Criteri utili per ogni dialogo interreligioso e per lo specifico dialogo ebraico-cristiano

 

Quale rapporto con gli ebrei?

di Joseph Sievers

 

"Quali cose non bisogna mai dire ad un ebreo per non ferire la sua sensibilità? E quali gli elementi utili al dialogo?". Con queste domande in cuore sono andato ad intervistare una delle persone attualmente più competenti in questo campo. Le risposte hanno poi spaziato su tematiche più ampie in una conversazione che ci sembra particolarmente utile.

L’esperienza personale

GEN’S: Quali circostanze ti hanno portato al dialogo con gli ebrei?

Come tedesco ho sentito fin da piccolo, non dico una colpa – non ero ancora nato quando sono avvenuti i fatti tragici della Shoah – ma una forte responsabilità, perché questo tristissimo fenomeno non si ripetesse mai più nella storia.

Per questo a sedici anni sono andato da solo a visitare il campo di concentramento di Bergen - Belsen, dove sono morti migliaia di ebrei, tra cui Anna Frank.

Durante il liceo ho avuto la fortuna di studiare l’ebraico biblico e il mio professore era un pastore protestante, che apparteneva all’Amicizia ebraico-cristiana locale, ed ho partecipato a qualche raduno. Naturalmente non immaginavo allora che la principale attività della mia vita sarebbe dedicata al dialogo con il mondo ebraico.

Divenuto focolarino e avendo terminato una prima fase di studio dell’ebraico biblico, sono stato incoraggiato a continuare. Ho cominciato così gli studi all’università di Vienna, dove prima ho studiato le lingue ebraica ed aramaica e poi la storia, la letteratura, la cultura ebraica. Questo mi ha entusiasmato e mi ha preso il cuore, anche se non ho avuto in questi primi anni di studio molte occasioni di rapporti diretti con gli ebrei.

Poi mi sono trasferito a New York, dove ci sono circa due milioni di ebrei. Ho continuato i miei studi ed ho avuto compagni e professori ebrei ed altre conoscenze.

In seguito ho insegnato storia antica in una delle università della città ed avevo anche qualche studente ebreo. Una di questi, una signora sulla sessantina, un giorno mi ha chiesto se ero disposto ad incontrare un suo conoscente, un signore che era sopravvissuto alla Shoah. Era venuto da Vienna ed era stato giornalista e scrittore prima della guerra, poi era andato a finire in vari campi di concentramento, ma era riuscito a fuggire attraverso la Spagna arrivando negli Stati Uniti.

In tutte queste vicende aveva perso i suoi manoscritti. Aveva scritto in tedesco tante poesie prima della guerra e gli erano rimaste nella mente, però da trent’anni non aveva più voluto parlare quella lingua. Ora desiderava recitare alcune di queste sue poesie a qualcuno che le capisse per valutare se si potevano eventualmente pubblicare.

Sono andato da lui una sera e per un’ora mi ha recitato le sue poesie: era la prima volta dopo il ’45 che parlava con un tedesco. Le poesie erano belle e profonde. In ringraziamento mi ha invitato ad assistere con lui ad un concerto. Sono seguiti altri incontri a casa sua o in ristorante ed è nata tra noi un’amicizia molto profonda. Diceva che attraverso di me aveva ritrovato la speranza nell’umanità.

Egli aveva perso la fiducia in Dio. La mia impressione è che egli non aveva perso la fede, perché era profondamente religioso, ma non riusciva a conciliare la realtà di Dio con quello che egli aveva vissuto. Era un po’ come Primo Levi che in una delle sue ultime interviste prima della sua scomparsa diceva che desiderava credere ma si chiedeva: "Se esiste Auschwitz, può esistere Dio?".

