Perché oggi si privilegia nella chiesa la centralità della comunione? Perché spesso non si riesce a realizzarla?

 

Educarsi alla comunione

di Enrique Cambón

 

 

Tanti cristiani vorrebbero acquisire un’azione ed un linguaggio più adatto ai tempi per «dare ragione» della loro fede, ma non riescono a farlo per mancanza di riferimenti chiari e sicuri. Il presente articolo, nella sua brevità, vuole essere un piccolo contributo in tal senso, circoscritto alla realtà fondamentale della chiesa–comunione.

Quale chiesa?

Domandarsi cos’è la chiesa è estremamente importante, per il fatto che tutto quello che si fa in essa ad ogni livello, lo si sappia o meno, dipende da come la si concepisce.

La risposta a tale interrogativo non è ovvia, e tantomeno semplicistica o univoca. Già negli scritti del Nuovo Testamento si può parlare di un «pluralismo ecclesiologico», nel senso che mostrano accentuazioni diverse, seppure complementari, delle caratteristiche che devono distinguere la comunità cristiana.

In seguito, attraverso i secoli, si sono date molteplici fisionomie della chiesa, frutto dell’incontro fra i valori affermati dal Vangelo e le circostanze culturali, economiche, politiche, di diversi luoghi ed epoche.

Anche oggi si possono facilmente individuare diversi «modelli» o concezioni che coesistono fra le varie chiese cristiane e all’interno della stessa chiesa cattolica. A seconda delle accentuazioni (l’aspetto giuridico, quello cultuale–sacramentale, la centralità della Parola, il servizio al mondo, ecc.), diverso risulta il modo di vivere e di presentare la chiesa.

I «nomi» della chiesa

Come si sa nella Bibbia ci sono molti modi di chiamare la chiesa (sposa di Cristo, famiglia di Dio, edificio di Dio, città santa, e tanti altri). Quello che forse non è ugualmente chiaro a tutti, è che ognuno dei nomi biblici descrive tutta la chiesa, vista da un’angolazione particolare.

A partire dal Concilio Vaticano II – e dal dialogo teologico fra le chiese in ambito ecumenico – si sono privilegiati tre modi biblici di nominare la chiesa: Popolo di Dio, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito. Ciò ovviamente non è senza motivo. Questi «nomi» mettono in rilievo delle caratteristiche che oggi sono avvertite come particolarmente importanti. Vediamone alcune, molto sinteticamente.

L’immagine di Corpo di Cristo sottolinea ad esempio la complementarietà e l’uguale dignità di tutti nella chiesa («non può l’occhio dire alla mano: “non ho bisogno di te”» 1 Cor 12, 21), la mutua solidarietà («siamo membra gli uni degli altri» Rom 12, 5), la profonda unità che unisce tutte le sue membra («pur essendo molte, sono un corpo solo» 1 Cor 12, 12). Allo stesso tempo, come ogni corpo, la chiesa costituisce un organismo ordinato (1 Cor 12, 28; Ef 4, 11-12), ed ha un capo che è Cristo (Col 1, 18; Ef 4, 15-16).

Tempio dello Spirito mette in rilievo la permanente giovinezza e riforma a cui la chiesa è chiamata, la creatività e profezia che la devono sempre rinnovare, il pluralismo che l’abbellisce ed arricchisce, la varietà dei carismi che la fanno feconda («vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito» 1 Cor 12, 4).

Popolo di Dio ci ricorda che la chiesa, come ogni popolo, è contraddistinta dalla storicità. Per cui ha momenti di splendore ed altri di crisi, avrà di volta in volta l’impronta del tempo e delle civiltà in cui vive, dovrà essere cosciente del suo passato ma aperta alle novità di Dio nella storia, e quindi soggetta, sempre che sia necessario, a correzioni e revisioni. Inoltre fa presente il suo carattere «popolare», quindi il posto e il protagonismo che in essa devono avere i poveri. Infine non può essere né un’anarchia né un gregge, ma deve avere un ordinamento organico: come in ogni popolo, tutti devono avere gli stessi diritti e doveri, ma non tutti hanno gli stessi ruoli e responsabilità.

Chiesa-comunione

Veniamo adesso al punto centrale che c’interessa. È riconosciuto da tutti che il Vaticano II – e lo stesso dialogo ecumenico interecclesiale – identificano nella comunione la realtà più profonda della chiesa. Cosa si vuole mettere in rilievo con tale accentuazione sulla chiesa-comunione? Detto molto sinteticamente, almeno due cose che costituiscono il fondamento della centralità della comunione nella chiesa.

La prima scaturisce dal cuore del messaggio evangelico: la carità è l’essenza della chiesa. La sua presenza la rende viva, la sua assenza la rende morta («se non avessi la carità non sono nulla» 1 Cor 13, 2).

La seconda che, se la carità ha una tale centralità, non lo è per un’opzione convenzionale, bensì perché l’Amore costituisce la stessa vita di Dio (cf 1 Gv 4, 8.16), quell’amore che fa di Dio non solitudine ma «famiglia», unitrinità. Perciò oggi si riconosce, con un’universalità di consapevolezza ed una ricchezza di significato mai raggiunte in passato, che la chiesa trova nella Trinità le sue radici, il suo «luogo», il suo dover essere.

