Come possiamo vivere la Trinità nella storia?

 

Per una teologia dell’unità

di Piero Coda

 

Avendo Giovanni Paolo II impresso un ritmo trinitario al nostro cammino verso il giubileo del 2000, ci sembra opportuno ravvivare e trasfondere nella vita di ogni giorno questo meraviglioso mistero della fede che è la partecipazione alla vita di Dio Uno e Trino. D’altra parte la sfida della teologia e della vita cristiana oggi sta tutta qui: aprire la via di una conoscenza reale, quasi tangibile, di Dio. E questo diventa possibile nell’unità.

 

«Fino a quando, Signore, mi nasconderai il tuo volto?» (Sal 13). Con queste parole il salmista esprime la sua fiduciosa invocazione a Dio. Conoscere Dio, contemplare il suo volto: che cos’altro desidera l’uomo di ieri, di oggi, di sempre? Desiderium videndi Deum: questo è l’uomo, questo significa ch’egli è la creatura fatta «a immagine e somiglianza» del Creatore.

Anche quando è nella prova ed è assalito dal dubbio, anche quando brancola nel buio della ricerca, anche quando non vuol ammettere d’essere alla ricerca di Dio o dice di non avvertirne il bisogno... “è” desiderio di Dio.

Questa la domanda che gli apostoli, alla fine, pongono a Gesù stesso per bocca di Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14, 8). Il Maestro, in realtà, non ha fatto altro che parlare loro del Padre, l’Abbà, ma essi ancora non l’hanno visto...

Ed allora, provocato dalla domanda, Gesù – nel contesto dell’ultima cena narrata dal quarto vangelo – li introduce nel mistero del Padre. Comincia chiedendo loro un salto in avanti nella fede, una conversione dello sguardo: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?» (Gv 14, 9-10).

Commenta il prologo: «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, Lui lo ha rivelato»
(Gv 1, 18). Gesù, infatti – proprio questa è la sconvolgente novità della fede cristiana – è il Teo-logo, la Parola compiuta e definitiva di e su Dio, la conoscenza del Padre.

Lungo tutta la sua esistenza e il suo ministero messianico sino al culmine pasquale, egli “glorifica” Dio perché la conoscenza che egli ha del Padre, in lui fatto uomo, viene partecipata per grazia agli uomini: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11, 25-27).

Come Gesù è nel Padre, e il Padre è in Gesù, così i discepoli sono chiamati a essere uno con Gesù, a essere uno in Gesù: e così anch’essi saranno, con Gesù e in Lui, nel seno del Padre.

Conoscere Dio
nell’unità e dall’unità

Ecco la suprema preghiera di Gesù: «E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me» (Gv 17, 22-23).

Gesù chiede al Padre per i suoi la realizzazione del desiderio che costituisce l’esperienza stessa dell’uomo: vedere Dio per essere una sola cosa con Lui.

L’unità, dunque, è il grande tema, meglio ancora la grande realtà dell’essenza e della teologia cristiana. La teologia cristiana è, insieme, una teologia dell’unità, e cioè una conoscenza del nostro esser fatti, per grazia, uno in Cristo e per Lui uno nel Padre; e una teologia dall’unità: perché, nella fede, noi conosciamo Dio, l’Abbà, solo in quanto siamo una cosa sola in Gesù.

Se è così, la teologia cristiana non è semplicemente un conoscere Dio, stando per così dire ancora “fuori” di Lui, ma è piuttosto un conoscere “in” Dio, un partecipare in Gesù, nel soffio dello Spirito, al reciproco rapporto d’amore del Padre e del Figlio.

Essa non è tanto una teologia “su” Gesù e “su” Dio in Gesù: ma è teologia “di” Gesù, e cioè la conoscenza che Gesù ha ed è del Padre, a cui noi partecipiamo se siamo una cosa sola in Gesù e tra noi. Così, la teologia cristiana diventa realmente ciò che è: un conoscere Dio in Dio e ogni cosa in Lui.