Quando sono stato trasferito a Los Angeles, tornavo ogni tanto a New York. Una volta ho saputo che egli era in ospedale. Sono andato a trovarlo. Era gravemente ammalato, ma mi ha riconosciuto. Mentre andavo all’aeroporto per tornare a Los Angeles sono di nuovo passato da lui. Si era aggravato ed è morto proprio in quel momento. Sono stato pregato di avvisare la famiglia. Ho chiamato la moglie e lei mi ha detto: "Sono contenta che tu eri presente, perché sei il suo migliore amico". Ho cercato di dire le preghiere ebraiche che si recitano nella morte di un parente. Ero disposto anche a fermarmi per i funerali, ma la moglie mi disse: "Hai fatto la tua parte e puoi partire tranquillo". Sentivo che era stata conclusa un’esperienza di dodici anni, ma quella partenza non era una separazione definitiva bensì un arrivederci.

GEN’S: Dagli USA sei venuto a Roma. Hai avuto qui altri contatti?

Sono qui da dieci anni. Nel campo accademico insegno storia ebraica al Pontificio Istituto Biblico e il mio insegnamento è diretto principalmente a futuri professori di Sacra Scrittura in seminari cattolici e mi sembra importante dar loro alcune idee sull’ebraismo come una realtà viva. Poi sono spesso invitato dall’Amicizia ebraico-cristiana a fare conferenze su argomenti di storia ebraica e di letteratura ebraica antica. Collaboro anche con il centro Sidic (Service international de documentation judéo-chrétienne). È un centro sorto nel ’65 subito dopo il concilio per incrementare da parte cattolica quello che era stato suggerito da Nostra Aetate ed è gestito da una congregazione religiosa, le Suore di Sion, che hanno come carisma il dialogo ebraico-cristiano. Collaboro con loro in molte attività. Abbiamo organizzato, per esempio, incontri per professori ebrei e cristiani che si occupano di ebraismo; convegni internazionali come quello sulla questione: "Bene e male dopo Auschwitz, implicazioni etiche oggi per ebrei e cristiani"; nel convegno erano presenti 600 partecipanti con trenta relatori cristiani ed ebrei.

Poi ci sono rapporti anche a livello personale con vari membri della comunità di Roma ed anche con ebrei conosciuti in varie occasioni negli Usa, in Israele e in altre parti. Con alcuni sono anche molto frequenti.

Un dialogo utile ad ambo le parti

GEN’S: Puoi raccontarci una tua esperienza particolarmente significativa?

Nell’89-’90 sono passati qui a Roma per alcuni mesi molti ebrei che emigravano dall’Unione Sovietica. In un periodo ce n’erano 22.000 solo nella provincia romana, dove la comunità ebraica abituale è di circa 15.000 persone. Venivano seguiti da varie organizzazioni ebraiche che aiutavano per questioni legali e anche per un minimo sostegno materiale. Essi sentivano molto la mancanza di rapporti personali e allora ho potuto mettere in contatto alcuni di loro con un gruppo di giovani della comunità ebraica di Roma; ho collaborato per fare con l’aiuto della Caritas una scuola in una parrocchia cattolica a Torvaianica, vicino a Roma, per i bambini di queste famiglie in collaborazione con una organizzazione ebraica che curava un programma di studi e pagava gl’insegnanti che erano ebrei russi. Ho potuto fare un po’ da tramite per mettere insieme tutte queste istituzioni e sono nati rapporti personali molto profondi e molto belli che continuano con vari di loro. Quello che più mi ha impressionato è che in qualche modo potevo aiutare alcuni di loro a ritrovare la loro identità ebraica.

Mi chiedevano sull’ebraismo, perché durante il comunismo in Russia era vietato sotto pena di carcere persino insegnare la lingua ebraica, immaginiamo l’ebraismo e la religione ebraica. Non sapevano perciò quasi nulla. Ho potuto insegnare qualcosa dell’ebraismo ad ebrei e loro lo hanno apprezzato molto. Ho visto che per poter dialogare bisogna avere la propria identità e il dialogo può aiutare a rafforzare la mia identità come cristiano e la loro come ebrei. Ricordo una ragazza che allora aveva dieci anni e che è andata poi in Australia dove ha frequentato una scuola ebraica. Ho messo anche la sua famiglia a contatto col focolare. Lei in questa scuola ha sentito parlare delle difficoltà esistenti tra ebrei e cristiani e ha detto. "Ma io ho conosciuto dei cristiani diversi". Un dialogo, dunque, che aiuti a capire gli altri e se stessi più a fondo.

