Finestra aperta sul mistero di Dio e porta per entrare
nella nostra dimora, la Trinità

 

Gesù abbandonato e l’unità

di Piero Coda

 

La presente conversazione, tenuta dall’autore ad un uditorio di suore contemplative, riunisce in sé solidità teologica, profondità mistica e chiarezza espositiva. Siamo certi, perciò, di offrire ai nostri lettori non soltanto una proposta di vita, ma anche un eccellente strumento pedagogico.

P

er coloro che lo condannano alla morte di croce Gesù è l’espulso dall’alleanza, il maledetto da Dio.

Ma secondo gli evangelisti sinottici, in particolare Matteo (27, 46) e Marco (15, 34), Gesù stesso, in una maniera per noi misteriosa, sperimenta l’abbandono del Padre e grida: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Anche la lettera agli Ebrei dice che egli è morto dando forti grida (5, 7-8). Secondo Luca l’ultima parola di Gesù è stata: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (23, 46). Ciò significa che Gesù non muore come un disperato, ma nell’affidamento al Padre, in una fede che sgorga dall’abisso dell’angoscia più straziante.

Per descrivere l’esperienza del Getsemani, i sinottici usano appunto questo termine: Gesù è angosciato fino alla morte (cf. Mc 14, 33-34). Non quell’angoscia che noi immaginiamo già troppo trasfigurata dalla risurrezione, ma una realtà che gli fa sudare sangue.

Non penso che Gesù abbia sentito un simile dolore soltanto per la paura della morte fisica. Egli aveva detto tante volte che occorre perdere anche la vita. La sua angoscia esprime la coscienza di quel fallimento che agli occhi del mondo è rappresentato dalla morte di croce, di quella maledizione di Dio che sembra pesare e concentrarsi su di lui.

È ciò che noi, nella tradizione della chiesa, esprimiamo teologicamente dicendo che  Gesù ha preso su di sé i nostri peccati. Non vuol dire tanto che egli in modo materiale ha preso sulle sue spalle i peccati di tutti noi, ma che ha vissuto nella sua coscienza di Figlio di Dio, nel rapporto col Padre, il peso inimmaginabile del distacco da Dio che il peccato rappresenta. L’ha vissuto concentrato nella sua coscienza, nella sua anima. Questo è il dolore più forte che ci possa essere per lui che è il Figlio di Dio, che ha piena coscienza dell’amore del Padre per Lui e ha piena coscienza dell’amore che Egli ha per il Padre. È questa contraddizione tremenda che lo fa sudare sangue e che sulla Croce fa esplodere quel grido: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?».

Gesù si fida totalmente di Dio ma non vede il suo intervento, non intravede nessun spiraglio di salvezza, nessun segno dell’amore del Padre. Oggettivamente, l’amore di Dio è presente al massimo nel momento della croce di Gesù, perché il massimo dell’amore del Padre è donare il Figlio per l’umanità e, d’altra parte, “permettere” al Figlio di donarsi. Mai come in quel momento il Padre è col Figlio, è nel Figlio in una mutua e perfetta inabitazione di amore, ma Gesù, come uomo, non sperimenta questa comunione, ma sente di essere nel luogo del peccato che è di tutti noi e che egli concentra dentro di sé per redimerci. E grida: «Perché?».

«Perché? Perché?»

La Sapienza di Dio che grida: “Perché?”! È un mistero che si può capire solo con l’amore. Il Figlio di Dio si è fatto talmente uomo, da diventare quello che noi siamo. L’umanità, nella sua miseria, nella sua povertà ultima, è questo “Perché?”.

Quante volte, incontrando le persone, vengono fuori questi “perché?”. Gesù si è fatto ogni “perché?”.

L’evangelista Giovanni ha un’altra stupenda espressione per descrivere questo mistero dell’abbandono. Pone sulle labbra di Gesù in croce l’espressione: «Ho sete» (19, 28). Certamente il Crocifisso patisce la sete fisica, ma sente anche la sete di compiere quella che nel vangelo di Giovanni egli aveva chiamato la sua ora, la sete di donarsi, di donare lo Spirito. Tutta la vita di Gesù è una sete infuocata: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e cosa voglio se non che divampi?» (Lc 12, 49).

Ma c’è una sete più profonda ancora. Nel vangelo di Giovanni Gesù si presenta come la sorgente zampillante dell’acqua che sazia la sete umana. Ricordiamo l’incontro con la Samaritana e l’affermazione nella festa dei tabernacoli: «Chi ha sete venga a me e beva, chi crede in me. ...fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno» (Gv 7, 37; cf 4, 10-13). Quest’acqua che egli dona è lo Spirito. È lo Spirito l’acqua viva che egli fa zampillare dentro il credente.