Quando il Concilio Vaticano II ci descrive che cos’è la rivelazione cristiana ci dice proprio questo, nella Costituzione dogmatica Dei Verbum: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare Se stesso e manifestare il mistero della sua bontà, mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura. Con questa rivelazione, infatti, Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e s’intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con Sé» (n. 2).

Dunque, la comunione e il dialogo nella chiesa – i grandi temi del Concilio – vanno compresi nella luce del rivelar-Si di Dio come Amore trinitario, che non è semplicemente la trasmissione di una dottrina su di Lui, ma piuttosto un partecipare alla Sua stessa Vita.

La chiesa, nella sua essenza più profonda, è comunione perché – come recita la Lumen gentium – essa è, in Cristo, «come un sacramento, e cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (n. 1).

Per questo, ancora, la comunione è «la sorgente e insieme il frutto della missione» della chiesa (cf Christifideles laici 32). Gli uomini d’oggi, che cercano il volto del vero Dio, lo possono trovare riflesso nel volto della chiesa, quand’essa vive l’unità. E possono finalmente saziare la loro sete di Dio e imparare a conoscerLo prendendo parte a quella vita di comunione con Dio che è la chiesa.

Sta tutto qui il dinamismo della «nuova evangelizzazione». Lo scrive la prima lettera di Giovanni: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo» (1, 2-3).

Parlando dell’ateismo e del rimedio ad esso (ma la stessa cosa si può dire oggi a proposito delle nuove forme di religiosità sincretista che si vanno diffondendo), la Costituzione pastorale Gaudium et spes sottolinea che «la chiesa ha il compito di rendere presenti e quasi visibili Dio Padre e il Figlio suo incarnato, rinnovando se stessa e purificandosi senza posa sotto la guida dello Spirito Santo. (...) A rivelare la presenza di Dio contribuisce moltissimo la carità fraterna dei fedeli, che unanimi nello spirito lavorano insieme per la fede del vangelo e si mostrano quale segno di unità» (n. 21). Cristo, infatti, è il sacramento del Padre. La chiesa che vive l’unità è il sacramento di Cristo.

Vorrei perciò evidenziare ed esplicitare brevemente solo tre aspetti di questa conoscenza di Dio nell’unità e dall’unità verso cui c’incalzano i segni dei tempi e, soprattutto, verso cui ci guida lo Spirito Santo, ispirandomi alla luce del carisma dell’unità:

- il primo, com’è che noi partecipiamo fin d’ora, nella chiesa, alla conoscenza che Gesù ha del Padre;

- il secondo, che cosa significa che noi così siamo inseriti nella Vita del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo;

- il terzo, che cosa ne deriva per la nostra concreta esistenza personale e comunitaria nella storia del nostro tempo.

Conoscere Dio come/nella chiesa

Perché sia possibile conoscere realmente Dio in Gesù, occorre innanzi tutto ravvivare la nostra fede nella sua presenza viva in mezzo a noi.

Aver fede in Cristo, partecipare ai sacramenti, riconoscerlo e amarlo nei fratelli e in primo luogo nei poveri (in senso materiale e spirituale), ascoltarlo in chi lo rappresenta per il ministero nella chiesa, godere della sua presenza nella comunità adunata nel suo nome... significa entrare in relazione qui, ora, con Lui risorto.

Anche questo è un grande insegnamento del Vaticano II. Scrive ad esempio la Costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium:

«Cristo è sempre presente nella sua chiesa (...). È presente nel Sacrificio della Messa sia nella persona del ministro (...), sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente con la sua virtù nei Sacramenti, di modo che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. È presente nella sua Parola, giacché è Lui che parla quando nella chiesa si legge la sacra Scrittura. È presente infine quando la chiesa prega e loda, Lui che ha promesso: “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io in mezzo a loro”» (n. 7).

La chiesa e, in concreto, la comunità ecclesiale anche piccola nella quale viviamo, è sacramento della presenza di Cristo. In quale modo?

