Flash di vita

Il coraggio
di pentirsi

Raccontiamo qualche esperienza di un parroco di un vasto municipio dell’America Latina con circa quarantamila abitanti; una regione segnata come altre da enormi problemi sociali come la disoccupazione, la guerriglia, il narcotraffico, le malattie endemiche. Qui la vita umana è sempre appesa ad un filo e nessuno gli dà valore, soprattutto se si tratta di poveri indifesi. A volte una lite da nulla si conclude facilmente con la morte.

Così, per esempio, un giorno una macchina si è fermata in una strada stretta ed un’altra sopraggiunta subito dopo ha reclamato il passaggio libero. L’autista della prima macchina è andato dall’altro per chiedere di attendere appena un momento e come risposta ha ricevuto una pallottola in testa. Pensare di ricorrere alla giustizia è utopia sia per mancanza di mezzi sia perché in genere anche i giudici sono dalla parte del più forte.

Quando il sacerdote – di cui per prudenza omettiamo il nome – è giunto in questa parrocchia, è rimasto esterrefatto nel dover celebrare ogni settimana tre-quattro funerali di persone assassinate. Ha cercato di farsi carico di tanti dolori, amando tutti e inculcando il rispetto per la vita. L’ultima volta, durante un funerale, pensando che forse l’assassino era presente in chiesa, ha sentito una grande pena per lui.

Dentro di sé ha pensato: «Forse ha ucciso per fare un favore a qualcuno che gli dà da mangiare, forse si è lasciato prendere dall’ira, ma in fondo al cuore ogni creatura umana, anche se abbrutita dal male, conserva sempre qualcosa di buono».

Nell’omelia ha parlato di Dio che ama ognuno di noi immensamente e ci viene a trovare anche nell’abisso delle nostre iniquità per redimerci e donarci una vita nuova. E mentre gli innocenti sono invitati al perdono, i peccatori sono spronati alla conversione per poterci poi ritrovare tutti fratelli e costruire insieme una convivenza basata non più sull’odio ma sull’amore.

Nel venerdì santo, dopo quattordici ore di confessionale, il parroco stava per tornarsene a casa quando gli si è avvicinato un uomo. «Padre – gli ha detto – io sono il più grande peccatore del mondo....». Infatti aveva ucciso più di cento persone. Suo mestiere era “compiere i servizi” che gli venivano affidati in cambio del pane quotidiano.

Il sacerdote ha ascoltato lungamente la triste storia di una vita, una volta innocente, trascinata poi nel baratro dei delitti più crudeli per non aver avuto la forza di resistere al primo spargimento di sangue umano. E il peccatore non più incallito, ha continuato tra le lagrime del pentimento: «Dopo aver ascoltato la sua predica in quel funerale, Dio mi ha toccato il cuore ed ho capito che egli ama anche me. Da quel momento non ho più ucciso e sono qui per promettergli che col suo aiuto cercherò altre vie per guadagnare il cibo per la mia famiglia».

Una decisione eroica, perché chi torna indietro in questo tristissimo mestiere sa di arrischiare la propria esistenza.

E. P.

 

 

Un abisso di luce

Dopo una giornata intensa, alle 20.30, finalmente un po’ di calma. Suona il campanello e si presenta una signora quarantenne di origine polacca, tutta sconvolta e un po’ ubriaca. Convive con un uomo più giovane di lei, gravemente ammalato di tumore al pancreas con forti dolori.

Mi chiede angosciata di pregare per quest’uomo, poi s’inginocchia davanti ad un crocifisso e all’immagine della Vergine e prega con grande intensità. Chiede che i dolori di questa persona cara ricadano su di lei, chiede poi che egli possa avere la fede in Dio e che è pronta a privarsi della sua fede perché sia data a lui. Si esprime con accenti forti, con passione, con lacrime.

L’amore di questa donna ha le qualità di quello di Gesù abbandonato, che prende su di sé il nostro dolore e si priva anche dell’unione con Dio per noi. In questa povera creatura da tutti disprezzata, che ha avuto una vita difficile fin dall’infanzia (papà alcoolizzato, mamma morta giovane, tentativo di suicidio) ho intravisto un abisso di luce, frutto di tanto patire.

Il giorno seguente la invito ad un incontro di preghiera e l’affido ad un gruppo che l’accoglie e l’aiuta. Lei non ha mai frequentato la chiesa, perché si sentiva come giudicata e respinta dalla gente. Mi diceva che era venuta da me in canonica spinta da Qualcuno, non dalla sua volontà.

S. T.

 

 

 

 

Una sfida
per i seminari

Le tre persone addette in quei giorni alla cucina – una coppia di sposati ed una signora che donavano liberamente il loro tempo – ovviamente non avevano fatto il ritiro con noi, avevano solo partecipato alle nostre celebrazioni eucaristiche, ma alla fine anche loro hanno voluto manifestare le proprie impressioni. Una di loro ha detto: «Da anni coordino lavori pastorali ed ho preso parte a tanti incontri, ma questo è stato il più bel ritiro della mia vita». Le sue parole sono state subito confermate anche dagli altri due. Non avevano ascoltato nessuna conferenza, ma avevano percepito qualcosa che aveva toccato e riempito il loro cuore.

