1 Cor 12, 4-7).

Ecco la comunità cristiana. Quella delle origini, quella delineata dal Concilio Vaticano II. La gioia e la croce del presente. La gioia: perché è bello solo quando i fratelli vivono insieme, come canta il Salmo. La croce: perché il travaglio di oggi nella chiesa è proprio questo: passare da una comunità-istituzione già data e omogenea alla cultura, a una comunità scelta, progettata insieme e profetica.

Occorrono le strutture adeguate, gli organi di partecipazione: son tutte cose indispensabili per tradurre in carne e sangue l’ispirazione ecclesiologica del Vaticano II.

La conversione ministeriale

Ma occorre, allo stesso tempo, una conversione della figura e del modo di esercitare il ministero da parte del presbitero.

La conversione personale all’azione dello Spirito nella sequela di Gesù non basta. Occorre anche una conversione ministeriale.

Ma quante conversioni! – mi direte. Basta con l’autoflagellarsi come preti! Siamo già pochi di numero, avanzati – in gran parte – nell’età, e sovraccarichi di lavoro...

Sì, lo so: è vero. Ma "la carità di Cristo ci spinge" (2 Cor 5,14). Non soffochiamo lo Spirito in noi che ci dice: "I tempi cambiano ma Io opero nella storia. Perché continuate a fare, tristemente rassegnati, i laudatores temporis acti o addirittura i profeti di sventura? Non pensate alle cose passate. Io sto facendo una cosa nuova, ecco: guardate! perché non ve ne accorgete" (cf Is 43,19)?

Ma dov’è questa "cosa nuova"? Dobbiamo scoprirla insieme, nell’umiltà dell’ascolto vicendevole e disarmato.

Il card. Martini, comunicandomi l’ispirazione di fondo della sua ultima lettera alla diocesi di Milano, mi diceva che intendeva mettere in rilievo la pluralità della presenza e dell’azione dello Spirito nella chiesa e nel mondo di oggi. Nessuno può presumere di avere il monopolio o la privativa dello Spirito Santo: né la gerarchia, né una tradizione consolidata, né questa o quella nuova organizzazione: "Spiritus ubi vult spirat".

Oggi, occorre non soltanto non "spegnere lo Spirito" (1 Tess. 5,19) – sia esso una tiepida fiammella o una vigorosa irruzione –, ma anche riconoscerlo, accoglierlo, fargli spazio nella comunità mediante l’esercizio di un discernimento responsabile e coscienzioso, fatto cioè di fronte a Dio.

Dopo duemila anni di storia – diceva pungente K. Rahner parlando dell’elemento dinamico e carismatico della chiesa – dovremmo pur aver imparato ad accogliere i profeti dello Spirito. Non solo a farli santi post mortem, dopo averli emarginati, guardati con sufficienza e vilipesi, ma a riconoscerli come dono di Dio mentre sono ancora in mezzo a noi. Chi accoglie un profeta avrà la ricompensa del profeta (cf Mt 10, 41).

Il dono del discernimento

Direi quasi che, nella chiesa del dopo-Concilio, affinché l’edificazione di una matura comunità cristiana non si riduca a una pia intenzione o a un’inutile maquillage di facciata, occorre una figura di presbitero in grado di esercitare – a livello della sua parrocchia e in comunione col vescovo e con i confratelli – un discernimento quale, prima d’ora, era richiesto solo o principalmente ai vescovi.

Voglio dire che oggi la parrocchia presenta un tessuto molto più articolato che in passato: gruppi, movimenti, azioni di volontariato e sensibilità per realtà che prima neppure sfioravano la sua vita e organizzazione.

Paolo, nella pericope della prima lettera ai Corinti già citata, parla di "diversità di carismi, diversità di ministeri, diversità di operazioni": la parola tradotta in italiano con "diversità" in greco è più forte, è diaíresis, che significa: distinzione (aíresis) che attraversa (dià) la comunità. E così esprime l’infinita ricchezza dell’amore di Dio che è Uno e che spinge i suoi figli, in Cristo, all’unità.

Questa è la sfida di oggi: riconoscere la diversità e aiutarla a esprimersi secondo la logica che lo Spirito imprime in essa. È la logica dell’"utilità comune", che Paolo esprime con una parola assai bella: il sumphéron, il "portare insieme". Che cosa? la grazia e la missione di Cristo.

Fa specie, alcune volte, vedere la difficoltà che il presbiterio diocesano ha nel riconoscere e nell’accogliere al suo interno la "diversità" per esercitare insieme, sotto la guida del vescovo, il sumphéron, il "portare insieme" il servizio pastorale.

C’è da chiedersi com’è possibile che un prete che non ce la mette tutta per realizzare l’unità del sumphéron nella diversità dei compiti nell’unico presbiterio, possa poi, con credibilità e lasciandosi guidare dallo Spirito, fare lo stesso con la gente che gli è affidata.