La risposta è semplice: se e quando accoglie quei doni di grazia che Gesù le offre per assimilare i credenti a Sé e quando rende operanti quelle condizioni che ne rendono attuale la presenza tra i cristiani. In particolare:

- quando ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica nello scambio reciproco dei frutti che essa porta in noi;

- quando si nutre dell’Eucaristia quale sacramento che ci fa una cosa sola con Cristo e tra noi;

- quando vive il «comandamento nuovo» sulla misura vissuta da Gesù: «Questo è il mio comandamento, che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 12-13).

La Parola di Dio, accolta e vissuta, genera Cristo in noi, ci cristifica: perché vivendo la Parola non viviamo più in noi stessi, ma in Gesù, proiettati a compiere come Lui solo la volontà del Padre.

L’Eucaristia, portando a compimento la rigenerazione di noi in Gesù crocifisso e risorto iniziata nel battesimo, ci fa concorporei e consanguinei con Cristo, e un sol Corpo in Lui.

L’amore reciproco – quando, come Gesù, siamo pronti a donare la vita l’uno per l’altro, e ce lo dichiariamo esplicitamente e premettiamo quest’intenzione ad ogni nostro agire – attualizza questa grazia e manifesta la presenza di Cristo tra noi.

Cristo, infatti, che è già in noi per la Parola e l’Eucaristia, attraverso l’amore reciproco sboccia come un fiore e spande attorno a Sé il soave profumo della Sua presenza.

È il mistero dell’unità che diventa realtà visibile, tangibile, per quanto è possibile in terra coi nostri limiti e le nostre mancanze: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, ivi sono Io in mezzo ad essi» (Mt 18, 20).

La realtà della nostra partecipazione a Cristo, come chiesa, il nostro essere una cosa sola con Lui e in Lui diventa così, nell’unità e per l’unità, la vita della nostra vita.

Come diceva traboccante di gioia Sant’Agostino: «Rallegriamoci e ringraziamo: siamo diventati non solo cristiani, ma Cristo (...). Stupite e gioite: Cristo siamo diventati!»1.

Conoscere Dio come/nella Trinità

Vivere la chiesa nel suo mistero d’unità significa dunque, pienamente, «essere rivestiti di Cristo»: conoscere Cristo diventando progressivamente Lui. Sino a poter dire con San Paolo: «Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me» (Gal 2, 20).

Ma partecipare alla vita di Cristo vuol dire partecipare alla vita della Santissima Trinità. È la grande esperienza che ha fatto san Paolo, vivendo la sua fede come un processo vitale d’identificazione a Cristo, e a Cristo crocifisso. Ed è questo il “vangelo” ch’egli annuncia alle sue comunità: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio (...) perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; se poi figlio, sei anche erede per volontà di Dio» (Gal 4, 4-7; cf Rm 8, 15-17).

Diventare Cristo, significa ricevere da Lui lo Spirito della figliolanza e fare l’esperienza dell’amore di Dio come Padre. È così, in primo luogo, che conosciamo il Padre, l’Abbà che Gesù ci rivela.

Conoscere il Padre, vuol dire sperimentare nella propria vita il suo sguardo d’amore e di misericordia infinita: sguardo d’amore attraverso il quale Egli ci ha creato e continuamente ci dona l’esistere; sguardo di misericordia attraverso il quale Egli – come il padre della parabola del figliol prodigo – ci rigenera sempre a vita nuova quando noi, in qualunque situazione ci troviamo, ritorniamo a Lui con tutto il cuore.

Come scrive la prima lettera di Giovanni: «In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi»
(4, 10).

Conoscere il Padre come Amore significa contemporaneamente conoscere nell’amore e guardare con amore tutti i prossimi e ogni prossimo, anzi tutto ciò che ci circonda. «Se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri» (1 Gv 4, 11).

Ne scaturisce uno sguardo nuovo su tutta la realtà. Secondo san Tommaso d’Aquino, attraverso la fede viva noi siamo talmente innestati nella conoscenza divina da poter conoscere ogni cosa «quasi con l’occhio di Dio»2.

Chiara Lubich così esprime questa esperienza: «Ho sentito che io sono stata creata in dono a chi mi sta vicino e chi mi sta vicino è stato creato da Dio in dono per me. Come il Padre nella Trinità è tutto per il Figlio ed il Figlio è tutto per il Padre.

