Intervista con il card. Miloslav Vlk su alcune prospettive da lui proposte
al recente Congresso sulle vocazioni in Europa

 

 

Chiesa-comunione e vocazioni

a cura di Hubertus Blaumeiser

 

 

All’insegna del titolo “Nuove vocazioni per una nuova Europa”, dal 4 al 10 maggio si è svolto a Roma il Congresso sulle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata in Europa. In una relazione, che ha destato grande interesse nel convegno, il card. Miloslav Vlk, presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE), vi ha esposto alcune riflessioni sul tema “La pastorale giovanile è vocazionale: Cristo progetto dell’uomo”. Ne proponiamo qui alcuni contenuti salienti, sotto forma di intervista. Pur partendo dalla situazione europea, le prospettive disegnate si aprono su di un orizzonte molto più ampio.

Non soltanto un evento spirituale

GEN’S: Nel suo intervento al Congresso, lei ha vouto fissare lo sguardo sul caratteristico humus nel quale la vita dei giovani può aprirsi alla prospettiva vocazionale. Vorrebbe dircene qualcosa?

Penso sia fondamentale non restringere l’idea della vocazione alla mera dimensione individuale o addirittura intimistica. Per quanto sia incontro personalissimo con Gesù, non si tratta di un evento soltanto spirituale. Colpisce, nella vocazione dei primi discepoli la quotidianità: «gettavano la rete in mare, essendo pescatori» (Mt 4, 18), «vide un uomo... seduto al banco delle imposte» (Mt 9, 9). Ed impressiona la forte dimensione comunitaria.

Vero e completo contesto della vocazione non è soltanto l’incontro a tu per tu con Gesù, ma il “Regno di Dio”, ovvero l’incontro personale con Gesù nel contesto di una comunità la quale si contraddistingue per un’inedita socialità che oltrepassa la consueta esperienza umana. Viene da pensare qui all’episodio del giovane ricco. Pare che il suo spavento e il suo rifiuto davanti alla proposta radicale di Gesù esprimano bene la condizione esistenziale di molti giovani oggi, specie in Occidente. Non è capace di lasciare tutto per il Regno di Dio. Ma avrà capito le vere dimensioni del Regno, come vengono esplicitate dai Sinottici subito dopo: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19, 29)?

Incontro con Cristo
nel contesto di una socialità nuova

GEN’S: Che cosa ne deriva per la vita della chiesa in Europa?

Dovremo interrogarci sul vero significato della crisi presente. Sarà giusto interpretarla soltanto come crisi delle “vocazioni” o non si tratta anche – e forse soprattutto – di una crisi della comunità cristiana che non riesce a rendere abbastanza visibile la socialità del “centuplo” e, prima ancora, la presenza viva di Cristo in essa? E non potrà, allora, il problema delle vocazioni essere per noi una sfida provvidenziale?

C’è da chiedersi, infatti, che tipo di comunità siamo, quale volto di chiesa mostriamo, cosa offriamo ai giovani perché incontrino Cristo sul serio. In una parola: prima ancora che sulle cose da fare, dovremo riflettere sul nostro essere chiesa.

Il fatto che l’ecclesiologia del Concilio Vaticano II punti così fortemente sulla chiesa-comunione costituisce, a mio avviso, un segno di grande speranza pure per le vocazioni anche se, probabilmente, ci vorrà del tempo e soprattutto una crescita progressiva, per arrivare a verificarne tutte le potenzialità.

Due priorità pastorali

GEN’S: Chiesa-comunione e pastorale vocazionale: potrebbe sviluppare questa prospettiva?

Vorrei qui sottolineare due indicazioni di fondo che ci vengono dal Concilio:

1. Nel disegno d’insieme della Lumen Gentium, la chiesa come mistero di comunione (cap. I) precede la diversificazione del popolo di Dio in diversi ministeri, carismi, chiamate (cap. II ss.).