Anche a me cristiano e focolarino ha dato molto. Ho scoperto, per esempio, che nell’ebraismo le domande sono più importanti delle risposte, mentre noi spesso vogliamo subito le risposte, a volte prefabbricate. Bisogna saper convivere con le domande, come quella di Cristo sulla croce: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Anche le risposte, poi, non sempre cancellano le domande.

Alcuni di loro hanno voluto vedere il Papa. Abbiamo chiesto il benestare del rabbino capo, ci siamo messi d’accordo con i responsabili del Movimento dei focolari perché ci aiutassero e con un gruppo di trenta ebrei siamo andati in udienza. Sono stati accolti in prima fila nell’Aula delle udienze e Giovanni Paolo II ha parlato e stretto la mano a molti di loro. Alcuni dicevano che era stata la cosa più bella della loro vita; altri che era stata un’esperienza spirituale profonda. Dopo alcuni anni ho notato in alcune delle loro case la foto col Papa ben in evidenza.

Dopo l’udienza, con la collaborazione delle volontarie del Movimento dei focolari e di altri, abbiamo organizzato un pranzo vegetariano secondo le norme ebraiche, anche se tanti di loro non conoscevano tali regole, ma noi volevamo osservarle per loro e l’hanno apprezzato. Sono tutte occasioni per un dialogo basato sulla vita concreta che porta ad una conoscenza reciproca1.

GEN’S: Qual è stato il tuo iter accademico?

Quando sono arrivato a Roma ho insegnato lingue a Sant’Anselmo, all’Istituto Liturgico. In seguito i responsabili, sapendo che la mia specialità è l’ebraismo, dopo un po’ mi hanno chiesto se potevo fare un corso di liturgia ebraica. L’ho fatto per alcuni anni.

I miei impegni mi hanno costretto a lasciare questo lavoro, ma prima ho chiesto se potevo invitare un rabbino a fare delle lezioni. Mi è stato concesso; non solo ma hanno chiesto che organizzassi un convegno sulla liturgia ebraica. L’abbiamo fatto sul sabato, in parte nella sinagoga e in parte a Sant’Anselmo. Abbiamo invitato alcuni rabbini ed altri ebrei, uomini e donne, a parlare del sabato ebraico. Il convegno è stato molto seguito: gli studenti di Sant’Anselmo erano un centinaio ma i convegnisti erano duecento. Non potendo continuare a dare queste lezioni, ho trovato un giovane rabbino che mi ha sostituito.

Similmente al Teresianum, un istituto di spiritualità, mi avevano chiesto se potevo fare un corso di spiritualità ebraica. Ho accettato e l’ho fatto per alcuni anni. Poi quando i miei impegni all’Istituto Biblico non me lo permettevano più, ho trovato un altro rabbino che ha continuato il mio corso.

Poi ho insegnato per breve tempo al Laterano ed anche a Loppiano, la cittadella del Movimento dei focolari, dove si formano i futuri dirigenti del Movimento.

L’atteggiamento fondamentale

GEN’S: Con quale atteggiamento porti avanti il dialogo?

Sia come studioso di ebraismo sia come persona che cerca di vivere la spiritualità dell’unità che vuol dire appunto farsi uno, per me la prima cosa è cercare di ascoltare, capire a fondo dove sono i dolori dell’altro, le sue preoccupazioni. Per es. quando mi hanno chiesto al Teresianum di fare quel corso sulla spiritualità ebraica, cui ho accennato, mi son detto: "Io conosco qualcosa della spiritualità ebraica del passato, ma del presente cosa posso dire? Voglio dire qualcosa del presente, perché l’ebraismo è una realtà viva".

So di gruppi chassidici molto impegnati, con una profonda spiritualità ma separati sia da altri ebrei che dal mondo circostante. Avevo sentito di un gruppo che si chiama Movimento Havurah, che vuol dire amicizia, anzi di più, essere compagni di viaggio, di lavoro, di studi.

