Guardare in positivo le crisi del nostro tempo

 

Una riflessione sul postmoderno

di Giuseppe M. Zanghì

 

In questa esposizione il relatore, ben conosciuto ai nostri lettori, unisce competenza storica, profondità di analisi e proposte pratiche che hanno il sapore del vero e del nuovo. Ne viene fuori una descrizione di forte spessore culturale ed aperta alla speranza. Proponiamo una sintesi quasi schematica rispettando il linguaggio della conversazione; l’articolo completo, corredato dai riferimenti bibliografici, sarà pubblicato prossimamente nella rivista di cultura "Nuova Umanità".

Con il termine postmoderno si vuole designare l’epoca contemporanea che sta succedendo al moderno, con certe sue caratteristiche tipiche che qui non descriviamo ma che tanti hanno analizzato. Il termine non è condiviso da tutti. Ad esempio il famoso sociologo francese Alain Touraine preferisce parlare di "basso moderno", così come si parla di basso impero nei riguardi di Roma o di basso medioevo. S’intende con ciò rilevare il fatto che si tratta di un’epoca in cui entra in disfacimento una cultura e cominciano a maturare i semi di una cultura nuova, come il basso impero ha dato vita all’epoca cristiano-patristica e il basso medioevo al grande medioevo.

Io accennerò tre idee molto brevemente. La prima sull’origine della crisi postmoderna, la seconda sulla sfida di fondo che essa ci pone, ed infine – giacché siamo in un Congresso teologico-pastorale – vorrei interrogarmi con voi sul che fare, su qualche risvolto pratico delle riflessioni precedenti.

1. Le radici della crisi occidentale

Quando parlo di crisi culturale mi riferisco alla cultura occidentale, intendendo per ciò soprattutto l’Europa centro occidentale.

È vero che attraverso la tecnica e la mondializzazione questa crisi si sta diffondendo alle altre zone del pianeta, però cadremmo in un eurocentrismo grossolano se pensassimo che il fenomeno è identico dappertutto.

Persino nell’America Latina e nell’America del Nord, che hanno tanti vincoli culturali con l’Europa, la situazione ha dei tratti propri che la fanno diversa.

Quindi mi limito a concentrarmi sulla crisi della cultura europea, che può però contenere indicazioni importanti anche per i travagli e l’evoluzione delle altre aree geografiche e culturali.

Sempre mi hanno colpito queste parole di estrema lucidità di Giovanni Paolo II, pronunciate nel 1982 al V Simposio dei vescovi europei, e che a mio parere non hanno avuto la riflessione che meritavano: "Le crisi dell’uomo europeo sono le crisi dell’uomo cristiano. Le crisi della cultura europea sono le crisi della cultura cristiana. Ancora più profondamente possiamo affermare che queste prove, queste tentazioni e questo esito del dramma europeo non solo interpellano il cristianesimo e la chiesa dal di fuori come una difficoltà o un ostacolo esterno, ma in un certo senso sono interiori al cristianesimo e alla chiesa. In questa luce il cristianesimo può scoprire nell’avventura dello spirito europeo le tentazioni, le infedeltà e i rischi che sono propri dell’uomo nel suo rapporto essenziale con Dio in Cristo".

L’Europa è nata originariamentedall’incontro tra il vangelo e la cultura greco-ellenica (e latina). Ma questo incontro con la cultura greca è avvenuto all’interno di una rottura, non spirituale ma culturale, con la matrice ebraica. Questo bisogna tenerlo presente, perché ha avuto delle conseguenze decisive sullo sviluppo culturale dell’Occidente.

Certi aspetti della cultura greca sono stati fondamentali per il cristianesimo. Ad esempio assistiamo in essa alla nascita del soggetto. L’essere umano si scopre come logos, come colui nel quale l’assoluto emerge come parola. Questo è tipico del genio greco, che si distingue dall’immersione estatica nell’assoluto che è tipica delle grandi culture orientali; si pone di fronte all’assoluto e attraverso il logos riflette su di esso. Tuttavia non si pone "di fronte" all’assoluto restandone fuori, ma all’interno dell’assoluto medesimo.

Per capirlo si potrebbe ricordare il daimon di Socrate. Nel Simposio di Platone, quando Socrate sta per entrare nella sala dove poi si svolgerà il banchetto durante il quale egli terrà il suo grande discorso sull’amore, si ferma e rimane come estatico per parecchio tempo: era il daimon che lo visitava; era, io direi adesso in senso eracliteo, il Logos che stava entrando nel logos di Socrate.

E così si potrebbe fare riferimento alla reminiscenza di Platone, all’intelletto agente di Aristotele, all’occhio come contemplazione che attende la rivelazione dell’Uno in Plotino. Tutto ci porta a vedere come il mondo greco ha fatto nascere il soggetto, però all’interno sempre dell’assoluto, non fuori.

