Atteggiamenti che rendono possibile e più fecondo il dialogo

 

La metodologia del dialogo

di Enrique Cambón

 

Tutti conosciamo la storia e sappiamo che una concezione dualistico-conflittuale ha portato in tutte le epoche a escludere o eliminare l’avversario e il diverso, generando guerre e violenze di ogni genere. E le religioni – al loro interno e fra di loro – sono cadute con frequenza nella stessa logica.

Novità storica

Il fatto che nel nostro tempo, considerato globalmente, si stia passando da una cultura di contrapposizione ad un’altra, nella quale prevale la ricerca delle convergenze attraverso il dialogo, costituisce un vero segno dei tempi.

Per ciò che concerne i rapporti fra le religioni, si moltiplicano i segnali in questa direzione, e all’interno stesso del cristianesimo costituiscono ormai una mole i documenti sul dialogo e di dialogo, e le iniziative concrete a riguardo1. Ho fatto tempo fa, ad esempio, uno studio comparativo dei documenti sul dialogo prodotti dalla sola chiesa cattolica nei suoi vari organi vaticani, e li ho trovati molto ricchi e significativi2.

Ormai la maggior parte dei cristiani riconosce il dialogo come componente essenziale della missione evangelizzatrice della chiesa3: come stile, spazio e presupposto dell’annuncio evangelico.

Sempre più si comprende che non è concepibile – né è accettata dal mondo d’oggi – una presentazione non dialogica della fede e della testimonianza cristiane. Il fondamento di ciò potrebbe essere mostrato da un punto di vista antropologico-epistemologico, teologico-cristologico, ecclesiologico-trinitario, ecc.

Il mio compito però non è quello di parlare della sua legittimazione teoretica, bensì della metodologia del dialogo da una prospettiva pastorale, cioè pratica.

Dialogo: dall’agápe all’unità

– "Dialogo significa amare... Il dialogo è vero se è animato dall’amore vero"4.

– "L’unità è il frutto del dialogo: è il dialogo consumato"5.

Queste due frasi di Chiara Lubich, dette la prima recentemente in questa stessa sala in un incontro di amici del Movimento che si dichiarano non credenti, e l’altra a 7.000 sacerdoti e religiosi di tutto il mondo radunati nella sala di udienze pontificie "Paolo VI" nel 1982, racchiudono il "come" ed il "verso dove" del dialogo.

Vorrei muovermi fra questi due poli: Cosa significa "amare"? E di quale unità si tratta?

Avevo preparato un "decalogo" del dialogo preso dagli scritti e dall’esperienza di Chiara, che contengono una miniera di indicazioni. Si potrebbe anche confezionare un intero "vocabolario" sulla metodologia del dialogo6. Invece, a causa dello spazio ridotto di cui disponiamo, ci siamo limitati a degli spunti attorno a qualche atteggiamento fondamentale per ogni livello di dialogo.

L’ascolto

Uno dei principali protagonisti del Vaticano II, il card. L.J. Suenens, diceva che le due categorie che potrebbero sintetizzare l’atteggiamento con cui in questo Concilio la chiesa si mette nei riguardi del mondo, sono: dialogo e servizio. E aggiungeva: "o piuttosto ascolto e servizio, perché dialogare è più ascoltare che parlare".

Difficilmente si trovano persone che sanno ascoltare profondamente, spostando ogni pensiero personale per immedesimarsi in ciò che l’altro esprime.

In genere, chi ascolta, in realtà sta già rispondendo dentro di sé, filtrando i concetti dell’altro entro i propri schemi ed esperienze, preparando le obiezioni che farà, ecc.

Nei sacerdoti e religiosi molte volte questo viene ulteriormente accentuato. Scriveva Y. Congar, mettendo in guardia contro il clericalismo presente soprattutto in certe aree geografiche: "È difficile essere messi sempre sul piedistallo e non credersi di più degli altri". È vero che la secolarizzazione ed altre caratteristiche del nostro tempo, spazzano via velocemente questo genere di cose. Ma finché ciò non arriva è difficile dover insegnare sempre "con autorità" all’interno della propria chiesa, e non acquistare un tono perentorio credendo di dover avere sempre le risposte, senza ascoltare a fondo gli interlocutori. Vedo che questo è aggravato con frequenza, almeno nei sacerdoti cattolici, dai molti impegni che li fanno apparire davanti alla gente sempre occupati ed affrettati, "senza tempo" per ascoltare.

Molto spesso le persone hanno bisogno soprattutto di sfogarsi, di esprimersi. Quando l’hanno fatto non solo si sentono meglio, ma aiutati dal nostro ascolto sincero e disinteressato, le risposte spesso le trovano da sé, per cui quasi non abbiamo altro da fare che approvare ciò che hanno capito e incoraggiarli a realizzarlo.