Ho cercato di conoscere meglio questo Movimento, partecipando al loro convegno annuale estivo, sapendo che è tanto aperto e attento alla dimensione spirituale. Include professionisti impegnati in vari ambiti ed anche artisti. Mi hanno accettato volentieri affidandomi anche qualche work-shop.

Ero l’unico cristiano fra più di trecento ebrei. È stata una settimana molto intensa di vita insieme. Ero andato soprattutto per imparare, ma loro sono stati molto attenti a cosa faceva questo cristiano ed hanno voluto sapere anche delle mie radici spirituali.

Ho partecipato ormai già quattro volte e loro mi hanno chiesto di fare un corso completo di varie lezioni per un loro gruppo. Ultimamente ho fatto un corso sugli scritti di Qumran.

Mentre cercavo di conoscere le loro basi spirituali, anch’essi hanno voluto conoscere a fondo le mie e mi hanno invitato a parlare del focolare. Qualcuno ha voluto partecipare alla nostra vita e dice che vuol "remare nella stessa barca".

Sbagli da evitare

GEN’S: Spesso per mancata convivenza non ci conosciamo e commettiamo delle gaffe nei nostri rapporti con gli ebrei. Potresti aiutarci ad evitare almeno alcuni dei possibili comportamenti sbagliati nei loro riguardi?

Cominciamo dai pregiudizi. Ho visto recentemente il lavoro di uno studente abbastanza brillante che tratta un tema riguardante l’ebraismo all’origine del cristianesimo. Egli afferma che poco prima di Gesù c’era nel popolo ebraico un certo spirito religioso favorito e alimentato ipocritamente sia dal legalismo astratto e storicamente arido e improduttivo dei farisei, sia da altre cose. Questo mostra come in ambiente cristiano siano ancora molto diffusi i pregiudizi sull’ebraismo al tempo di Gesù. Esso viene visto solo come un fatto di legalismo, dove i farisei sono ipocriti, dove Gesù, staccandosi completamente dall’ebraismo, ha portato una novità assoluta. Certamente l’insegnamento di Gesù porta elementi di novità forti, ma è radicato nell’Antico Testamento ed anche nell’ebraismo del suo tempo, in quello postbiblico, non solo in quello veterotestamentario. Se Gesù parla del grande comandamento dell’amore, non fa altro che citare due versetti dell’Antico Testamento. Anche in altri casi il Nuovo Testamento riprende e sottolinea aspetti dell’Antico.

Poi i farisei vengono sempre visti come nemici di Gesù, non si pensa che Paolo era fiero di essere un fariseo. Secondo gli Atti degli Apostoli addirittura egli dice: "Io sono fariseo" e non: "Io ero fariseo". Si dimentica che tra i farisei menzionati nel Nuovo Testamento c’è Nicodemo che forse non ha capito bene tutto, però ha difeso Gesù nel Sinedrio, è stato presente alla sepoltura di Gesù secondo il Vangelo di Giovanni. Quindi è una figura positiva di fariseo. Gamaliele, sempre negli Atti – tra gli studiosi si discute se sia stato o no maestro di Paolo – viene presentato come una persona retta. Egli dice nel Sinedrio riguardo agli apostoli: "Se questo viene da Dio non siamo noi che dobbiamo metterci contro Dio; e se non è da Dio cadrà da sé".

Se c’è stata una polemica fra Gesù e certi farisei, non bisogna per questo condannare tutti i farisei e tutto l’ebraismo che è venuto da loro. È uno dei punti dove ci sono molte generalizzazioni.