L’episodio è accaduto durante un ritiro che ho predicato ai seminaristi che iniziavano il primo anno nel seminario maggiore della diocesi di Campo Mourão nello stato del Paraná in Brasile. Vi ero andato con la disposizione di mettermi al servizio di quei giovani, facendomi guidare dalla Parola biblica che cercavo di vivere in quel mese: «Convertitevi e credete al vangelo». Naturalmente avevo preparato con cura quello che pensavo di dire ed avevo chiesto l’unità e la preghiera di altre persone.

Il ritiro è stato tenuto in una casa di formazione, un luogo molto accogliente. Ho cercato fin dall’inizio di costruire con i giovani un rapporto di comunione fraterna. Provenivano da varie località e si trovavano insieme per la prima volta, essendo all’inizio della loro vita di seminario. Li ho spronati perciò a presentarsi uno per uno e a raccontare qualcosa della loro origine familiare, della loro vocazione e delle loro aspettative.

Mi sono reso conto di trovarmi di fronte ad un terreno molto disponibile a lasciarsi lavorare da Dio. Provenivano tutti da famiglie semplici ma cristiane, avevano un grande desiderio di seguire Gesù e cercavano nel seminario la possibilità di poter fare un’esperienza di vita comunitaria. Non mancava però qualche aspetto negativo, come una certa insicurezza circa gli studi, sentendosi poco preparati in questo campo.

Anch’io ho aperto il mio cuore, raccontando la mia esperienza personale dalle mie origini familiari fino a quel momento. Ho messo in luce soprattutto l’importanza della scelta di Dio per vivere un sacerdozio mariano e per non attaccarsi all’idea del sacerdozio come posizione d’onore nella comunità. Poi ho fatto presenti alcune condizioni necessarie per il buon esito del ritiro. I giovani hanno colto tutto con grande attenzione e interesse.

Dopo aver creato questo clima di famiglia, mi sono fatto aiutare da loro nel preparare il programma e nell’organizzare le varie attività. Ognuno ha voluto assumere qualche compito per il buon funzionamento dell’incontro.

Nei tre giorni e mezzo ho svolto temi fondamentali della spiritualità dell’unità. Ogni giorno, oltre alla messa, si dava rilievo ad una particolare celebrazione comunitaria come l’atto penitenziale e la confessione, l’adorazione eucaristica, il rosario meditato. Nelle messe, ben preparate e celebrate con calma, si sentiva una forte presenza di Gesù in mezzo a noi. Si sperimentava quotidianamente un crescendo nel clima di famiglia fra tutti.

L’ultimo giorno abbiamo messo in comune le nostre impressioni e si è fatta con spontaneità una vera comunione fra noi. Tutti erano contenti di poter iniziare con questa nuova luce la vita in seminario.

Per me è stata un’esperienza importante. Dopo tutte le difficoltà del passato, oggi nella nostra terra Dio non solo non fa mancare le vocazioni al ministero sacerdotale, ma sceglie giovani disponibili ad una vita di comunione. Una bella prospettiva per i presbitèri e per i seminari.

R. S.

 

 

 

 

Accogliere la vita

Sono chiamato per telefono da una persona che m’invita ad andare con urgenza nella sua casa, perché sua figlia sedicenne stava aspettando un bambino. Questa famiglia ne aveva passate di tutti i colori ed ora che si stava tirando su, si trovava a dover affrontare un altro problema non semplice. Sono andato a trovarli con l’intenzione di non portare il mio punto di vista, ma di far in modo che venisse fuori il piano di Dio.

C’erano i due ragazzi e i genitori di entrambi. Il clima non era dei migliori. Quando hanno incominciato ad ipotizzare la soluzione dell’aborto, perché «non era giusto rovinare la vita dei due giovani», mi sono sentito a disagio ed ero spinto ad andarmene. Ma quella frase “credete al vangelo” mi ha trattenuto. Dopo averli ascoltati, ho parlato anch’io e ho avuto la netta sensazione di non dire parole mie, ma Sue. Ho detto che quella vita che stava nascendo valeva tanto quanto la nostra, che questo problema poteva trasformarsi in un’occasione di maturazione per i due ragazzi, che ciò che ora sembrava male poteva diventare un bene molto più grande, che aiutandosi reciprocamente si potevano trovare soluzioni migliori.

Alla fine il clima fera notevolmente migliorato, al punto che riuscivamo anche a scherzare. C’era molta più disponibilità ad accogliere quella piccola persona che stava arrivando. Quando li ho lasciati, ho avuto l’impressione che lì rimaneva una reale presenza di Gesù, perché la creatura che prima era ritenuta un’intrusa, ora veniva guardata da tutti con amore e ci si dava da fare per darle buona accoglienza.

M. S.