"Quando c’è dialogo, la diversità può essere fonte di ricchezza, fondamento di umanità e di speranza"

 

Un patrimonio ideale comune che salvi la dignità umana

di Piero G. Taiti

 

Il dr. Piero G. Taiti è direttore sanitario dell’ospedale di Prato in Toscana, Italia. Al congresso ha donato la sua esperienza di dialogo nell’ambito del Movimento dei focolari. Ponendo in rilievo i valori universali che tutti possono condividere e riscoprendo un linguaggio che già abbiamo in comune, mostra come, credenti e non, possiamo collaborare nel costruire un mondo più umano.

È stata un sorpresa per me venire a parlare a una simile assemblea, perché sono abituato a un altro tipo di riunioni. Non so di quali linguaggi facciano uso i teologi quando parlano e di quali argomenti trattino nei loro incontri, anche se stasera ne ho avuto qualche piccolo saggio. Non avendo però dimestichezza con tali assemblee, ho avuto un certo imbarazzo nella scelta del giusto tono del mio discorso. Mi è venuto in aiuto in questo frangente un antico ricordo di letture neotestamentarie che un insegnante di religione del liceo, un indimenticato prete purtroppo scomparso molto prematuramente, mi aveva sottoposto a quell’epoca. Si tratta della prima lettera dell’apostolo Giovanni (4, 17-21).

Ora, mi rendo conto che citare io questi versetti, ad un convegno come questo, potrebbe sembrare quasi un’ovvietà fastidiosa, come se citassimo gli stoici ad un’assemblea di logici o qualche teorema di geometria a un convegno di algebristi.

Ma vi assicuro che quello che per loro è acquisito e normale, certo non lo era per me.

Aver trovato un punto d’appoggio in questo testo canonico mi ha permesso di fare una piccola deduzione: chi parla di Dio ama sicuramente anche le Sacre Scritture e quindi si presuppone, ama Dio, ma – e qui soccorre il testo giovanneo – se "chi non ama il prossimo che vede, come può amare Dio che non vede?", allora "chi ama Dio ami anche il proprio fratello". Ecco dunque il sillogismo che è servito a me per presentarmi: non quello che si dice, non quello che si pensa, non tanto quello si fa, ma il fatto stesso che uno viene e si presenta come un un essere umano – il proprio fratello nel linguaggio della Scrittura – fa immediatamente scattare il comandamento sul prossimo che si vede.

Io non sono proprio certo che i teologi, né del resto tutti gli altri nel mondo, ragionino oggi o abbiano sempre ragionato in questi termini, ma io non cesso mai di stupirmi che su quel libro, che un quarto dell’umanità considera sacro, c’è scritto proprio così e non da oggi.

La regola aurea: base del dialogo

In una recente assemblea del gruppo del dialogo – a cui come è stato detto precedentemente partecipano membri del Movimento e altre persone laiche o non religiose di varie convinzioni, tenuta a Castel Gandolfo – qualcuno ha osservato che la nostra impostazione sul tema della giustizia e della solidarietà (argomento del quale abbiamo lungamente parlato in quell’occasione) nasceva all’interno di un mondo cristiano, laico o religioso che fosse.

È certamente vera questa osservazione, nel senso che un filosofo italiano di questo secolo, Benedetto Croce, dette una volta all’estensione semantica della parola cristiano, e cioè che il mondo occidentale in genere, in qualche modo, "non può non dirsi cristiano", ma è anche vero che significati analoghi sulla cosiddetta "regola aurea" e sul valore del prossimo, si trovano nelle grandi religioni monoteiste e nel buddismo, oltre che in molti tronchi dell’ateismo moderno, che per tanti versi è figlio di quella teologia umanistica che da Feuerbach in poi ha tanto prosperato nella cultura occidentale, contrastandosi ma a volte compenetrandosi – come ci ha insegnato un filosofo tedesco di questo secolo, E. Bloch – con il pensiero di origine religiosa.