2. In coerenza con la sua ecclesiologia di comunione, il Concilio, poi, ci presenta il ministero ordinato e le varie forme di speciale consacrazione secondo un profilo fortemente comunitario: non soltanto il singolo vescovo, ma il vescovo nel collegio; non soltanto il sacerdote considerato singolarmente, ma il sacerdote come espressione del presbiterio; non soltanto il singolo religioso, ma la comunità religiosa. Prima ancora di essere in funzione della chiesa-comunione, i vari ministeri e carismi hanno in se stessi uno statuto comunitario. E solo così possono rendere conto della piena dimensione del Regno.

Viene da chiedersi se, nel nostro modo di presentare le diverse vocazioni, mettiamo sufficientemente in rilievo, in modo teologico ma soprattutto esperienziale, questa dimensione comunitaria ed ecclesiale.

Comunità in cui palpita
la presenza del Dio vivo

GEN’S: Lei insiste quindi su un forte indirizzo comunitario?

Sì, ma a condizione che la comunione abbia il suo centro in Cristo in modo da generare una comunità-chiesa.

Non vorrei che queste considerazioni appaiano teoriche. Per le esperienze che Dio mi ha dato la grazia di vivere, posso affermare di aver incontrato molte volte e nei luoghi più diversi e impensati piccole o grandi comunità, soprattutto giovanili, caratterizzate da una insolita vitalità e vivacità.

Sono comunità in cui si viene immediatamente toccati dalla presenza del Risorto che vive in mezzo ai suoi. E questa presenza la si scopre così viva e reale come quando si apre il libro delle Scritture o ci si pone di fronte all’eucaristia. Non si può non rimanerne conquistati. Ho constatato che comunità di questo genere non soltanto provocano numerose conversioni, ma suscitano pure una fioritura di vocazioni, mentre la pastorale in genere fa fatica a portare tali frutti impegnativi.

Penso che questa fecondità sia dovuto fra l’altro al fatto che la presenza di Cristo in queste comunità non si limita all’ambito della liturgia, ma si fa esperienza viva del Dio con noi nelle comuni attività quotidiane.

Uscire da sé
per protendersi verso l’altro

GEN’S: Potrebbe delineare ancora di più la dinamica vocazionale di tali comunità?

Quando un giovane si inserisce in una comunità in cui Gesù è il senso del rapportarsi tra tutti, nell’amore che riceve dagli altri non coglie tanto l’amore umano, quanto l’Amore stesso di Dio. È come se tanti dubbi, tante nebbie improvvisamente si diradassero, per lasciare il posto ad una certezza inconfondibile e luminosa: Dio ama proprio me e mi raggiunge attraverso l’amore del fratello. Sorge allora il desiderio ed il bisogno di vivere allo stesso modo, di portare tutti i rapporti su questo livello, di mettere l’amore alla base di ogni relazione, di puntare ad un amore non sporadico ed emozionale, ma continuo e concreto, di portarlo fino alla misura dell’amore di Cristo che è quella del “dare la vita” per il fratello.

Vivendo in tal modo, le parole del vangelo iniziano ad illuminarsi come dal di dentro, vengono comprese in modo nuovo, diventando continuo appello ad uscire da sé per protendersi verso l’altro nell’amore. Esse gettano luce sull’esistenza e diventano la segnaletica di un cammino ormai diventato continua risposta ad una Voce. Nasce così un rapporto personale con Cristo, fuori dai luoghi comuni e dalle piste battute da tutti. Arriva il momento in cui Gesù stesso si fa presente e mi invita a seguirlo, a sceglierlo, a metterlo al di sopra di tutto e di tutti.

Insomma la mia vita, divenuta ormai “abitata”, si ordina in vista di un cammino da fare in Sua compagnia.

Nella reciprocità i doni dei singoli

GEN’S: Oggi però i giovani sembrano incontrare tanti ostacoli che li trattengono a dare una risposta piena a Cristo.

È ovvio che una vita del genere non si improvvisa; necessita del continuo sforzo di uscire da sé, della volontà di imparare ad amare. Ma la prima scoperta che fa il giovane che si addentra in una comunità viva è che è molto più quello che riceve di ciò che riesce a dare: è la nuova logica del vangelo che incomincia a portare i primi frutti.

La vita di reciprocità, inoltre, libera le vie della comunicazione interpersonale dai diaframmi che la ostruivano fino talvolta a bloccarla. Si sperimenta così una libertà nuova, la libertà di essere finalmente se stessi, senza maschere o corazze.

