Per liberarsi dalla tossicodipendenza basta la buona volontà del malato?

 

«Mi ricordava il grido di Gesù»

di Silvestre Marques

 

 

António López Aragón, protagonista di questa esperienza, dall’Andalusia si era rifugiato in Portogallo forse per sottrarsi al mondo di chi comanda la droga o forse nella speranza di potersi liberare dalle conseguenze della tossicodipendenza. Qui incontra casualmente un sacerdote, l’autore di questo scritto, e per i due comincia una faticosa ma interessante avventura.

V

enne da me e mi chiese di confessarsi. Erano ben dodici anni che non lo faceva e da sette anni era vittima dell’eroina, dopo aver sofferto in precedenza per altre esperienze molto negative. Era un esempio perfetto e un frutto tipico della nostra società di consumo. Da bambino aveva sofferto l’abbandono da parte del padre, un industriale di successo negli affari ma vittima in famiglia di una mentalità maschilista. Alla povera moglie, figura debole e inesperta, aveva imposto il divorzio senza rendersi conto della ferita mortale che provocava nell’animo del figlio.

Ascoltavo con attenzione questo doloroso racconto e rimasi impressionato per la sincerità e la radicalità con cui Antonio mi confidava il suo desiderio di cominciare una vita nuova. «Quello che hai fatto in questo momento – gli dissi – è una cosa molto bella, ma non credere che la confessione con un colpo di bacchetta magica possa risolvere i tuoi problemi. C’è ancora molto da fare da parte tua e certamente non sarà un compito facile. Però, se tu vuoi, io sono disposto ad aiutarti, anzi sono pronto a dare la mia vita per te». Lo dissi con convinzione, sapendo che mi mettevo in una faccenda molto impegnativa, anche se non potevo immaginare quello che poi mi sarebbe accaduto.

L’inferno della droga

Dopo qualche settimana abbiamo avuto la possibilità di passare insieme dei giorni di vacanza e allora cominciai a rendermi conto dell’impegno che mi ero assunto. L’amico aveva accettato l’invito per liberarsi dal peso della “clausura” della sua attuale residenza. Da quando era arrivato in Portogallo abitava, infatti, presso un convento di suore dove era stato accolto da una zia. Io, totalmente inesperto dei fenomeni della droga, non sapevo che egli stava per entrare in uno stato di rottura psicologica, dovuto alla “sindrome dell’astinenza”, alla quale egli si vedeva obbligato.

Se mi avessero descritto prima gli effetti della crisi di astinenza, non avrei potuto crederci. Quei giorni passati insieme furono veramente un’esperienza di morte. Mi si presentava la prima occasione concreta di dimostrare che realmente ero disposto a dare la mia vita per lui.

Egli era, fisicamente e psichicamente, distrutto, mentre io, dopo notti e giorni senza un momento di riposo,  arrivai al limite della resistenza fisica ed anche psichica, perché non ce la facevo più a stare in piedi, sempre pronto a servire e ad ascoltare in atteggiamento di accoglienza senza l’ombra del giudizio. Inoltre questa esperienza, per me inedita, mi metteva a contatto col vero inferno del mondo della droga e della devastazione mortale che esso provoca. Nello stesso tempo non potevo neanche appellarmi, per non strumentalizzarli, ai valori spirituali in cui credo, anche se erano gli unici che restavano in piedi in quella totale distruzione.

In un momento di calma durante la tempesta, Antonio mi fissò negli occhi e mi disse: «Tu per me sei Dio». In un primo istante restai perplesso, pensando come mai avevo potuto provocare in lui una tale confusione. Poi mi sembrò di capire: Dio era vivo e presente tra noi e Antonio lo aveva percepito nel fondo del suo essere di creatura.

Compresi quanto era importante morire al mio egoismo per vivere le parole del vangelo: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40): essere un segno concreto e visibile dell’amore di Dio per Antonio.

«Venderei anche te per una dose»

Iniziava così quel periodo che potremmo chiamare un “divino gioco d’amore”. Ogni giorno rinnovavo il mio impegno di perdere tutto per conservare accesa quella luce che lo stimolava e orientava in questo arduo cammino che è l’uscita dal tunnel della tossicodipendenza.

Per Antonio era entrare stupito in un mondo a lui sconosciuto, quello dell’amore disinteressato. Per me era una continua scoperta di quella pedagogia con cui Dio dà all’uomo la libertà, offrendogliela come dono gratuito, per suscitare in lui la capacità di amare. E il gioco si avverava momento per momento, se anch’io rimanevo nell’amore concreto e disinteressato.

Sarebbe troppo lungo raccontare tutti gli avvenimenti che portarono Antonio a ricuperarsi come persona e a reinserirsi dignitosamente nella società. In pochi mesi egli ottenne un lavoro e una degna abitazione, circondato dagli amici e confortato anche dal fatto che potette riabbracciare sua figlia.

Di quelle prime settimane vissute insieme mi resta un ricordo. Ad un certo momento egli mi disse: «Non farti illusione, il mio ricupero è impossibile. Sono passato per i migliori centri di Madrid, ho frequentato buoni psicologi, ma nessuno è riuscito a fare qualcosa».

E indicandomi il petto, proseguiva: «Io ho qui un buco che nessun Dio, nessun Amore può colmare; solo l’eroina può riempirlo. Ed è un buco tale che in questo momento, se mi fosse possibile, venderei anche la tua persona per acquistare una dose di quella roba».

Tali parole e soprattutto il dramma che da esse traspariva hanno lasciato in me un segno profondo, perché mi ricordavano il grido di abbandono di Cristo sulla croce.

«Quel buco non c’è più»

Dopo alcuni mesi Antonio, tutto raggiante di gioia, mi disse: «Sai una cosa? Quel buco non c’è più. Sono l’uomo più felice del mondo. Ho tutto e, nello stesso tempo, ho imparato a perdere tutto per amore».

Oggi sono sicuro che solo una cosa lo ha veramente aiutato a ricominciare a vivere: l’amore, l’amore vero, che diventando poi mutuo ha generato la presenza di Cristo tra noi. Egli stesso me lo ha confermato un giorno dicendomi: «Quando ci raccontiamo la nostra vita, comunicandoci le esperienze che facciamo, sento una gioia e una pienezza che supera immensamente tutti i piaceri incontrati nella mia esistenza». Gli piaceva chiamare questa gioia “il paradiso”, un paradiso ben differente da quello illusorio offertogli dall’eroina, che si trasformava rapidamente in inferno. Per chi aveva cessato di credere in se stesso e nella vita e tutto aveva sottomesso alla droga, a volte anche i suoi due più grandi amori su questa terra – la madre e la figlia, che in fondo non aveva mai dimenticate – aver scoperto ora il paradiso era come se l’avesse già raggiunto Non si spiega altrimenti la sua morte improvvisa in seguito ad un incidente stradale, essendo egli un autista molto attento, come ha confermato chi ha presenziato al doloroso avvenimento.

Qualche giorno prima mi aveva confidato: «Adesso anch’io sono pronto a dare la mia vita per te». L’avevo visto per l’ultima volta a Lisbona, mentre ero in partenza per la Svizzera. Era un uomo felice. La sua memoria rimane ora legata ad una comunità terapeutica, che porta il suo nome, perché cerca di percorrere la sua stessa strada nel ricuperare alla radice chi è stato ingannato e travolto dall’illusione della droga.

Silvestre Marques