È interessante notare come il grido dell’abbandono di Marco e Matteo sia l’inizio del Salmo 22 che contiene anche questa espressione: «È arido come un coccio il mio palato» (v. 16).

Non credo che Giovanni abbia pensato a questa concordanza con il Salmo e con quello che avevano espresso Marco e Matteo: ma è lo Spirito che è unico, e dice la stessa cosa in forme diverse. Quindi, Gesù sulla croce ci viene presentato, veramente, come l’assetato di Dio, l’assetato dello Spirito che è la comunione col Padre. Potremmo dire che Gesù dona lo Spirito per dissetare ogni sete, solo nel momento in cui fa sua la nostra sete. Come diventa il “perché?”, così diventa la sete umana. L’essere umano è la sete, Dio è l’acqua viva.

Amore trinitario come kènosis

Questa è la kènosis di Gesù. Ma si può andare ancora più in profondità. Perché – viene da chiedersi – la Scrittura ci presenta questa kènosis, questa umiltà, questa obbedienza, questo abbandono, come strada alla comunione con Dio e con i fratelli?

Nel Nuovo Testamento abbiamo alcuni testi che ci dicono che Gesù è tutto questo non solo nella sua vicenda terrena. Egli è questo amore da sempre, perché Dio in sé stesso è questo amore.

C’è un testo dell’Apocalisse che presenta Gesù come Agnello immolato. È un simbolo plastico per dire che Gesù è il nuovo Agnello dell’Esodo, sacrificato per salvare l’umanità. L’Apocalisse usa questa espressione: Gesù è l’Agnello immolato, ritto in piedi (13, 8; 5, 6. 9. 12). È l’Agnello sgozzato, quindi morto, esangue: ma ritto in piedi, risorto. È risorto in quanto è immolato. E questo Agnello immolato, ritto in piedi, è presentato di fronte al trono dell’Altissimo, Dio Padre. Gesù, quindi, per la visione escatologica dell’Apocalisse, è sempre immolato. È risorto, trasfigurato, ma in quanto sempre è immolato.

Santa Teresa ha fatto una grande scoperta, anche teologica, per la chiesa, quando ci ha detto che il culmine dell’unione con Dio passa sempre attraverso la santa umanità di Cristo. Gesù non si spoglia più della sua umanità. Se è vero che si “spoglia” della divinità, restando vero Dio, e assume l’umanità, è anche vero che questa umanità assunta per sempre porta dentro di sé i segni della passione. Gesù Risorto appare agli Apostoli con le piaghe. La piaga rimane. È trasfigurata, ma rimane.

Agnello immolato
prima della creazione

Gesù, dunque, è l’Agnello immolato per sempre, anche prima della creazione del mondo (cf 1Pt 1, 20). E questo è stupendo, perché ci dice che, in Dio, quando il Padre genera il Figlio, in quell’attimo indivisibile di amore che è la Vita trinitaria, il Figlio – nel quale il Padre vede la creazione, chiamata ad essere figlia nel Figlio, sposa dello Sposo –  è predestinato all’immolazione. La generazione d’amore del Padre è tutt’uno con l’immolazione del Figlio!

Nella famosa icona della Trinità di Rublev è espresso in maniera mirabile questo mistero. A parte il bellissimo modo di rappresentare il rapporto d’amore che c’è fra i Tre, al centro di questo circolo d’amore delle tre divine Persone è raffigurato l’altare con il sacrificio dell’Agnello. Nel cuore della Trinità c’è, dunque, il sacrificio della croce, c’è l’eucaristia. E se c’è questo, vuol dire che nel cuore della Trinità ci siamo noi.

Forse i mistici direbbero che, nella follia dell’amore, Dio Padre genera il Figlio pensando e volendo insieme creare l’essere umano e salvarlo. È forse eccessiva questa affermazione, ma è in questa logica che Rublev presenta la Trinità.

Quindi, questa kènosis, come rivelazione dell’Amore di Dio, è il cuore della Trinità. Anzi, ci si può fare una domanda, riflettendo su quello che ci dice Giovanni: è solo il Figlio che è questo Agnello immolato, è solo il Figlio che si sacrifica per amore?

Il sacrificio del Padre

Gesù, in Giovanni, ci dice: «Chi vede me, vede il Padre» (14, 9). Il Figlio è icona del Padre, del mistero ineffabile di Dio, della gloria del Padre. Il massimo di questa iconicità si realizza nella croce: chi vede la croce vede il Padre, chi vede il grido dell’abbandono vede il Padre.