Troppo spesso, inoltre, si pensa l’ebraismo come legge e il cristianesimo come amore. È vero che noi vediamo nell’amore l’elemento essenziale del cristianesimo, ma come l’hanno vissuto i cristiani? Hanno amato, per esempio, gli ebrei? Si sono amati fra di loro? Veramente tra francesi e tedeschi, fra olandesi e inglesi, fra protestanti e cattolici, c’è stato sempre l’amore? Dire che il cristianesimo è amore è un ideale. Nell’ebraismo c’è un’enfasi sulla Torah, ma essa non vuol dire soltanto legge, vuol dire insegnamento. Parte della Torah è il libro della Genesi dove la storia della creazione e quella dei Patriarchi non ha niente a che fare con legge, eppure costituisce l’elemento fondante di Israele. Anche nell’Esodo l’elemento centrale è la liberazione dalla schiavitù. Poi ci sono anche i dieci comandamenti che rimangono fondamentali per la convivenza umana e per la comunione con Dio.

Dire ebraismo uguale legge è una riduzione spaventosa di una realtà molto più ricca e forte, di una vita spirituale profonda, dove vivere la volontà di Dio in ogni minimo particolare può essere anche visto a volte in termini di legge di Dio che arriva a dettagli. Tra gli ebrei si parla non solo di dieci comandamenti bensì di 613, ma questi sarebbero aiuti per vivere la volontà di Dio in ogni momento. Una spiegazione rabbinica dice che il numero 613 è composto da 365+248. Il 365 per indicare tutti i giorni dell’anno e il 248 per dire tutte le parti del corpo umano secondo l’anatomia antica. Il significato è che bisogna fare la volontà di Dio sempre e con tutte le nostre forze. Poi naturalmente come ognuno vive tutto questo è un’altra questione, ma questo vale anche per noi cristiani.

Quindi vedere i farisei, la legge, l’ebraismo solo in chiave legalista e negativa e il cristianesimo tutto nuovo, tutto buono, è una visione sbagliata, ma purtroppo molto diffusa tra i cristiani.

Una domanda che non serve

Quando parlo di ebraismo i cristiani mi pongono sempre questa domanda: "Cosa pensano gli ebrei di Gesù?". Io resto un po’ deluso, perché penso che non deve essere questa la nostra prima domanda. Certo è interessante per noi, ma non ci aiuta ad iniziare un dialogo. Solo quando questo è avviato può venir fuori tale domanda. Prima dobbiamo cercare di capire cosa è importante per loro, come si definiscono, quali sono le loro preoccupazioni, non cosa è importante per noi. Per noi Gesù è centrale, ma per molti ebrei non è rilevante, anzi qualcuno dice che è come chiedere ad un cristiano cosa pensi di Maometto. Forse oggi riusciamo a conoscere meglio e ad apprezzare positivamente il fondatore dell’Islam, ma certamente non è una figura centrale per i cristiani. Questa domanda su Gesù, che poi trova risposte molto diverse, almeno all’inizio non è da farsi.

Piccoli ma significativi atti di cortesia

È molto apprezzato dagli ebrei se facciamo gli auguri per le loro feste che ovviamente non seguono l’anno gregoriano, ma l’anno ebraico che comincia a settembre-ottobre. Possiamo fare gli auguri di buon anno, di buona pasqua, anche di felice Hanukà (la festa della ridedicazione del Tempio) in novembre-dicembre, che però non è così importante come la pasqua. Evitare di dire "felice Kippur", che è il giorno del gran perdono, la festa più sacra, ma di digiuno e di riflessione e non una festa gioiosa.

Recentemente ero al telefono con un amico ebreo il sabato sera dopo la fine del sabato ebraico, poco dopo il tramonto. Nel sabato non chiamo al telefono, perché anche una chiamata telefonica, qualsiasi cosa che accende un fuoco o un apparecchio elettrico è considerato lavoro e quindi da evitare. Io faccio questo anche con ebrei non osservanti o di cui non conosco bene il livello di osservanza, per rispettare la loro identità.

Quel sabato sera, alla fine della telefonata, egli mi ha augurato buona domenica ed io ho detto "altrettanto!". Egli si è messo a ridere. Ho capito allora che per lui dire "buona domenica" era proprio un entrare nel mondo cristiano, era fare un augurio religioso cristiano, non era soltanto augurare un buon week-end. È stato per me motivo di riflessione: l’altro può aiutarmi ad apprezzare di più la mia realtà religiosa e ad evitare delle gaffe.