Attualmente in questo mondo non sembra che prosperi più nulla di questo genere di cose, ma è certo che tutta la cultura occidentale – almeno fino ad oggi – è stata sconvolta dalla lettura di quel messaggio archetipico contenuto nel Nuovo Testamento: il figlio di Dio si incarna in una famiglia della Galilea, predica un suo regno di giustizia, di pace, di beatitudini, di fratellanza, di amore umano e divino, viene confuso un po’ per interesse, un po’ per calcolo con un falso profeta o con un agitatore politico sociale e viene crocifisso come un qualsiasi malfattore durante l’impero di Cesare Ottaviano Augusto.

Da duemila anni si è preso partito sul fatto che "il terzo giorno risuscitò da morte", bruciando alternativamente e secondo le circostante, chi l’affermava o chi lo negava. Tuttavia, neppure il più radicale degli atei può rimanere indifferente a quella vicenda che Dostoevskij ha trasformato in fabula nel capitolo del "grande inquisitore" dei Fratelli Karamazov.

La presenza del Giusto nel mondo

C’è una vicenda che incombe sulla storia umana: un Giusto che si presenta al suo popolo, dopo aver rifiutato le tentazioni del deserto, rischia anche nel terzo millennio del cristianesimo di finire nuovamente su una croce come avvenne per il Figlio dell’Uomo.

Per stare ai tempi più recenti, può essere stato impiccato a Auschwitz o a Flossenburg, o morto di fame e di gelo in qualche gulag sconosciuto; o massacrato in qualche recente pulizia etnica o costretto a dormire sotto qualche cartone in una via di New York o di Calcutta o all’angolo di una nostra contrada; o è di nuovo comparso in Palestina, oppure è in qualche volto accanto a noi che non sappiamo neppure riconoscere.

C’è chi tenta da venti secoli di sterilizzare questa vicenda col mito religioso o chi tenta di annebbiarla in una profumata nuvola d’incenso. Di fatto il nostro mondo moderno ha dovuto fare continuamente i conti con questa storia archetipica: quale che sia il valore di verità che ognuno è disposto a concederle.

Non so se qualcuno sia disposto a rallegrarsi del grido di Alesa, nel romanzo di Dostoevskij: "Il tuo inquisitore non crede in Dio; ecco in che consiste il suo segreto". Ma credo che basterebbe un’occhiata alle vicende del millennio ormai al tramonto, per rendersi conto che non si può semplificare nulla, senza offuscare la realtà. Qualcuno ha preteso perfino di usare quel nome (che giustamente gli israeliti adoperavano con tanto riguardo e con tanta parsimonia) in maniera perfida o per lo meno incongrua, fino a fargli voler fare recentemente lo showman in televisione.

"Quem quaeritis?"

Ma il nostro dialogo non è nato intorno ad una pur rispettabile riflessione filosofica, e neppure intorno alla ricerca di valori comuni da salvare nel nichilismo etico del consumismo e nel mercantilismo universale del mondo contemporaneo; nella consapevolezza che non è solo la sabbia del deserto fisico che avanza: dopo il crollo delle ideologie sono dilagati inesorabilmente ben altri deserti dello spirito.

Il nostro dialogo fra credenti e non si è aggrumato intorno a concretissimi gridi di disperazione, che ciascuno di noi ha sentito echeggiare dentro di sé ancor prima che si fosse pensato a qualche strategia generale.

E così ci siamo trovati a fare le stesse cose, con pensieri comuni, con la stessa partecipazione umana, con lo stesso spirito di solidarietà, rispettosi del patrimonio ideale che ci spingeva, da provenienze così diverse, ad accorrere per uno stesso richiamo.

Ciascuno vi ha corrisposto con l’esperienza della propria fede, o senza certezze ultraterrene, spinto dalla speranza di contribuire a rendere meno feroce la convivenza umana e, forse, dal desiderio – consapevole o no – che almeno per una volta non si ripetesse il paradigma dostoevskijano in un mondo che almeno nella sua parte occidentale diventa ogni giorno più sordo ai richiami di umanità, etici, spirituali o religiosi.