Ma, allora, non solo il Figlio ma anche il Padre è questo immolarsi. Il Figlio è dono, sacrificio, kènosis, perché è icona del Padre, perché il Padre è sacrificio, dono, espropriazione totale di sé. Quindi, anche il mistero del Padre è annientamento di sé, dono totale di sé. Il mistero della Trinità, come mistero di amore e di comunione, è reciproca consegna e reciproca espropriazione. Dio è sé stesso, espropriandosi di sé.

«Il Padre – dice un teologo ortodosso, S. Bulgakov – quando genera il Figlio è come se si spogliasse totalmente di sé, per essere tutto nel Figlio».

Allora si capisce perché il Figlio è espropriazione totale di sé, svuotamento totale per il Padre, perché “ha imparato” questo dal Padre. Ricordate il vangelo di Giovanni: «In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che Egli fa, anche il Figlio lo fa» (5, 19). J. Galot dice che qui c’è una parabola: Gesù, come uomo, ha imparato da Giuseppe il mestiere del falegname; e, come Dio, ha imparato dal Padre che è nei cieli.

Certamente, nel mistero dell’amore di Dio – noi lo intuiamo quando il Signore ci fa la grazia di purificare i nostri occhi e la nostra vita – non c’è ombra di dolore, come c’è nel sacrificio cruento della croce. Il sacrificio coincide con la gloria, è il cuore della gloria. È sacrificio ineffabile, perfetto, sfolgorante di luce e di gioia. Ma c’è.

E lo Spirito Santo?

Lo Spirito Santo che cos’è, se il Padre è il dono totale di sé e il Figlio è icona di ciò che vede fare dal Padre? Lo Spirito è talmente l’espressione ultima della vita di Dio-Amore, che è espropriazione, che non ha neppure un volto, e quasi si nasconde a noi. Il Padre ha un volto nel Figlio. Il Figlio è il volto del Padre. Lo Spirito non ha un volto, e non solo perché nella storia non lo vediamo, ma perché è così in Dio stesso. Come ci attestano i mistici e la riflessione teologica, noi non vedremo il volto dello Spirito.

Non ha un volto lo Spirito, ma illumina il volto di Cristo, è la luce che irraggia dal volto del Cristo. Per questo, nella chiesa, in noi, lo Spirito si nasconde dietro il nostro volto e lo illumina dall’interno, come illumina il volto di Maria. Qualcuno ha detto: «Il volto creato dello Spirito è Maria». E Maria è l’icona della chiesa, dell’umanità. Lo Spirito, come illumina il Cristo, così illumina il volto della Sposa. Ed è Dio. Ed è tutto Dio, ineffabile mistero di Amore e, quindi, di kènosis, di umiltà.

La via all’unione con Dio

Allora si capisce perché in tutte le spiritualità della chiesa, non c’è altra strada per arrivare a Dio, se non la strada dell’annientamento. Ciò che Paolo esprime in quella formula sintetica nella lettera ai Galati: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (2, 20).

Il credente che è innestato in Cristo per il battesimo, che vive di Cristo nell’eucaristia, è chiamato a far vivere in sé il crocifisso, rispondendo a questo amore infinito di annientamento per noi che è Dio, con quell’amore senza limiti di annientamento per Dio che dobbiamo essere noi.

Pensiamo troppo poco a questo mistero. Certamente noi pensiamo – e ne siamo profondamente convinti e cerchiamo di viverlo – che dobbiamo perdere noi stessi di fronte a Dio. Ma, forse, tante volte non ci riusciamo perché siamo troppo poco colpiti dal fatto che Dio muore per noi, che si annienta per noi. Noi ci possiamo annientare per lui, perché Egli si è annientato per noi. È come se nella Croce Dio Padre, nel Figlio, ci dicesse: «Tu sei tutto per me, tanto che io mi faccio niente per te».

Bisogna innamorarsi di questo Dio che si fa niente per noi! Quando una persona è stata colpita da questa freccia e il suo cuore è ferito, piagato da questo atto di amore del Padre nel Figlio, non può rispondere che con l’amore.

La fondatrice di un Ordine religioso recente, Madre Oliva delle Figlie della Chiesa, ha un’espressione ardita. Quando veniva rapita in comunione con Dio nell’eucaristia, sentiva Gesù che le diceva: «Non sai quanto ho aspettato questo momento!». Non era lei che aspettava quel momento, ma Gesù, che le diceva: «Io ho bisogno di te!».