Dicevo che questo era un terreno adatto per un primo impatto culturale con il messaggio cristiano perché, in fondo, nell’incarnazione che cosa fa Dio? Dio carica di densità il soggetto umano. E poi è il Logos che si fa carne, quindi non è strano che il primo spazio culturale con cui l’evangelo si confronta sia una cultura che ha fatto suo il Logos.

La cultura greca, inoltre, è profondamente tragica appunto perché sente drammaticamente questo porsi di fronte all’assoluto. Già prima della nascita della filosofia, nel mito greco, Apollo è un dio ambivalente, perché è il dio della bellezza, ma anche della morte; è lui che nell’Iliade lancia le frecce che uccideranno i greci. Questa ambivalenza essi l’avvertivano. E io penso che forse per questo era l’humus culturale più adatto per accogliere il messaggio della croce, anch’esso ambivalente: un Dio che muore sulla croce.

2. Lo Spirito: sfida per la teologia

Ora vorrei fare un’osservazione: il Cristo è morto sì, ma è risorto, ed è risorto per opera dello Spirito. Così incomincia la lettera ai Romani: "costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito Santo mediante la risurrezione dai morti" (1, 4).

La cultura greca non offriva nelle sue categorie culturali lo spazio per una riflessione sullo Spirito. Lo stesso Oriente europeo che più dell’Occidente ha privilegiato lo Spirito, l’ha fatto però pensando teologicamente lo Spirito all’interno del Logos. Mentre a mio parere la grande sfida che attende la teologia oggi è quella di pensare ora il Logos all’interno dello Spirito. Quando Paolo dice che il Figlio è il Figlio della predilezione di Dio (Col 1, 13), vuol dire che il Padre genera il Verbo amando, quindi nello Spirito.

Questa tra l’altro sarà una chance anche per il dialogo che stiamo cominciando ad aprire con le grandi culture dell’Asia. Perché se la cultura greca era la cultura del logos, quelle asiatiche sono le culture dello spirito.

Ancora. Se il cristianesimo ha dato densità al soggetto, bisogna aggiungere che il soggetto umano nel Cristo è invitato a compiere un cammino nello Spirito. Per cui non si tratta di una soggettività esclusiva ed escludente gli altri – è questo che la cultura occidentale ha fatto fatica a capire e non riesce ancora a capire pienamente – ma deve lasciarsi condurre dallo Spirito ad essere persona nel Verbo.

Perciò è importante tradurre bene quel passaggio di Gal 3, 28: "Tutti voi siete uno in Cristo Gesù". Alcuni traducono "una sola cosa", ma è sbagliato, perché Paolo utilizza eis, maschile. Perciò diceva giustamente E. Lohse, un esegeta tedesco, bisognerebbe tradurre "voi siete una sola persona nel Cristo".

Non a caso Giovanni nel suo vangelo, quando parla dell’unità del Cristo con il Padre dice en, usando il neutro, perché lì è un’unità di natura; mentre qui invece è unità col Cristo: noi siamo assunti da lui per essere in qualche modo personificati in lui.

Leone Magno diceva perciò: "Il Figlio di Dio ha assunto la natura umana con una unione così intima da essere l’unico ed identico Cristo non soltanto in Colui che è il primogenito di ogni creatura, ma anche in tutti i suoi santi. Per cui tutti siamo l’unico e identico Cristo"

Questo è lo sbocco ultimo che il cristianesimo da alla scoperta del soggetto da parte dei greci. Ma ciò è possibile realizzarlo soltanto nello Spirito. Se io dovessi dire qual è la lacuna più grande dell’Occidente, direi che è l’assenza culturale dello Spirito. Siamo stati una cultura del logos che poi è diventata logica, e piano piano logica astratta, come ci insegna la filosofia analitica oggi, per esempio.

Qui c’è tra l’altro, secondo me, la principale radice dell’ateismo. Plutarco diceva "gli dèi sono morti". Ed un secolo e mezzo fa Schiller in una stupenda poesia ricorda con nostalgia il mondo antico, quando erano gli dèi che facevano muovere il sole, la terra, gli astri, mentre adesso – diceva lui – gli dèi sono scomparsi, sono rimaste delle masse inerti che si muovono secondo leggi meccaniche. Il mondo è stato svuotato degli dèi. E dice: per annunciarne uno abbiamo dovuto sacrificarne molti.

Ecco, questa è la denuncia della tragedia che di fatto è accaduta. Ma il cristianesimo non vuole sostituire i molti con l’uno, ma condurre i molti alla Trinità. Gesù ci ha aperto l’Uno della Trinità. È questo che manca alla cultura dell’Occidente, ed è sicuramente quello a cui Dio ci sta attirando anche attraverso la "notte oscura epocale" della fede a dimensione collettiva (è ancora un’espressione di Giovanni Paolo II) che stiamo vivendo: bisogna che il Verbo di Dio e in lui lo Spirito e il Padre penetrino dentro le nostre categorie culturali.

