Vivere da «risorti»

«Non v’ingannate, gli esseri umani vogliono divertirsi, star bene, gozzovigliare», dice il personaggio di un recente romanzo. Infatti sappiamo quanto sia presente il “principio del piacere” nell’esistenza umana. Non soltanto quello, ovviamente: c’è anche la brama del denaro e del potere, che procura tra l’altro sicurezza e, appunto, tanti piaceri. Ci sono altre motivazioni più alte, come il piacere estetico. O ideali altruistici, intrisi d’amore oblativo e disinteressato, che tante cose grandi hanno costruito nell’umanità. Ma guardandoci attorno si direbbe che questi ultimi sono soltanto per animi eccezionali, non per la generalità dei mortali. Quante volte abbiamo avuto l’impressione che per motivarci sembrino più potenti l’odio o la sete di rivincita, la sensualità o l’ambizione, che la proposta di ideali grandi e nobili.

Molto si può discutere su questi argomenti, pro e contro, con prove storiche alla mano o in base all’esperienza personale e sociale, con accentuazioni più o meno ottimistiche o pessimistiche. Però quando, ad esempio, si punta su una “cultura del dare” invece dell’avere, su una “economia di comunione” al posto di quella basata sostanzialmente sull’egoismo, non ci si muove da illusi, perché l’essere umano è fatto per l’amore fraterno. E lo si costata innumerevoli volte quando si lascia che Dio tocchi, attraverso il nostro amore, il cuore e l’intelligenza delle persone.

Comunque due cose appaiono sicure: l’essere umano cerca la felicità, e il dolore – che sembra negargliela o appannarla – non manca mai.

Tutte le cosmovisioni laiche o religiose, che il pensiero umano ha costruito attraverso la storia, hanno come obbiettivo centrale di rispondere a questo dilemma della condizione umana.

Un cristianesimo mal capito tante volte ha risposto in modo insufficiente, non sapendo valorizzare il piacere secondo l’intenzione di Dio (“amazzando eros”, come accusava Nietzche), o privilegiando il dolore in un modo che a tante persone d’oggi darebbe quanto meno il sospetto di sado-masochismo.

Il presente numero della rivista vuol offrire un contributo nell’ambito della risposta cristiana al dolore dell’umanità. Risposta parziale e limitata, naturalmente, non solo a causa dello spazio ristretto, ma soprattutto perché in Cristo crocifisso, «sapienza di Dio» (1 Cor 1, 24), si nascondono «tutti i tesori della sapienza e della conoscenza» (Col 2, 3) che l’intera storia umana non basterà a sviscerare totalmente. È un mistero nel quale l’umanità troverà sempre nuova luce e risorse senza fine.

In questo caso lo facciamo – attraverso proposte spirituali, teologiche ed esperienziali – da un’angolazione precisa: Gesù crocifisso ed abbandonato come chiave per poter realizzare la comunione, l’unità fra gli esseri umani.

Non soltanto la maturità di una persona si misura per la sua capacità di affrontare e superare il dolore, ma si dice che la maggiore dote necessaria a chi ha una qualunque responsabilità – e tutti ne abbiamo qualcuna – è quella di saper gestire i conflitti. Siamo consci, oggi più che mai, dei complessi meccanismi che regolano la comunicazione umana e degli inevitabili cortocircuiti e sofferenze che la pervadono.

Alcuni, pochi, reagiscono a ciò con l’isolamento patologico o una solitudine fatta solo per giganti. La maggioranza risponde come può alle difficoltà inevitabili delle relazioni umane, portandosi dentro delle ferite che rendono difficile la vita. Tanti, crescendo con gli anni in esperienza, diventano scettici sulla possibilità di quei rapporti armoniosi e belli che costituiscono la più profonda felicità umana. Per non parlare dei cristiani, che pur convinti della loro fede, hanno una visione povera o addirittura disincantata nei riguardi di quell’unità della famiglia umana, che tuttavia costituisce il progetto di Dio sull’umanità.

Perciò è importante cercare di dirci, come fanno gli articoli che compongono questo numero, almeno qualcuno dei “perché” e dei “come” il dolore sia costitutivo dell’amore vero e possa essere trasfigurato.

È logico che solo il dolore trasformato in amore ci apra in modo duraturo la porta all’unità. Gesù ci ha chiesto di amarci l’un l’altro come lui ci ha amati, e se la sua misura è stata la croce e l’abbandono, noi riusciremo ad amarci con lo stesso amore solo se puntiamo a quella misura.

Oggi è molto rivalorizzato il battesimo tra i cristiani, ma forse non è abbastanza capita quell’espressione paolina: «Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione« (Rom 6,4).

Infatti solo una carità appasionata e «forte come la morte» (Cant 8, 6) ci fa «passare dalla morte alla vita» (1 Gv 3, 14), personalmente e comunitariamente. Soltanto un amore fino a quella misura ci fa vivere da “risorti” e con il Risorto in mezzo a noi (cf Mt 18, 20). Allora si prova che la felicità piena, la gioia che non passa è possibile, non nonostante ma, paradossalmente, anche attraverso il dolore.

E. C.