Dio ha bisogno di noi. Non è un modo di dire, una metafora. E se questo vale per la nostra unione con Dio, allora lo Sposo della nostra vita è Gesù crocifisso, è Gesù assetato, immolato, abbandonato sulla croce.

Riconoscere sempre il suo volto

Questo amore al Crocifisso, all’Abbandonato, è il significato costante della nostra vita, perché il suo volto ci si presenta in ogni momento. Si tratta di scoprirlo, di riconoscerlo, di abbracciarlo.

Probabilmente ci capita spesso di voler essere innamorati di Gesù crocifisso e poi non ci accorgiamo quando arriva o, peggio ancora, lo rifiutiamo. Gli occhi della mente e del cuore devono essere continuamente purificati per arrivare a dire con san Paolo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo?» (Rm 8, 35). Se il Cristo si è fatto separazione, quando io incontro tutto ciò che non è Cristo, incontro Cristo. Dentro di me e fuori di me. Questa è la via all’unione con Dio: «Quando sono debole è allora che sono forte» (2 Cor 12, 10).

Mi sento poco innamorato di Cristo? Cristo è l’aridità: io devo innamorarmi di Cristo nell’aridità, non della consolazione di Dio, del fervore della preghiera. Lo ringrazio: «Finalmente sei venuto!». Questa è la logica di Dio! Sono io che ho la logica del mondo, e quindi voglio la consolazione.

Bisogna riconoscerlo e dargli un nome, perché è lui . È molto bello fare questo gioco con Gesù crocifisso e dirgli: «Tu ti eri nascosto nell’aridità, nel mio sbaglio, nell’incomprensione e nella freddezza altrui, in tutti i dolori dell’umanità, ma io ti ho riconosciuto».

L’amore di Dio è straordinario, perché Gesù, attraverso la croce e l’abbandono, diventa ciò che non è Dio. Allora io trovo Dio dove non c’è Dio. Forse non lo sperimenterò, come Gesù sulla croce non l’ha sperimentato. Ma Dio me lo fa anche sperimentare, perché Gesù, se tu lo riconosci, non ti lascia troppo nell’oscurità, poiché il suo ideale non è la croce ma la risurrezione. Quindi, se tu lo riconosci, egli ti dà la gioia e ti fa vivere la sua Pasqua di risurrezione.

Allora la nostra ascesa nella comunione con Dio, diventa un progressivo penetrare nella comunione con Dio: croce e risurrezione.

Riconoscere il volto di Gesù in ogni sofferenza nostra e altrui, in tutte le piaghe della chiesa e della società, della storia passata e presente, e subito dargli un nome: è giocare con lui. Ci vuole questa agilità spirituale. I mistici su questo sono molto audaci e hanno sempre questa giovinezza dello spirito di scherzare con Dio.

La via alla comunione coi fratelli

Se tutto ciò è vero nel nostro rapporto con Dio, è vero anche nel rapporto con gli altri, come ci dice Paolo nella lettera ai Filippesi. Egli presenta questa kènosis innanzitutto come via all’unione coi fratelli e poi con Dio, perché noi andiamo a lui insieme. Paolo ci vuole suggerire che questo svuotamento, questa kènosis, questo riconoscere Gesù, lo devo vivere con ogni persona umana. È una cosa molto impegnativa e forse anche molto più dura, ma altrettanto vera e necessaria, il riuscire a vivere questo svuotamento di fronte agli altri. «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4, 20).

Si potrebbe obiettare che è giusto vivere questa kènosis nel rapporto con Dio, ma non con il fratello che è solo una creatura. Ma non possiamo dimenticare che il fratello nasconde Cristo: «Ciò che avete fatto al minimo, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40). Certo, non adorerò il fratello, ma Cristo in lui, anche quando non ne lascia trasparire il volto o addirittura lo sfigura.

È la stessa dinamica di prima: Cristo si nasconde dietro il volto del fratello, quando è piagato, irriconoscibile, oppure quando non ho più speranza di poter costruire un rapporto vero, profondo con lui.

Questo intendeva Teresina di Lisieux quando diceva: «Occorre sedere alla mensa dei peccatori». È un’esperienza nuovissima nella storia della spiritualità. E forse non è stata ancora compresa in tutta la sua profondità. Teresina patisce l’abbandono di Dio – l’ultimo tratto della sua vita è veramente un inferno – ma quale ragione dà a tutto questo? Capisce che questa dolorosissima esperienza è uno stare alla mensa dei peccatori. Come Gesù ha sperimentato quell’abbandono perché si è posto nel luogo in cui la creatura umana è lontana da Dio, così Teresina si sente chiamata a vivere questo stesso amore di Gesù, a rimettere cioè l’unione con Dio nel cuore dei fratelli, a bruciare in sé il distacco da Dio dei suoi fratelli.