Uscendo da sé per amare, si scoprono – o vengono scoperti dagli altri – quei doni personali e particolari che non si sapeva di possedere; cadono quei pericolosi confronti con l’altro, fonte, tanto spesso, di frustrazioni.

In un clima di reciprocità, anche i miei limiti acquistano un significato e una funzione positiva: mi aiutano a scoprire la mia originalità e diventano essi stessi una chance, una possibilità, una tensione per andare oltre me stesso, con fiducia totale in Colui che ha detto: «Io ho vinto il mondo» (Gv 16, 33).

«A chi mi ama... mi manifesterò»

GEN’S: E il discernimento vocazionale?

Se ne è parlato a fondo in un’altra relazione al Convegno. Ma vorrei qui accennarvi. Ad un certo punto, queste scoperte che giorno per giorno vado facendo, per l’impulso della grazia e il confronto con chi ha il compito di aiutarmi a leggermi dentro, trascendono l’essere legate ad episodi e momenti particolari, per ordinarsi in un qualcosa di nuovo: acquistano cioè un significato diverso, indicano una possibilità, una direzione, una meta; si leggono come la naturale conclusione di ciò che, in fin dei conti, era solo una preparazione ad esse. È la scoperta della vocazione, lo svelarsi di un progetto che ha nell’Amore di Dio l’origine e il compimento. Essa non si trova al termine di ragionamenti complessi sulla propria personalità, sulle capacità e aspirazioni del giovane, ma si schiude nella semplicità e nella evidenza delle cose di Dio.È il “centuplo” che Dio dona a chi ha amato: «a chi mi ama... mi manifesterò» (cf Gv 14, 21).

È nella “utilità comune”, cioè nella volontà di mettere i propri talenti a servizio degli altri, che «la particolare manifestazione dello Spirito» (cf 1 Cor 12, 7) data a ciascuno prende consistenza e forma. La vocazione in questo modo non è più frutto di un’autocandidatura né di un reclutamento, ma dono gratuito che scaturisce dalla vita di comunione, nella quale ciascuno ha la propria parte: la comunità, il giovane, colui che lo accompagna e lo consiglia, ma soprattutto il Cristo in mezzo ai suoi che, da vero protagonista della pastorale vocazionale, a poco a poco fa scoprire a ciascuno la propria chiamata.

Attingere il lievito
dove lo Spirito lo sta suscitando

GEN’S: Ma non siamo ben lontani dalle prospettive che lei qui sta disegnando?

Sono ben conscio che un’esperienza del genere non è dappertutto subito realizzabile. Penso, però, che i nostri sforzi, se vogliono portare frutto duraturo e risolutivo, si debbano muovere sempre più in questa direzione.

Allo stesso tempo mi sembra importante non voler fare progetti a tavolino, ma saper riconoscere e valorizzare, nella vita della chiesa universale e particolare, quei carismi e quei doni di cui il Signore della storia continua ad arricchire il suo popolo. Conviene attingere il “lievito” là dove lo Spirito Santo lo sta suscitando e fare in modo che possa influire positivamente sulle varie situazioni ed i diversi ambienti. Un grande compito che si può affrontare solo in collaborazione fra chiese particolari, Istituti religiosi e Movimenti.

Priorità dell’essere sul fare

GEN’S: In conclusione, quale la sua speranza?

Mi sembra ricco e stimolante, a questo proposito, un bel passaggio della Christifideles Laici nel quale il papa si augura che la chiesa sia sempre più formata da «comunità ecclesiali mature, nelle quali cioè la fede sprigioni e realizzi tutto il suo originale significato di adesione alla persona di Cristo e al suo vangelo, di incontro e di comunione sacramentale con lui, di esistenza vissuta nella carità e nel servizio» (n. 34).

Per dirlo in altre parole, la mia speranza è che la pastorale giovanile e la pastorale vocazionale non siano innanzi tutto un fare, ma un essere: l’essere noi, nel dinamismo del cammino, una cosa sola con Gesù. Nessuno come Lui sa chiamare e portare ciascuno alla sua piena realizzazione, nel dono di sé.

 

a cura di Hubertus Blaumeiser