Un discernimento comunitario

Ma dov’è che, concretamente, troviamo oggi questa "diversità" di carismi, di ministeri, di operazioni di cui parla Paolo?

A me vengono spontaneamente in mente tre soggetti, anche se ve ne sono molti di più (e voi stessi li potete e li sapete ben individuare):

In tutto ciò, quello che mi pare essenziale è l’indicazione emersa nel Convegno della chiesa italiana a Palermo – forse una delle più importanti –: occorre educarsi e crescere nel discernimento comunitario. E cioè nella capacità di accogliere e seguire ciò che ci dice lo Spirito quando siamo insieme, portando insieme la fatica della ricerca, del progetto e della verifica per poter portare insieme la fatica della testimonianza e del servizio.

A questo proposito va anche ripresa, con coraggio e lucidità, la questione del sacramento della confermazione nelle nostre comunità. Non posso qui farlo, perché tale questione esigerebbe un’apposita e ponderata istruzione teologica, socio-culturale e pastorale.

Mi permetterei di suggerire che essa venga ripresa con il debito spazio e non limitandosi ai risvolti, pure urgenti, dell’età e delle modalità tecniche del conferimento del sacramento, ma sviscerando la complessità del problema, vera spia del disagio e della promessa che abitano la nostra comunità ecclesiale.

3. Lo Spirito Santo e i "segni dei tempi" oggi nel nostro mondo

"Il Popolo di Dio, mosso dalla fede, per cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore, che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza e del disegno di Dio" (GS 11).

La storia è avvolta, penetrata, sollecitata e orientata dallo Spirito, cioè dall’amore di Dio.

Questa prospettiva conciliare non è né enfatica né banalmente ottimistica. È una professione di fede nell’amore di Dio: credidimus caritati (cf 1 Gv 4, 16).

Lo Spirito di Dio e di Cristo guida il popolo di Dio: certo, muovendo dal sacrario dell’interiorità personale visitato e plasmato dall’azione del Signore, ma insieme, e proprio per questo, suscitando il comune pellegrinare in fraterna e gioiosa solidarietà.

La diversità: arricchimento dell’unità

Allo stesso tempo lo Spirito "replet orbem terrarum". "Quodcumque (et a quocumque) veri et boni – insegnava San Tommaso – a Spiritu Sancto est". A ben vedere, è la stessa logica che ispira – nella comunità ecclesiale – lo sguardo che interpreta la "diversità" come arricchimento dell’unità.

Se così è, ecco la conseguenza: il popolo di Dio guidato dallo Spirito "cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza e del disegno di Dio".

"Una cum ceteris nostrae aetatis hominibus": il tempo e il mondo in cui viviamo sono nostri, non nel senso che li possediamo, ma nel senso che in essi siamo chiamati a vivere con quella compagnia e solidarietà, spinta sino alla fine, con cui Cristo ha vissuto con gli esseri umani del suo e di ogni tempo.

Dentro la storia con umiltà

Il luogo dove – mossi dallo Spirito – siamo chiamati a discernere i segni della presenza e del disegno di salvezza di Dio sono "gli avvenimenti, le esigenze e le aspettative" degli uomini e delle donne di oggi.

In altre parole, lo Spirito Santo non ci spinge fuori della storia, ma c’invita a calarci dentro di essa.

Si comprende, allora, perché il papa, insistentemente – e nonostante il parere contrario di molti – inviti la chiesa a "farsi carico con più viva consapevolezza del peccato dei suoi figli", chiedendo perdono delle "forme di antitestimonianza e di scandalo" (cf Tma, 33).

Tale conversione e richiesta di perdono collettiva sono un segno tipico dell’azione dello Spirito, che – per rinnovare la comunità come il singolo – inizia col "convincere del proprio peccato": affinché la grazia non sia sprecata a buon mercato ma sia pagata, come si conviene, "a caro prezzo" (come scriveva D. Bonhoeffer). Tale è il presupposto indispensabile per poter discernere l’azione dello Spirito nella storia.

La chiesa guidata dallo Spirito è una chiesa umile, povera, che riconosce l’unica sorgente della sua fortezza e della sua sapienza nella debolezza e nella stoltezza del Cristo Crocifisso (cf 1 Cor 1, 22ss).

Se queste considerazioni possono sembrare solamente delle belle parole quando sono declamate in un generico riferimento alla chiesa nella sua essenza universale, diventano concretamente interpellanti e brucianti quando sono applicate al modo del nostro essere comunità, alle forme del nostro esercitare l’apostolato e il ministero.

Senza falsi manicheismi e sterili angelismi, e cioè con la giusta valutazione di tutto ciò che è utile e persino necessario alla sua missione, la chiesa può e deve contare solo su quella che Paolo chiama la dúnamis dello Spirito nel donare la Parola, i Sacramenti, il servizio della carità.