Sulla terra tutto è in rapporto di amore con tutto: ogni cosa con ogni cosa. Bisogna esser l’Amore per trovare il filo d’oro fra gli esseri...».

Conoscere il Padre Amore significa poi conoscere, in Lui, il Figlio come il Verbo del Padre, e cioè l’espressione d’Amore del Padre “dentro” di Sé.

E insieme conoscere Gesù come il Verbo fatto carne, Colui che, in ogni sua parola, in ogni suo atto, in ogni momento e dimensione del suo umano esistere, non ha fatto altro che rispondere con l’amore all’amore del Padre, vivendo come uomo nella nostra storia ciò che da sempre e per sempre Egli vive nel seno del Padre. Tutto ricevendo-Si, e tutto ricevendo da Lui; tutto donando-Si, e tutto donando a Lui.

In particolare, significa penetrare nel segreto più profondo e vitale della sua passione in croce, spinta sino all’estremo dell’abbandono e della morte: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

È il culmine dell’amore: il Figlio fatto uomo che si cala nell’abisso della lontananza da Dio degli uomini, che perde persino il sentimento della sua unione col Padre col quale è e resta uno, condividendo la loro situazione di peccato, per ricongiungerli al Padre.

Il Cristo crocifisso è il volto del più grande amore del Padre, è la rivelazione a noi del segreto di che cosa significa amare come Dio ama, di qual è la via per giungere all’unità con Dio e in Dio con tutti.

«Nemo intrat recte in Deum, nisi per Crucifixum»3 – insegnava san Bonaventura. E san Paolo prima di lui: «Io non conosco altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso» (1 Cor 2, 2).

Infine, lo Spirito Santo.

Egli, lo sappiamo, è il reciproco amore del Padre e del Figlio. L’amore con il quale il Padre ama il Figlio, e noi in Lui; l’amore col quale il Figlio, e noi in Lui, rispondiamo all’amore del Padre.

Anche questa non è una conoscenza puramente intellettuale. Se viviamo in-Cristo, noi avvertiamo l’illuminazione e l’azione dello Spirito, che infonde in noi l’amore di Dio: quell’amore appunto che – come scrive Paolo – «è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato»
(Rm 5, 5).

Ma occorre rivivere in noi la spogliazione del Crocifisso, tutto far tacere in noi, per imparare ad ascoltare la Sua voce. Anzi, per udire il suo mormorio soave e leggero dal fondo del cuore, per lasciar zampillare in esso l’acqua viva che purifica, disseta, rinvigorisce, ci fa pregustare la vita eterna...

San Giovanni della Croce giunge a scrivere: «L’anima, unita e trasformata in Dio, spira in Dio a Dio (e cioè in Cristo al Padre) la stessa spirazione che Egli, stando in lei, spira in Se stesso a lei (...). Non c’è da meravigliarsi che l’anima provi una cosa tanto sublime poiché, dato che Dio le faccia la grazia di giungere ad essere deiforme e unita con la Santissima Trinità in cui ella diventa Dio per partecipazione, è forse più incredibile che ella compia anche una sua azione di intelletto, di notizie di amore nella Trinità, ma per partecipazione, dato che è Dio stesso che la compie in lei?»4.

Conoscere Dio vivendo
l’amore trinitario nella storia

Ma come possiamo noi vivere concretamente queste realtà così alte? Non sono esse forse riservate a poche e privilegiate anime visitate da una grazia speciale del Signore?

Il Concilio Vaticano II è molto chiaro in proposito. Riprendendo un’affermazione di San Cipriano, presenta tutta la chiesa come «un popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Lumen gentium 4). E parla della «vocazione universale alla santità» di tutti i fedeli.

Inoltre, nella Gaudium et spes, presentando la vocazione dell’uomo, il Concilio afferma che «Cristo, rivelando il mistero del Padre e del suo Amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (n. 22). E che «con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo» (n. 22), e quando ha pregato il Padre «perché tutti siano uno», «prospettandoci orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità» (n. 24).