Tutta la nostra breve esperienza è segnata profondamente da questo clima di rispetto, di non prevaricazione, di ascolto, di attesa.

"Quem quaeritis?" – potremmo chiedere a ciascuno che, con una lanterna in mano, cerchi ancora i segni di un’antica sapienza.

Crediamo di cercare anche oggi – come sempre e nonostante tutto – i segni della nostra comune dignità umana e proporre ipotesi che la rispettino.

E poi il resto.

A noi, persone dalle rare certezze, è piaciuto ripetere, nell’ultimo convegno, una poesia di Machado:

"Viandante, son le tue orme la via
e nulla più;
viandante non c’è via;
la via si fa con l’andare".

E noi abbiamo aggiunto: "con l’andare insieme".

Un’esperienza di dialogo

Nella scorsa primavera il Movimento Umanità Nuova ha organizzato un convegno mondiale sul tema dell’invecchiamento della popolazione dal titolo "Gli anziani: risorsa per un mondo unito".

Preparare e realizzare questo convegno, che si è tenuto a Rimini, è stata una profonda esperienza di dialogo, perché siamo stati capaci di ascoltare le voci che provenivano dal mondo che era presente al convegno (era un convegno internazionale) ma anche ascoltarci nel piccolo mondo che ha preparato il convegno, dove eravamo di diversa provenienza.

Il rischio, come succede sempre in queste situazioni, era che si udissero solo le voci di coloro che noi volevamo sentire, e che la lettura dei fatti fosse fatta con i nostri desideri, magari con la lettura di quei desideri espressi nei versetti di Giovanni citati all’inizio.

Ma una cosa è l’analisi dei fatti, un’altra la proposta.

Di fronte alle difficoltà del confronto, la preparazione non è stata un sentiero in discesa: è costato forse a qualcuno qualche travaglio, qualche disagio, qualche piccola sofferenza e forse anche qualche rinuncia.

Di fronte alle difficoltà del confronto, la tentazione più pericolosa è stata quella di lasciar perdere, perché cercare delle vie di comunicazione, trovare un linguaggio comune che almeno ci permettesse di capirci fra noi e di capire gli altri, è stato faticoso: a testimonianza che il sudore dell’intelletto a volte non è meno guadagnato di quello del corpo.

Credo invece che siamo riusciti con pervicacia ad ascoltare le differenze e le diversità della famiglia umana, con la convinzione che sia possibile costruire una nuova città entro cui ogni essere umano sia accettato e compreso e cui possa partecipare qualsiasi straniero, ma nella quale nessuno si senta estraneo, all’interno di qualsiasi tempo storico e di qualsiasi luogo geografico.

Per far questo non basta genericamente volersi bene o rispettarsi: homo sum, dice un classico adagio, e spesso persone di rispettabile età, cariche di esperienze, di speranze, di fedi, di culture, di vita vissuta. È stato necessario capire le ragioni e i sentimenti degli altri; a volte mettersi in discussione, rivedere molte radicate convinzioni per trovare soluzioni condivise.

Abbiamo però constato con gioia che, quando c’è dialogo, la diversità può essere fonte di ricchezza, fondamento di umanità e di speranza.

Forse non abbiamo scoperto nulla di straordinario, ma solo quella lapalissiana verità del borghese-gentiluomo di Molière, e cioè che abbiamo parlato tutta la vita in prosa senza saperlo. Anche noi disponevamo di un linguaggio comune per intenderci, ma forse qualche volta non l’abbiamo voluto fare o forse altre volte non l’abbiamo potuto fare o comunque non l’abbiamo mai fatto a sufficienza.

Allora, in certe occasioni, rendere evidente il dialogo, significa costruire una via, riaccendere una speranza, aprire uno spazio nuovo, intravedere un orizzonte più vasto. Tutto ciò rinfranca lo spirito e ci dà il senso che c’è un "ancora", molto, da lavorare.

Ma, come quando in montagna si cammina insieme sullo stesso sentiero, si può esser contenti anche della fatica del percorso che si fa insieme.

Piero G. Taiti