Nel dialogare con qualcuno è necessario mettersi in atteggiamento di profondo silenzio, spostare i propri parametri intellettuali ed i giudizi che nascono dentro, per essere capaci di "farsi uno" con lui, di "mettersi nella sua pelle", sintonizzandosi con il suo vissuto e il suo pensiero.

L’esperienza mostra che soltanto chi parla basandosi su questo silenzio, su questo "svuotarsi" per amore, si mette nelle condizioni di capire e di rispondere con maggiore pienezza alle esigenze dell’interlocutore.

Negli ambienti cristiani si parla frequentemente della necessità del silenzio interiore per poter ascoltare Dio. Ma non si dà la stessa importanza al silenzio interiore necessario per poter ascoltare gli altri, e che può costituire un autentico incontro con Dio nel prossimo7.

Uno degli aspetti più sottili ma importanti dell’ascolto è l’essere attenti a ciò che gli altri dicono anche attraverso "i silenzi"; bisogna saper ascoltare il cuore della nostra gente e della nostra cultura – come dicevano i vescovi latinoamericani a Puebla –, cioè anche quello che non riescono a esplicitare verbalmente con chiarezza.

Se impostare bene un problema è già metà della soluzione, io direi che chi sa ascoltare ha già percorso la maggior parte del cammino del dialogo.

Una pubblicazione recente aveva come titolo: "L’ascolto s’impara", come a dire che in esso è possibile crescere e ci si può sempre aiutare a migliorarlo. L’ascolto vero esige una sua ascesi ed allenamento ed è la prima caratteristica di quell’amore vero che fa possibile il dialogo.

L’amicizia

Il clima in cui si svolge il dialogo è propedeuticamente fondamentale. A chi non ha fame è inutile offrirgli da mangiare. Quando si stabilisce un rapporto di fiducia reciproca e di amicizia, soltanto allora si produce quell’apertura d’animo che favorisce l’espressione e la comprensione.

L’amore vicendevole di stile evangelico (anche quando ancora non lo si chiama esplicitamente così), costituisce la migliore preparazione al dialogo, ed in qualche modo può già essere considerato tale. Perché come sappiamo ci sono diversi livelli dialogici: non solo quello delle idee, ma anche quello del servizio in comune all’umanità, e quello implicito nella vita e nei rapporti fraterni condivisi.

L’uguale importanza di ognuno di questi tipi di dialogo proviene, tra l’altro, dalla complessità della realtà e della nostra mente: in genere ad ogni idea o esperienza umana si può contrapporre un’altra diversa o contraria che sembra ugualmente valida. E l’essere umano non pensa solo con la sua testa, ma con tutto il suo essere, le sue circostanze, la sua esperienza.

Per cui per crescere nella conoscenza – soprattutto di tipo umanistico-religioso –, non basta presentare una verità nel modo più adeguato possibile, bisogna che la persona si apra per poterla capire e farla propria. E niente facilita questo come stabilire rapporti amichevoli e di confidenza reciproca.

Rivolgersi sempre
"al meglio dell’altro"

Ho sentito una volta dire da un sacerdote focolarino, rivolgendosi a numerosi giovani cristiani della sua regione: "Quando altre persone vi fanno, ad esempio, delle proposte disoneste, rispondete parlando al meglio dell’altro, alle corde più positive della sua persona, senz’altro presenti in lui dal momento che siamo fatti ad immagine di Dio. Se il vostro parlare sarà condito dalla sapienza che viene da un’esperienza del vangelo, qualche volta non sarete capiti e arriveranno le persecuzioni che Gesù ha promesso. Ma vedrete che in genere, per qualcosa di quello che dite quella persona rimarrà toccata, e facilmente coinciderà con voi in certi valori che sono anche umani, o almeno desterete in lui rispetto verso la vostra posizione".

Quest’altro aspetto fondamentale del dialogo è dato, come più volte ha rilevato P. Foresi, da due convinzioni di fondo.

La prima quella che in tutti gli esseri umani c’è qualcosa di santo e di buono, di ricerca naturale della bellezza, del bene, della verità, e quando la trovano in qualche misura, rimangono attratti e segnati.

La seconda è che, di fronte ad ogni condotta o affermazione concettuale lontana dai valori cristiani, non bisogna fermarsi alla materialità di ciò che appare, ma domandarsi il "perché" di tale posizione intellettuale o modo di fare. Normalmente c’è dietro una qualche esigenza sana, una parte di verità attraverso cui lo Spirito Santo vuole farsi strada.