3. Nuova cultura:
un pensare trinitario

Qual è stato, dunque, il dramma radicale dell’Occidente? Che il soggetto, conquista provvidenziale e irreversibile dell’umanità, si assolutizza, si pone fuori di Dio, interrogandosi su di lui "dal di fuori": Dio da mistero diventa problema, il logos diventa preda delle parole umane le quali prendono la mano all’uomo e finiscono per consumarlo, perché non sono più la Parola che vive nell’uomo.

Però come tutte le "notti oscure", se da una parte costituiscono un esito tragico in una privazione di senso (l’assenza di senso è la grande prova della cultura postmoderna), allo stesso tempo preludono alla maturazione dei germi di una conoscenza e di un rapporto con Dio di tipo più profondo e diverso.

Adesso una domanda molto concreta: abbiamo capito che posto ha la Trinità nel nostro modo di dialogare e di pensare?

Questo è il punto.

La cultura idealistica dall’800 in poi ha provato a rispondere a questa domanda attraverso qualche genio che ne aveva intuito acutamente l’importanza, come Hegel o Schelling, ma con risultati per certi versi fallimentari, per cui ci si è arrestati. In campo cattolico Rosmini ha cercato di dialogare con questa cultura, ma il corpo ecclesiale non era ancora maturo per capirlo.

Oggi la sfida e la chance che ci attendono è lasciare irrompere lo Spirito Santo nella nostra cultura. Cosa significa? La fonte attraverso la quale irrompe lo Spirito è Cristo, in modo particolare attraverso la grande piaga del suo abbandono. "Era necessario" che il Cristo si facesse questo vuoto per poter dare lo Spirito all’umanità. Allora il dono-progetto a cui siamo chiamati è quello di avere una presenza di Cristo tale fra noi, che anche nel fare cultura in tutti i suoi ambiti, possiamo "essere Cristo", usufruire delle categorie che lui porta e che ci dona nello Spirito.

Nella prima lettera ai Corinzi, Paolo, con un coraggio e lucidità che solo lo Spirito gli poteva dare, afferma: "noi abbiamo la mente (il nous) di Cristo" (2, 16). Non dice "io", dice "noi". Dobbiamo scoprire prima di tutto nella vita, e poi nel pensiero – perché il pensiero segue sempre la vita – un tipo di pensare, una cultura, che sia pericoretica come la vita della Trinità.

Noi crediamo, in fondo, che il pensiero sia un fatto squisitamente personale, soggettivo: sono io che penso; nel migliore dei casi, mi apro, accolgo il messaggio dall’esterno, ma in fondo me lo gestisco dentro di me. A che mi serve l’altro? Tutt’al più a comunicargli quello che ho pensato, o a darmi qualche nuova informazione che arricchisca le mie conoscenze.

Invece, pensare trinitariamente significa che lo Spirito ci fa uno in Cristo, ci fa Cristo, facendoci acquistare il nous di Cristo comunitariamente e personalmente, per esclamare, con tutta la nostra vita ed il nostro pensiero: Abba, Padre! Questa è la realtà che bisognerà capire e vivere, per venir fuori da questa impasse nella quale ci troviamo.

Pericoreticità vuol dire, tra l’altro, che nella Trinità ognuno è se stesso e compie le sue operazioni negli altri Due. Anche noi dobbiamo scoprire – nel nostro modo di fare cultura, di pensare insieme, di dialogare nella ricerca della verità – questo tipo di pericoreticità: io sono io in te, tu sei tu in me.

È quella realtà mistica con profonde conseguenze culturali, che Chiara Lubich ha denominato, coniando un termine nuovo, trinitizzazione. Significa che ognuno è se stesso esprimendo la totalità, o con altre parole, ciascuno che accoglie in sé l’altro lo restituisce a lui con se stesso in un rapporto di reciprocità.

È una rivoluzione culturale: l’atto del pensare autentico nel quale si rivela e manifesta il nous di Cristo io ce l’ho in voi e voi in me. Quindi scoprire un pensiero (anche quando dobbiamo progettare delle attività, pastorali, sociali, ecc.), che non si arresta in me, che parte da me, sì, ma che mi viene espropriato nel dono che ne faccio all’altro, il quale lo fa suo nell’ascolto totale e me lo restituisce arricchito di sé. Questo modo di lavorare e di pensare è un’icona della dinamica che costituisce la vita stessa della Trinità.

Acquisire questa coscienza trinitaria, dell’alterità nella ipseità, cioè capire che io sono io se sono costituito dall’altro, altrimenti senza il dono reciproco non sono io, non sono persona nel Cristo e nello Spirito Santo. È questa secondo me la grossa novità dalla quale siamo sfidati, la novità che culturalmente dobbiamo proporre, facendone innanzitutto l’esperienza fra di noi. La cosiddetta postmodernità svelerà allora nel suo tormento, persino nei suoi fallimenti, tutta la vita nuova che sta maturando in essa; e si potranno recuperare tutte quelle perle che sono state messe in luce nel corso di questi secoli dalla sofferenza di tanti.

 

Giuseppe Maria Zanghì