Che cos’altro è, infatti, la vita in Cristo, se non un vivere la vita trinitaria sulla terra, tra di noi?

Essere in comunione con la Santissima Trinità non significa soltanto custodire l’unione col Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito Santo, dentro il segreto del proprio cuore. Significa anche, e contemporaneamente, vivere nell’amore reciproco – e cioè sul modello e nell’interiorità della vita trinitaria – i rapporti coi fratelli nella nostra vita quotidiana, nella chiesa e nella società civile.

Proprio a ciò punta la preghiera di Gesù sull’unità: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi uno in noi» (Gv 17, 21).

La prima lettera di Giovanni giunge addirittura ad affermare che proprio vivendo l’amore reciproco si conosce a fatti, e non solo a parole, quel Dio che è Amore:

«Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è Amore (...). Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di Lui è perfetto in noi» (4, 7-8.12).

Probabilmente, ciò che lo Spirito Santo con maggiore insistenza e urgenza di amore dice oggi alla chiesa è proprio questo: «Diventa più pienamente ciò che sei, impara a vivere la comunione per essere immagine viva della Santissima Trinità in mezzo agli uomini».

Mi sia permesso citare una pagina scritta da Chiara Lubich nel lontano 1949, e dunque in anticipo profetico sui tempi che siamo chiamati a vivere, in cui è descritto in forma limpidissima lo spontaneo passaggio (spontaneo perché suggerito dallo Spirito) da una vita cristiana prevalentemente centrata sul rapporto del singolo con Dio, ad una in cui anche la comunione coi fratelli viene in pieno rilievo. Tutto sempre alla luce del mistero trinitario.

«I fedeli, che tendono alla perfezione, cercano, in genere, di unirsi a Dio presente nel loro cuore.

Essi stanno come in un grande giardino fiorito e guardano e ammirano un solo fiore. Lo guardano con amore nei particolari e nell’insieme, ma non osservano tanto gli altri fiori.

Dio chiede a noi di guardare tutti i fiori perché in tutti è Lui e così, osservandoli tutti, si ama più Lui che i singoli fiori.

Dio che è in me, che ha plasmato la mia anima, che vi riposa in Trinità, è anche nel cuore dei fratelli.

Non basta quindi che io Lo ami solo in me. (...)

Dunque la mia cella, come dicono le anime intime a Dio, e, come noi diciamo, il mio Cielo, è in me e come in me nell’anima dei fratelli. E come Lo amo in me, raccogliendomi in esso – quando sono sola –, Lo amo nel fratello quando egli è presso di me.

Allora non amo solo il silenzio, ma anche la parola, la comunicazione cioè del Dio in me col Dio nel fratello. E se i due Cieli si incontrano ivi è un’unica Trinità, ove i due stanno come Padre e Figlio e tra essi è lo Spirito Santo.

Occorre sì sempre raccogliersi anche in presenza del fratello, ma non sfuggendo la creatura, bensì raccogliendola nel proprio Cielo e raccogliendo sé nel suo Cielo.

E giacché questa Trinità è in corpi umani, ivi è Gesù: l’Uomo-Dio.

E fra i due è l’unità ove si è uno, ma non si è soli. E qui è il miracolo della Trinità e la bellezza di Dio che non è solo perché è Amore. (...)

Noi dobbiamo dar vita continuamente a queste cellule vive del Mistico Corpo di Cristo – che sono i fratelli uniti nel suo nome – per ravvivare l’intero Corpo. (...)

Ma occorre saper perdere il Dio in sé per Dio nei fratelli. E questo lo fa chi conosce ed ama Gesù crocifisso e abbandonato.

E quando l’albero sarà completamente fiorito – quando il Corpo Mistico sarà completamente ravvivato – rispecchierà il seme donde è nato. Sarà uno, perché tutti i fiori saranno uno fra loro come ognuno è uno con se stesso»5.

