La vita? Un viaggio da percorrere insieme, con Gesù presente in mezzo a noi

 

Il momento più oscuro
e più luminoso della mia vita

di Efrem Gobbo

 

 

Quella macchietta scura sul petto non gli aveva mai fatto alcuna impressione, ma l’occhio clinico del medico seppe leggere oltre le apparenze e all’improvviso il missionario degli emigrati italiani in Svezia, si sentì dire che quel neo andava tolto al più presto, perché poteva nascondere qualcosa di indesiderabile. L’interessato non immaginava che stava per iniziare un periodo nuovo della sua vita.

È nel buio che si vedono le stelle

C’è un detto popolare che suona presso a poco così: «Quando si fa buio, è allora che si vedono le stelle». Questo proverbio potrebbe ben riassumere la mia esperienza iniziata cinque anni fa in Svezia.

Da tre anni mi trovavo appunto a Stoccolma nella missione per gl’italiani residenti in quella città e dintorni. Durante un controllo medico mi fu consigliato di far asportare, per precauzione, una ciste che s’era formata all’interno di una macchia sul petto

Si trattava di un intervento di mezz’ora con anestesia locale. Cose di ordinaria amministrazione, si direbbe, tanto che un’ora dopo sarei potuto partire per la mariapoli, il convegno annuale del Movimento dei focolari, con un giovane italiano della missione.

Quando però mi presentai dal medico per l’operazione, questi mi comunicò che si trattava di un tumore maligno della pelle in uno stadio così avanzato da esigere al più presto un’operazione più profonda: fra quattro giorni si sarebbe tentato di asportare la parte malata con forti timori che fosse troppo tardi.

Uscii dall’ospedale sconvolto. Ero ben lontano dal pensiero di trovarmi addosso una malattia del genere e in uno stadio, con tuttaprobabilità, irreparabile. Quando tornai a casa, andai subito in chiesa e davanti a Gesù eucaristia e a Maria dissi il mio sì alla volontà di Dio.

Dopo qualche istante scorsi in un angolo un sacerdote spagnolo col quale intrattenevo da tempo un bel rapporto fraterno e anche di aiuto spirituale e non mi parve vero di confidargli la mia situazione e di fare una bella confessione generale della mia vita. L’incontro con lui mi diede coraggio, tanto che partii ugualmente per la mariapoli.

Come arrivai, sentii che era un regalo speciale di Maria potermi preparare a questo evento, trascorrendo alcuni giorni nella “sua casa”. Di fatto passai giorni molto vivi e intensi in quel posto, dove tra l’altro ebbi dei suggerimenti utili da due medici presenti anch’essi all’incontro.

In quel clima scrissi a Chiara Lubich per informarla della nuova e imprevista situazione in cui mi trovavo, raccomandandomi alle sue preghiere e, nello stesso tempo, dicendole che offrivo tutto a Gesù per la caduta dei muri del consumismo e del secolarismo: realtà così presenti nella mentalità e nella cultura del Paese in cui mi trovavo. Eravamo ancora sotto l’effetto della caduta dei muri dei regimi comunisti.

Conclusa la mariapoli, andai all’ospedale per l’intervento che ebbe luogo la mattina seguente. Quando mi svegliai, fui contento di scorgere che qualcuno del focolare era al mio capezzale a farmi compagnia.

Più che il dolore fisico, però, mi tormentava una grande angoscia, sentendomi del tutto impreparato per presentarmi davanti a Dio. La mia vita passata mi pareva vissuta senza impegno e avrei desiderato moltissimo avere davanti tanto tempo per poter rimediare, mentre a quanto sembrava, il tempo era ben poco. Una suora, vedendo il mio stato, si mise a piangere davanti a me e, forse senza rendersene conto, si lasciò sfuggire queste parole: «Povero don Efrem! A Natale sarà già nel camposanto».

Fu in questa situazione che mi si svelò in tutta la sua luce la realtà di Gesù abbandonato. Mi si presentò come colui che si fece così vicino al ladrone crocifisso con lui da assicurargli il paradiso immediato.

Da quel momento cominciai a rivolgermi a lui con fiducia, a donargli tutto il mio dolore, compresa l’angoscia per il mio passato, e a offrire tutto per il Regno di Dio, per la missione in Svezia e in particolare per una mariapoli in Finlandia, alla quale anch’io avevo in programma di partecipare.

Ero così preso dal vivere bene la mia situazione che, quando uno mi disse che tutti pregavano per la mia salute e mi domandò se anch’io lo facevo, risposi sinceramente che fino a quel momento non ci avevo neanche pensato.

Cominciai a farlo quando mi convinsero che era cosa buona, perché si trattava di compiere e portare avanti insieme un’opera di Dio.

Dimesso dall’ospedale dopo qualche settimana di degenza, passai circa un mese nell’abitazione dei focolarini, dove mi sentii più che a casa, pienamente partecipe come malato della loro vita, rendendomi anche utile per quello che potevo. Uno di loro era medico e quindi potei avvalermi anche della sua esperienza professionale.

Che dono la vita in comunione!

In passato avevo fatto tre anni di vita comune con un altro sacerdote che segue la spiritualità dell’unità, ma poi l’avevo interrotta, perché un altro subentrasse al mio posto. A dire il vero l’avevo fatto con piacere, perché la vita d’unità ad un certo punto mi era diventata pesante.

Ora, appena uscito da questa esperienza dolorosa, dissi ad un amico: «Adesso sì che mi sentirei pronto a far vita comune con un altro sacerdote!».

Sentivo infatti che per vivere in unità, per sperimentare la presenza di Gesù in mezzo a noi, bisogna essere pronti a dare la vita ed io la vita ormai l’avevo data, spinto dalle particolari circostanze.

Il mio desiderio venne accolto dalla Provvidenza, perché quando rientrai in Italia mi fu offerta la possibilità di vivere con altri due sacerdoti: uno con cui abitare nella stessa casa e l’altro abbastanza vicino, da poter stare spesso con noi. Fin dall’inizio scattò tra noi un’esperienza di unità molto viva e intensa.

Anche se nei primi mesi non potevo fare quasi niente e il mio apporto alle varie attività pastorali della parrocchia era nullo, io ero con i miei colleghi con tutta l’anima e sentivamo che i frutti scaturivano dal loro agire e dal mio patire e pregare. E il vivere così mi faceva sentire sereno e felice.

Quando, dopo un mese, il vescovo venne a trovarmi rimase molto contento nel vedermi nella pace e mi parlò di Dio che “corregge chi ama e sferza chi gli è caro”.

Fu uno scossone forte per la mia vita e per più di un anno son vissuto con una intensità spirituale che mai avevo conosciuto prima. Nei momenti più dolorosi mi risuonavano piene di dolcezza le parole di Gesù: «Verrò e vi prenderò con me perché siate anche voi dove sono io».

Oggi posso dire che ho visto il paradiso vicinissimo, quasi a portata di mano ed ho sperimentato la vita come un “santo viaggio” (Sal 83 (84), 6) da percorrere insieme con Gesù presente tra i fratelli uniti nel suo nome.

Cinque anni sono trascorsi dall’annuncio che mi lasciò sconcertato. Chi avrebbe mai detto che quello era solo l’inizio di un periodo straordinario di grazie?

Efrem Gobbo