Essere lì soprattutto in due maniere. Innanzi tutto, nella concreta comunità nella quale viviamo, perché tante volte può diventare un’evasione dire: «Io sono in comunione coi peccatori, vivo, patisco la croce per tutti», e poi non siamo capaci di assumere quel volto del Crocifisso che è accanto a noi.

Se uno ama veramente Gesù crocifisso e abbandonato, diventa, lì dov’è, una spugna che assorbe tutto ciò che non è Gesù, e così incontra Gesù. Chi è in Gesù prosciuga la tribolazione che trova attorno a sé, mettendosi per amore nella piaga della divisione, della sofferenza, della prova, delle ingiustizie.

Nella comune logica umana noi siamo portati ad allontanarci dal dolore, mentre Gesù ci invita a porci dentro fino a potergli dire: «Ti ho riconosciuto, sei Tu. Sono qui con te finché questa situazione non risorge».

È infedeltà allo Sposo non farlo. E ovviamente non sarà possibile arrivare a Gesù in un’altra maniera. Non posso dire: «Intanto prego», senza assumere la prova. Si può pregare senza aver riconosciuto Gesù in quella realtà e allora ti illudi di pregare, perché egli è venuto al tuo incontro in un altro luogo.

In tutti i dolori dell’umanità

La seconda maniera è quella di diventare questa “spugna” di fronte ai volti di Gesù crocifisso e abbandonato presenti nella chiesa e nell’umanità.

Per la beata Gabriella dell’Unità di Grottaferrata la croce era la chiesa, la tunica indivisa del Signore lacerata dalle divisioni tra i cristiani. E ha voluto dare la vita per l’unità, unendosi al sacrificio di Cristo.

Così per la ricerca di Dio nelle altre religioni. Così per tutti coloro che non trovano Dio, per le sofferenze provocate dalla violenza, da strutture sociali, politiche ed economiche ingiuste.

Mi viene sempre in mente quello che diceva Paolo – e noi lo dovremmo sentire nella nostra carne – nella lettera ai Romani:

«Dico la verità in Cristo, non mentisco e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua, vorrei, infatti, essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne» (9,1-3).

È rivivere l’esperienza di Gesù, che si è fatto “anatema”, “maledizione”, per salvare i fratelli.

Ho un solo Sposo

Concludo con una preghiera e con un’immagine.

È una preghiera che mi ha affascinato fin dall’inizio, quando l’ho letta per la prima volta, anche se l’ho capita poi gradualmente, penetrandola con la vita. È una preghiera di Chiara Lubich. Sintetizza un po’ tutto quello che ho detto, anzi ne è la sorgente.

«Ho un solo Sposo sulla terra:   
Gesù crocifisso e abbandonato;  
non ho altro Dio fuori di Lui.    
In Lui è tutto il paradiso con la Trinità  
e tutta la terra con l’Umanità.   
Perciò il suo è mio e null’altro. 
E suo è il dolore universale e quindi mio.           
Andrò per il mondo cercandolo  
in ogni attimo della mia vita.     
Ciò che mi fa male è mio           
Mio il dolore che mi sfiora nel presente. 
Mio il dolore della anime accanto.         
Mio tutto ciò che non è pace, gaudio,     
bello, amabile, sereno...
Così per gli anni che mi rimangono:      
assetata di dolori, di angosce,    
di disperazioni, 
di distacchi, di esilio, di abbandoni, di strazi,
di... tutto ciò che è Lui, 
e Lui è il Dolore.          
Così prosciugherò l’acqua della tribolazione
in molti cuori vicini e,   
per la comunione          
con lo Sposo mio onnipotente,lontani.    
Passerò come fuoco,     
che consuma ciò che ha da cadere          
e lascia in piedi solo la verità».

L’immagine invece l’ho vista a Tamié, la famosa abbazia cistercense dell’Alta Savoia. Nella foresteria, sotto un cartello, si può leggere questa scritta: «Che cos’è la nostra vita? È vivere come legni incrociati, perché si sprigioni fra noi la fiamma di Cristo risorto».

Legni che bruciano! Non sono posti l’uno accanto all’altro, ma incrociati, messi in croce, l’uno sull’altro. E danno vita a una fiamma che è il Cristo. Sono incrociati, come la Trinità, in un unico fuoco d’Amore.

Piero Coda