Lo stesso card. J. Ratzinger lo segnalava: "accanto alla dimostrazione dell’errore e del pericolo... bisogna sempre affiancare la domanda: quale verità si nasconde nell’errore e come recuperarla pienamente?"8.

Perciò i cristiani non possono scoraggiarsi davanti alle crisi storiche (ogni epoca sembra quella "più corrotta", più difficile per il cristianesimo). Piuttosto che spaventarsi o chiudersi al nuovo, essi devono domandarsi a quali risposte più sapienti, a quali nuove sintesi Dio li chiama attraverso le sofferenze e le esigenze del proprio tempo.

Queste sono alcune delle ragioni che mostrano quanto sia saggio l’atteggiamento di cercare sempre con "intelletto d’amore" quello che già ci unisce, per far partire da lì il dialogo con chiunque.

Occorre la testimonianza

"Il dialogo è possibile e costruttivo se si premette la testimonianza"9. E ciò in duplice senso.

Innanzitutto personalmente. La testimonianza, se è autentica, viene accettata più facilmente delle idee astratte, e si rivolge non soltanto all’intelligenza ma a tutto l’essere umano suscitando nuova vita. Inoltre c’è un nesso misterioso ma reale fra ciò che diciamo e ciò che siamo; se la nostra parola è espressione di un’esperienza evangelica, più facilmente incide e trasforma.

E inoltre comunitariamente. Nell’episodio di Gesù con la samaritana, che costituisce una vera lezione pratica di metodologia dialogica10, mi ha sempre colpito particolarmente questo passaggio: la donna "andò in città e disse alla gente: "Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto ciò che ho fatto. Non sarà lui il Cristo?"… Quando i samaritani giunsero da lui … molti di più credettero alla sua parola, e dicevano alla donna: "Non è più per le tue parole che crediamo, adesso noi stessi lo abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo"" (Gv 4, 28-29). È decisiva la testimonianza comunitaria che abbiamo alle spalle, dove i nostri interlocutori possano "andare a vedere", verificando la credibilità di ciò che affermiamo.

Sofferenza ed unità

Il dialogo implica normalmente una quota di sofferenza. Le cause sono innumerevoli: la storicità/limitatezza della nostra conoscenza, la lentezza dei processi umani e istituzionali, le involuzioni o stagnamenti dovuti in qualche occasione a malintesi e altre volte a veri e propri errori, la competenza e le nuove categorie che spesso ci mancano per portare avanti le cose, e così via.

Perciò si capisce molto bene che Chiara abbia parlato reiteratamente di Gesù crocifisso e abbandonato come "segreto" per un dialogo duraturo e fecondo: "È per lui che ci cerchiamo, che ci amiamo, che speriamo, che non desistiamo se l’impresa sembra ardua"11. Solo se il nostro amore arriva a questa misura si è capaci di non fermarsi di fronte a nessuna difficoltà.

Inoltre dicevamo che la finalità del dialogo è l’unità. Ciò non significa ovviamente né imposizione monolitica, né appiattimento e omologazione, ma ricerca di un’unità "trinitaria". "Quell’eterno supremo dialogo d’amore che è la Santissima Trinità"12, sarà sempre paradigma critico e propositivo per ogni dialogo. Tra l’altro perché c’insegna che in esso, come nella Trinità, lo stesso amore che unisce è quello che distingue, non solo tollerando o rispettando le legittime differenze, ma promuovendole. Una caratteristica tipica della trinitarietà, valida quindi anche per il dialogo, è che quanto più cresce la comunione vera, più cresce armonicamente la personalità e l’identità di ognuno.

Si dice che il santo è colui che sa discernere il progetto di Dio sulle persone e nella storia, ed assecondarlo. Questa è la finalità del dialogo. Perciò esige pazienza storica ("la fretta dello Spirito Santo", non quella nostra), per rispettare i tempi di maturazione.

Maria

Per costruire una tale unità sono imprescindibili le "virtù mariane".

Per qualche verso sono rimasto perplesso la prima volta che ho letto quello scritto di Chiara dove dice che, per il dialogo ecumenico fra i cristiani, "occorre aver di fronte come modello sempre Maria e sviluppare in noi le qualità che più le si addicono: pazienza, perseveranza, povertà, nel distacco da tutte le nostre ricchezze anche spirituali, silenzio, temperanza, purezza, mansuetudine"13.

Col passare degli anni, ho constatato quanto sono necessari questi atteggiamenti per crescere in ogni forma di dialogo. Sarebbe molto indicativo avere la possibilità d’illustrare l’importanza di ognuna di queste caratteristiche con episodi di vita concreta. In qualche misura lo faranno le esperienze che ascolteremo in questi giorni.