Non è un caso – lo si capirà, forse, solo col passare del tempo, inoltrandoci nel prossimo millennio – che, in questo scorcio del novecento, venute meno le ideologie forti col loro tragico retaggio di oppressione, sia proclamata dottore della chiesa Teresina di Lisieux, con la sua "piccola via", col suo voler "stare a mensa" con chi ha perduto Dio, con la scelta dell’essere al cuore della chiesa, sua madre, segno povero e disarmato di amore.

Dopo aver ricevuto la notizia dall’ANSA, una giornalista di sensibilità laica mi ha telefonato: "È un segno, questo, di tempi nuovi della chiesa, forse al di là della consapevolezza stessa che la chiesa ha di sé".

Le nuove vie: i dialoghi

Secondo questo stile, la presenza della comunità cristiana e dei singoli cristiani nella società e nel mondo non può non rischiare le strade nuove del dialogo, secondo quell’intuizione profetica che Paolo VI ha espresso nell’Ecclesiam Suam, che il Vaticano II ha ampiamente sviluppato, che Giovanni Paolo II ha rilanciato: basti pensare a quella che lui stesso ha definito l’icona della chiesa secondo l’insegnamento conciliare, la giornata mondiale di preghiera delle religioni per la pace ad Assisi del 1976.

Mi ha colpito che nel Convegno ecclesiale celebrato dal 12 al 14 settembre 1997, e dedicato allo Spirito Santo, la diocesi di Acerra, oltre ad affrontare temi come la vita interiore, il ruolo dei carismi e dei movimenti, il sacramento della confermazione, abbia invitato il primo giorno a parlare mons. Aldo Giordano, segretario generale del Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa, su: "L’Assemblea ecumenica di Graz. Reportage ed esperienze".

Eppure si tratta di una chiesa particolare piccola del Sud Italia, attanagliata da problemi gravissimi, come la disoccupazione, la camorra, ecc. Il messaggio è evidente: lo Spirito Santo fa pensare e sentire in grande, fa uscire dal proprio buco, dalla gestione, pur indispensabile, dell’ordinario, per abituarsi ad articolare l’attenzione al territorio con l’apertura alla mondialità.

Quest’anno la provvidenza mi ha portato con Chiara Lubich a trascorrere la giornata dell’epifania con un gruppo di monaci e laici buddisti a Bangkok, in Thailandia; e quella di pentecoste nella moschea di Malcom X, a New York, coi musulmani neri. Non l’avrei mai pensato. Mi è parso un segno dello Spirito, non solo per me, ma – come dicevano già decine di anni fa teologi come H. De Lubac e R. Guardini – anche per tutta la chiesa.

4. Lo Spirito Santo e la Sposa

"Lo Spirito e la sposa dicono: Vieni! E chi ascolta ripeta: Vieni! Chi ha sete venga; chi vuole attingere gratuitamente l’acqua della vita" (Ap. 22, 17).

Sono le ultime parole della Sacra Scrittura. Ed è significativo che siano due i soggetti a pronunciarle in perfetta sintonia: lo Spirito e la Sposa, lo Spirito e la chiesa nella sua universalità e insieme nella particolarità di quella comunità concreta che è invitata a ripetere: Vieni!

La Sposa richiama anche Maria, l’icona e l’anticipazione del destino escatologico della chiesa.

Lo Spirito e Maria vanno sempre insieme. Come spiega Grignion de Montfort, riferendosi alla scena pasquale del vangelo di Giovanni e collegandola all’annunciazione e alla pentecoste lucana, due soli possono generare il Figlio di Dio nella carne: lo Spirito Santo e Maria. Così sono loro insieme, in sinergia, a generare anche noi in Cristo figli di Dio.

Lo Spirito è suscitatore di questa speranza – la virtù teologale che nell’anno ‘97-’98 è proposta al nostro approfondimento – non solo nel senso che ci aiuta a leggere il nuovo che, nonostante le contrarie apparenze, germoglia nella storia. Ma anche nel senso che tiene viva la tensione escatologica, e profetica, nella vita della chiesa.

Se, dal punto di vista della lettura della storia, è evidente che – anche per la chiesa – è finita un’epoca e, faticosamente, ne sta nascendo un’altra; dal punto di vista della relazione tra la storia e ciò che è al di là di essa come suo compimento, è altrettanto evidente che uno dei compiti più impellenti della catechesi e della predicazione della chiesa oggi tocca la gioiosa – eppure provocatoriamente interpellante – promessa evangelica delle realtà ultime.

I vecchi schemi si sono come sbriciolati tra le nostre mani, e allora si è rinunciato a predicare sull’aldilà. Ma senza quest’annuncio di speranza il cristianesimo è dimezzato, anzi colpito a morte.

Riscoprire la speranza, per risvegliare la speranza. È una luce che rischiara la nostra vita personale, la testimonianza della comunità cristiana, il suo essere lievito nella pasta della storia. È un’acqua che gorgoglia nel tempo per la vita eterna.

Come scrive Sant’Ignazio di Antiochia ai Romani (VII, 2): "Un’acqua viva mi parla dentro e mi dice: Vieni al Padre".

Piero Coda