L’autentico rinnovamento della vita ecclesiale passa per questa strada. Dar vita continuamente e ovunque e a tutti i livelli a queste cellule vive del Corpo di Cristo, a queste cellule di vita trinitaria.

Ma questo implica un’esigente, anche se avvincente e liberante perché pienamente umana e divina insieme, ascesi di comunione.

In una parola, essa consiste nel conoscere ed amare appassionatamente – come insegna Chiara – Gesù crocifisso e abbandonato. E cioè – questo è il punto importante, anzi decisivo – imparare a spogliarsi di ogni cosa, anche la più sacra, come ha fatto Gesù sulla croce, per accogliere in sé il fratello.

Questa è la strada non solo per rifare il tessuto ecclesiale delle comunità cristiane, come spesso ha sottolineato il Papa parlando di «nuova evangelizzazione» – ma anche per dialogare e donare Gesù a chi lo cerca o ancora non lo conosce. In Occidente, dove la secolarizzazione ha corroso il senso di Dio lasciando un grande vuoto, e in Oriente, dove centinaia di milioni di persone ancora attendono l’annuncio di Cristo.

È ciò che insegna San Paolo: «Pur essendo libero da tutti, mi son fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero, giudeo coi giudei, greco coi greci (...) mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Cor 9, 19.22).

Non c’è altra strada per conoscere Cristo e per donare la conoscenza di Cristo.

Verso «Dio tutto in tutti»
seguendo la «via di Maria»

La conoscenza di Dio, la comunione con e in Lui che realizziamo essendo chiesa vissuta e partecipando alla vita della Santissima Trinità, è certamente imperfetta, ma allo stesso tempo è reale, realissima.

E’ un “già” che richiama un “non ancora”, anzi un “ancora di più”.

Tutta la Scrittura vibra di questa tensione escatologica verso il “faccia a faccia” con Dio.

La prima lettera di Giovanni, per esempio, esclama: «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! (...) Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come Egli è» (3, 1-2).

Dio, secondo l’espressione di Paolo, sarà un giorno “tutto in tutti”. Anche il cosmo, per la risurrezione della nostra carne nutrita del corpo glorificato di Cristo che ci è donato nell’Eucaristia, sarà trasfigurato in «cieli nuovi e terra nuova».

«Dio tutto in tutti»: l’unità ce lo fa assaporare e intuire. In Maria immacolata e assunta in Cielo col suo corpo già lo contempliamo nella fede.

Anzi, in Maria risplende dinanzi a noi il modello dell’autentica conoscenza di Dio, l’itinerario di chi s’incammina lungo la via dell’unità in Cristo.

Dall’accogliere in sé la Parola di Dio, all’annuncio dell’angelo, alla condivisione della gioia messianica che da essa scaturisce coi fratelli, nella visita ad Elisabetta.

Dall’intima partecipazione alla spogliazione del Figlio nello “stabat” ai piedi della croce, all’effusione dello Spirito a Pentecoste che pienamente la cristifica e la fa madre della chiesa, madre dell’unità.

«Maria – scrive S. Luigi Maria Grignion de Montfort – non esiste se non in relazione a Dio, Ella è l’eco di Dio, che non dice e non ripete se non Dio. Se tu dici Maria, Ella ripete Dio»6.

Questa è, anche grazie a Lei, la vocazione di noi tutti in Cristo. Come scrive Sant’Agostino, concludendo in preghiera il De Trinitate:

«Quando arriveremo alla tua presenza, cesseranno queste molte parole che diciamo senza giungere a Te; Tu resterai, solo, tutto in tutti, e senza fine diremo una sola parola, lodandoti in un solo slancio e divenuti anche noi una sola cosa in Te»7.

Piero Coda

 

 

1)   In Ioann. Evang. tract., 21,8.

2)   In Boethium de Trinitate, q.III, a.1.

3)   Itinerarium mentis in Deum, prol. 3 et 3.

4)   Cantico spirituale, red. A, str. 38,3.

5)   Guardare tutti i fiori, in Nuova Umanità XVIII (1996) 2, 133-135.

6)   Trattato della vera devozione a Maria, 225.

7)   XV, 28, 51.