Conclusione

Il dialogo fa parte del tipo di rapporti che Dio vuole tra gli esseri umani, ed è pertanto un modo privilegiato perché il regno di Dio cresca nel mondo.

Perché ciò sia possibile non basta descrivere didatticamente una sua metodologia. Ho conosciuto delle persone capaci di scrivere e parlare a lungo su questo tema, ma che non sapevano dialogare. Al contrario, ho imparato molto sul dialogo vedendo delle persone, anche semplici, che magari non sapevano esporlo in maniera approfondita e sistematica, ma lo vivevano in modo sapiente e costruttivo.

In questo campo come altrove, le idee chiare sono utili, ma non sono sufficienti. Ci vogliono "scuole" di comunionalità, cioè una scuola pratica di quegli atteggiamenti vitali che fanno possibile il dialogo. Perché esso costituisce un’arte che non si finisce mai d’imparare.

Una cosa è sicura: che senza gli atteggiamenti di fondo che qui abbiamo descritto molto brevemente, non sarebbero state possibili le esperienze ed i frutti notevoli, e per tanti versi originali, che ascolteremo nel seguito del Congresso.

 

Enrique Cambón

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1. Oltre i documenti di dialogo teologico fra le chiese cristiane e le numerose iniziative ecumeniche che si moltiplicano nel mondo, basti pensare all’esistenza del Consiglio Mondiale delle Chiese o, da parte della chiesa cattolica, la creazione dopo il Concilio Vaticano II dei vari dicasteri per il dialogo in tutti i suoi livelli: fra gli stessi cristiani, con le altre religioni, con le persone di convinzioni non religiose e con la cultura contemporanea.

2. Pubblicato in AA. VV., Il problema ateismo. Per una comprensione del fenomeno, Città Nuova Ed., Roma 1986, pp. 28-55.

3. Cfr in tale senso, per limitarci alla sola chiesa cattolica, il Concilio Vaticano II (vedi ad es., per tutti, il n. 92 della Gaudium et spes), l’enciclica Redemptoris missio nn. 55-57, il documento Dialogo e annuncio del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. In ambito italiano, molto significativi gli "Orientamenti pastorali per gli anni ’90" della CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità nn. 32-35, e la nota della stessa CEI La formazione ecumenica nella chiesa particolare. Un’analisi di questi documenti: P. CODA, Vangelo della carità e dialogo, in "Nuova Umanità" 82 (1992) pp. 11-26.

4. C. LUBICH, Il vero dialogo, in "Città Nuova" 5 (1998) p. 31.

5. C. LUBICH, messaggio pronunciato nel congresso internazionale di sacerdoti e religiosi Il sacerdote oggi. Il religioso oggi, Aula Paolo VI, Città del Vaticano (30 aprile 1982), Atti pubblicati da Città Nuova Ed., Roma 1982, p. 3.

6. Cfr l’efficace Piccolo dizionario del dialogo tra persone di convinzioni diverse, M. ZANZUCCHI, in "Città Nuova" 5 (1998) pp. 29-33.

7. "Dunque la mia cella (come direbbero le anime intime a Dio) è noi: il mio Cielo è in me e come in me nell’anima dei fratelli. E come lo amo in me, raccogliendomi in Esso – quando sono sola – Lo amo nel fratello quando egli è presso di me. Allora non amerò il silenzio ma la parola (espressa o tacita), la comunicazione cioè del Dio in me col Dio nel fratello. E se i due Cieli s’incontrano ivi è un’unica Trinità ove i due stanno come Padre e Figlio e tra essi è lo Spirito Santo" C. LUBICH, cit. da J.M. POVILUS, "Gesù in mezzo" nel pensiero di Chiara Lubich, Città Nuova Ed., Roma 1981, p. 73.

8. A colloquio con V. MESSORI, Rapporto sulla fede, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1985, p. 185.

9. C. LUBICH, L’unità e Gesù abbandonato, Città Nuova Ed., Roma 1984, p. 100.

10 Cfr E. CAMB"N, Le tappe del dialogo: un modello nel dialogo tra Gesù e la samaritana, in AA.VV., Dialogo fra le culture. Chiesa e umanesimo planetario, Città Nuova Ed., Roma 1988, pp. 125-131.

11. Il sacerdote oggi. Il religioso oggi, cit., p. 8.

12. Ibid., p. 12.

13. C. LUBICH, Scritti Spirituali/1. L’attrattiva del tempo moderno, Città Nuova Ed., Roma 19782, p. 255-256.