Le terminologie problematiche

Il termine Antico Testamento a volte è visto come un problema, soprattutto se si dice Vecchio Testamento, perché "vecchio" può voler dire superato. Per noi cristiani non è così, ma può sembrarlo per gli ebrei che non hanno un Nuovo Testamento. Qualcuno suggerisce il termine "Primo Testamento". Mi sembra una proposta intelligente ed utile, perché sottolinea che questo Testamento non è sorpassato ma rimane.

Quando gli ebrei parlano di Torah in senso stretto si riferiscono ai primi cinque libri del Pentateuco, mentre in senso più largo intendono la Rivelazione che si trova sia nella Bibbia che nella tradizione rabbinica. Riguardo al canone dell’Antico Testamento, quello ebraico è leggermente più ristretto del nostro canone, ma identico a quello protestante. Viene chiamato Tanakh dall’abbreviazione delle parole Torah, Nebi’im (i Profeti) e Ketubim (altri scritti come i salmi e i libri sapienziali).

Il dialogo lungo la storia

GEN’S: Cosa puoi dirci riguardo alla storia del dialogo ebraico-cristiano?

Naturalmente ci sono stati rapporti tra ebrei e cristiani durante questi duemila anni. Ricordiamo Girolamo che studiava l’ebraico con dei rabbini, Origene che senz’altro attingeva all’esegesi rabbinica, san Tommaso d’Aquino che citava Maimonide, ecc. Nel Medioevo ci sono state delle dispute, che avevano ben poco a vedere col dialogo, perché si partiva già dal presupposto che la parte cristiana era vincente e, se gli ebrei non si convertivano, potevano esserci per loro conseguenze gravi.

Dopo la Shoah

Ci sono stati sempre contatti individuali attraverso i secoli, ma per parlare di inizi di un dialogo in senso pieno bisogna arrivare a dopo la tragedia dell’Olocausto o, come si dice oggi, della Shoah. Solo allora c’è stato un inizio non solo di individui, ma di gruppi, anche se piccoli, di cristiani ed ebrei che si sono messi a dialogare per vedere come migliorare i rapporti, cosa fare da parte dei cristiani per evitare che succeda un’altra volta una simile tragedia. Essa è stata perpetrata da persone guidate da un’ideologia certamente non cristiana, ma che aveva delle radici o almeno dei pretesti per allacciarsi ad una lunga tradizione cristiana da Giovanni Crisostomo a Lutero ed altri, se non addirittura al Nuovo Testamento mal interpretato.

C’è stato un incontro in Svizzera nel 1947 a Seelisberg che ha riunito alcuni cristiani ed ebrei. Essi hanno preparato insieme dieci tesi riguardanti ciò a cui i cristiani bisognerebbe stessero attenti. È stato un primo inizio, seguito poi da qualche dichiarazione abbastanza timida, per esempio, da parte delle chiese protestanti olandesi.

C’è stata anche un’affermazione dei vescovi protestanti tedeschi, che hanno chiesto perdono per quello che era accaduto sotto il nazismo, senza però un riferimento esplicito alla tragedia della Shoah. Negli anni cinquanta fino agli inizi degli anni sessanta non si è parlato molto di questo problema.

Un passo importante è stato fatto dalla chiesa cattolica con la dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II. Essa è stata molto sofferta, è breve ed è nata dal desiderio di Giovanni XXIII di fare un documento su come evitare l’antisemitismo. Il Roncalli aveva avuto un incontro molto importante con uno storico ebreo francese, Jules Isaac, nel 1960.

Questo documento conciliare, che doveva trattare il problema dell’antisemitismo, si è esteso poi ai rapporti della chiesa cattolica con le religioni non cristiane. Da un piccolo seme è nato un documento che è diventato e rimane fondante per il dialogo interreligioso da parte della chiesa cattolica.