Tale riscoperta non esclude gli altri aspetti della chiesa, anzi, li valorizza e li potenzia da ogni punto di vista:

Nella sua dimensione cultuale: Cosa sarebbero la liturgia, il battesimo, l’Eucaristia, gli altri sacramenti, senza la comunione che dev’essere la loro radice e finalità? Non per niente oggi il ministero, ad esempio, è concepito – attraverso la Parola e l’Eucaristia – come servizio all’unità.

A livello dottrinale: quale rilevanza avrebbe un insegnamento, una catechesi, una presentazione della dottrina cristiana perfettamente ortodosse, che non fossero ravvivati da quella carità che sboccia nella comunione? Rimarrebbero astratti e sterili.

Nell’aspetto di diakonia: A cosa si ridurrebbe la dimensione di servizio della chiesa all’umanità attraverso la promozione umana e sociale, senza la dimensione agapica-comunionale? Andrebbe incontro soltanto ad una parte della fame dell’essere umano, quella materiale, senza rispondere alle sue esigenze più profonde, cioè la nostalgia del divino e di rapporti fraterni, divinizzati.

L’esperienza mostra abbondantemente che i migliori piani pastorali possono rimanere lettera morta, e le più adeguate strutture diventano pesante burocrazia, senza la carità che li ravviva.

Una parrocchia rinnovata

Prendiamo come verifica di ciò che veniamo dicendo quest’istituzione che avendo avuto grande importanza storica, è oggi molto amata ma anche molto discussa: la parrocchia. Costituendo le parrocchie cellule della chiesa, è logico dedurne l’importanza per esse della concezione di chiesa che sostiene la loro vita e impostazione.

Le numerose pubblicazioni di questi ultimi anni sul necessario rinnovamento della parrocchia affrontano moltissimi argomenti, teorici e pratici. Tuttavia si può notare in esse una linea comune, perché tutte fanno riferimento ai grandi temi della comunione e della comunità.

La crescita dell’esigenza di una comunionalità trinitaria (almeno a livello di affermazioni di principio, tanto nei documenti ufficiali delle chiese come nella letteratura teologica, catechistica, pastorale e spirituale) è tra i segni dei tempi più avvertiti in campo ecclesiale. L’esigenza d’unità che oggi si vive nella maggior parte delle chiese cristiane, è uno dei motivi per cui il segretario generale del Consiglio ecumenico delle chiese poteva affermare che, nell’epoca attuale, si stanno scrivendo alcune delle pagine più belle della storia della chiesa.

Sono le idee – si dice a ragione – che cambiano la storia. Eppure da sole esse non bastano. Idee giuste, lucidità d’analisi, prospettive adeguate ai tempi, sono una grande fortuna quando si riesce ad averle, perché almeno indicano una direzione giusta. Però da sole sono insufficienti.

Un esempio eclatante a riguardo lo costituiscono i consigli e gli organismi (le cosiddette «strutture di comunione») che all’interno della chiesa cattolica lo stesso Vaticano II propone come strumenti per concretizzare la comunione ecclesiale a tutti i livelli: se non si ha l’esperienza di uno stile di vita trinitario, non li si sa usare adeguatamente e diventano inutili o per lo meno inefficaci.

Necessità dell’esperienza

Non sono tanto i contenuti, le proposte che mancano (anche se, ovviamente, quelli esistenti possono  sempre essere meglio formulati ed altri nuovi devono sorgere). La domanda di fondo non verte tanto sul «che cosa?» quanto sul «come fare?».

Oltre tutto è un interrogativo intelligente e fondamentale per ogni epoca. Se di fronte al primo annunzio della comunità apostolica, gli ascoltatori domandavano: «Fratelli, cosa dobbiamo fare?» (At 2, 37), oggi aggiungeremmo: «come dobbiamo farlo?».

Soprattutto per ciò che riguarda i rapporti di tipo trinitario, pochi ne hanno un’esperienza che li renda capaci d’esprimerla concettualmente e di generarla comunitariamente. È troppo forte ancora il peso dell’educazione individualistica dalla quale proveniamo.

Chiara Lubich, rispondendo ad un’intervista, diceva che oggi ci vuole «un’educazione all’unità». E Giovanni Paolo II, concludendo il Sinodo della diocesi di Roma, affermava la necessità di «scuole di comunione». Infatti una «spiritualità collettiva», cioè uno stile di vita «a mo’ della Trinità», che pervada tutti gli aspetti della chiesa, costituisce un cammino nuovo di santità e di socialità che ha le sue tappe e una propria ascesi. Non s’impara con lezioni teoriche. Si cresce in questa esperienza attraverso un contagio vitale, vedendo come altri si muovono, condividendone la vita. Solo persone e gruppi che hanno «visto» e sperimentato un’unità di tipo trinitaria, pur con i loro limiti diventano strumenti di Dio per generare una chiesa sempre più vivificata, abbelita e fatta feconda dalla comunione.

 

Enrique Cambón