Nel numero quattro dice alcune cose fondamentali sull’ebraismo, affermando che quando la chiesa guarda al proprio mistero, cioè all’ecclesiologia, deve rendersi conto delle sue radici nella stirpe di Abramo. Quindi non è soltanto una questione ad extra, ma è anche una questione interna alla chiesa. Viene sottolineata la radice ebraica del cristianesimo: Gesù e gli stessi apostoli erano ebrei. Viene anche ricordato il fatto, che dovrebbe essere ovvio ma non lo è stato, che la responsabilità della morte di Gesù in croce ricade su tutti i peccatori che siamo tutti noi. Hanno collaborato Ponzio Pilato e alcuni ebrei, ma non tutti gli ebrei di allora, e soprattutto non hanno nessuna colpa gli ebrei venuti dopo.

Purtroppo in passato si diceva che gli ebrei sono un popolo deicida. Questa accusa, falsa da sempre, ora veniva rilevata come tale da un concilio. Poi è stato condannato, ma secondo alcuni non in maniera abbastanza esplicita, l’antisemitismo sviluppatosi lungo i secoli. L’antisemitismo è una parola sorta soltanto nel 1800, ma il fenomeno di odio e di persecuzione contro gli ebrei risale ad oltre duemila anni, perché comincia ancora prima del cristianesimo per poi appoggiarsi, in ambito cristiano, a motivazioni teologiche e assumere a volte forme violente durante il Medioevo. Nel 1800 arriva a prendere forme nazionaliste e razziste che evidentemente non hanno nulla di cristiano.

Nostra Aetate non è stato l’ultima parola sull’argomento. Ultimamente la Santa Sede ha pubblicato il documento Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah attraverso la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo.

I requisiti del dialogo

GEN’S: Finora, più che del dialogo, hai parlato dei suoi presupposti. Potresti accennare adesso ad altri elementi fondamentali?

Naturalmente il primo requisito è conoscere l’altro, per i cristiani è conoscere gli ebrei. Ovviamente questa conoscenza deve diventare reciproca. Ci vuole però un periodo di preparazione. Negli anni ’60, ’70 e ’80 noi cristiani ci siamo resi conto che dobbiamo conoscere meglio l’ebraismo.

È interessante notare che in genere, quando i cristiani si avvicinano al dialogo con gli ebrei, pensano di trattare questioni teologiche, mentre gli ebrei vogliono parlare di questioni storiche e di attualità. C’è quindi questa asimmetria nei punti di partenza del dialogo. Di questo bisogna essere consci.

Per i cristiani è fondamentale – lo dice anche Nostra Aetate – il rapporto con le fonti bibliche ed anche in certo modo extra-bibliche dell’ebraismo. Ma non è stato tanto frequente, almeno in molti ambienti, il rapporto personale di vita quotidiana a livello sociale con ebrei. In molti Paesi nei vari Continenti un cristiano non è che incontri ogni giorno un ebreo. Gli ebrei nel mondo sono appena 14 milioni di fronte a più di un miliardo di soli cattolici.

Per gli ebrei ortodossi il cristianesimo sembra spesso una deviazione dell’ebraismo o comunque uno sviluppo particolare che non ha nessuna influenza o quasi sulla religiosità ebraica, e quindi possono fare completamente a meno della teologia cristiana, ma poi in molti Paesi essi incontrano quotidianamente dei cristiani: sono i loro vicini, i compagni di studi, i datori di lavoro, ecc. Da qui il bisogno di trovare soluzioni pratiche ai problemi della convivenza, piuttosto che trattare questioni di teologia. Perciò noi cristiani dobbiamo recepire profondamente quello che duole loro, le loro domande di vita e di morte. Per molti ebrei che si avvicinano al dialogo la questione è come possiamo evitare l’antisemitismo, cosa è stato fatto in passato e cosa si può fare nel presente e nel futuro riguardo a questo tema, prima di arrivare a questioni come chi è Dio per noi, cosa è il messianismo, addirittura chi è Gesù Cristo per noi e per loro, ecc.

Da qualche parte invece si è già arrivati a questa fase di parlare insieme, per esempio, di questioni specificamente religiose. Sono stato ad un convegno in Germania alcuni anni fa sulla riconciliazione nella liturgia ebraica e in quella cristiana: è stato secondo me un tentativo ancora abbastanza timido di trovarsi per parlare su un tema religioso. Certamente aveva dei riflessi sulla storia, su come superare le difficoltà del passato. Questo tipo di incontri esiste anche negli USA e in altre parti, però penso che sia importante per noi cristiani non voler saltare la prima fase, quella di conoscere l’ebraismo e di recepire seriamente le domande che ci pone.

I passi già fatti

GEN’S: Sono stati fatti già dei passi verso una riconciliazione…

Alcuni mesi fa ebbi occasione di parlare a Buenos Aires con un responsabile, da parte di una organizzazione ebraica, per il dialogo interreligioso. Egli mi faceva notare quanti passi in avanti siano stati compiuti negli ultimi trent’anni: cose che allora nessuno poteva immaginare. Nostra Aetate è stato un documento senz’altro non perfetto: per es. non parla degli ebrei di oggi ma solo del periodo fino al Nuovo Testamento, tranne qualche accenno alle persecuzioni ed un suggerimento di conoscersi meglio e di dialogare.

Al tempo stesso questa persona osservava giustamente che oggi siamo andati ben oltre quello che era stato proposto in questo documento, che oltretutto era stato ridotto per farlo accettare a tutti o a quasi tutti i vescovi della chiesa cattolica, compresi quelli del Medio Oriente e di altre zone, dove questa questione era vista diversamente.

Certamente sono stati fatti tanti passi, ma non bisogna illudersi, perché sono stati attuati fra una minoranza di cristiani ed una minoranza di ebrei. Qualche cosa sta entrando tra i cristiani, ma ci sono ancora tratti di atteggiamenti antigiudaici, a volte addirittura antisemitici, anche se nessuno può ormai dire che noi, essendo cristiani, siamo perciò stesso antisemiti. Questo non è più possibile. L’atteggiamento è cambiato molto e se ne vedono i riflessi anche nei libri scolastici. Questo è molto positivo, ma non è ancora tutto fatto.

Ho visto uno studio sull’ebraismo nell’educazione cattolica negli USA: vi si notano i progressi, ma anche le lacune e questo in un Paese dove, essendoci una comunità ebraica molto grande, ci sono dei rapporti più diretti e più frequenti e quindi c’è un’attenzione maggiore a questo problema.

In Argentina ho conosciuto uno dei responsabili di un gruppo di giovani sionisti, che in qualche modo pensano eventualmente di andare in Israele o l’hanno molto a cuore. Non è un gruppo di dialogo, ma un gruppo di quelli che sono vicini ai Kibbutz, a quelle comunità che hanno almeno in qualche modo la proprietà in comune ed ideali molto forti, sociali, pionieristici. Essi vogliono andare alla cittadella di O’Higgins per conoscere l’esperienza del Movimento dei focolari, in cui scorgono delle analogie a quella del Kibbutz. È una cosa abbastanza rara che un gruppo di giovani ebrei desiderino mettersi in contatto con giovani cristiani per dialogare su questioni che possono avere in comune, come uno stile di vita sociale.

Evidentemente, ci sono stati molti passi, piccoli e grandi, tra cui momenti di incontro profondo, ma anche momenti di rinnovate tensioni e incomprensioni. Il dialogo interreligioso, ed anche quello ebraico-cristiano, non si fa soltanto fra rappresentanti ufficiali o fra specialisti, ma per molti è diventato anche un fatto della vita di ogni giorno. A volte si tratta semplicemente di incontri personali, a volte di avvenimenti organizzati da associazioni, come l’Amicizia ebraico-cristiana, che operano ormai in molti Paesi. Altre volte sono iniziative di gruppi come la Comunità di S. Egidio, le Suore di Sion, o il Movimento dei focolari, insieme a interlocutori ebrei. Spesso l’iniziativa parte anche da gruppi ebraici. Se in questi anni il dialogo interreligioso è cresciuto come un ulivo ed ha messo radici profonde, sia fra cristiani che fra ebrei, rimane pur sempre un alberello molto fragile, bisognoso di costanti attenzioni.

a cura di Enrique Cambón