Flash di vita

 

Da uno slum nasce
una comunità viva

John faceva il ragioniere a Bombay, una delle più affollate e vertiginose città dell’India, e si era ben piazzato economicamente, quando ha sentito la chiamata a seguire Gesù. Ha abbandonato tutto e si è preparato al sacerdozio. Dopo un’esperienza in un villaggio sperduto nello stato di Madhya
Pradesh, il suo vescovo gli ha affidato un incarico che può sembrare strano in altri contesti. Nella periferia di una città indiana la diocesi più di trent’anni fa aveva acquistato una fattoria di circa 130.000 metri quadri. John era ora mandato dal suo vescovo a prendersene cura.

Quando nel 1989 John andò ad abitare in quel posto insieme a due seminaristi, si sentì stringere il cuore. I responsabili della diocesi avrebbero voluto che valorizzasse la proprietà e, allo stesso tempo, curasse la vita dei cristiani che abitavano nella zona. Con tutta la sua buona volontà, nel vedere la povertà materiale e morale in cui queste famiglie vivevano, non ha avuto il coraggio di reclamare alcun diritto.

Quel luogo, non conteneva delle strutture adeguate ad una parrocchia ma era soltanto una fattoria abbandonata con qualche costruzione cadente che nei tempi passati era servita agli agricoltori. Con l’arrivo del sacerdote cominciava ad essere utilizzata come punto di incontro per la messa domenicale. Nella prima domenica c’erano quattro o cinque persone che diedero un’offerta equivalente a 125 lire italiane.

Tutt’intorno il quadro era desolante: anche le famiglie cattoliche, assorbite dal problema della propria sopravvivenza, avevano abbandonato la pratica religiosa e andavano in chiesa solo a Natale e a Pasqua.

John ha iniziato l’attività pastorale stabilendo con i due seminaristi un rapporto fraterno, basato sul comandamento nuovo; poi con il loro aiuto ha preso contatto con le famiglie, visitandole una per una e creando rapporti di fiducia.

Un vecchio capannone è stato trasformato in luogo di preghiera ed ha cominciato a riempirsi la domenica. In pochi mesi non era più sufficiente. I giovani hanno voluto ampliarlo, ma quando è venuto il vescovo, dopo appena un anno, ha dovuto celebrare la messa all’aperto per accogliere tutti.

Impressionato, egli ha chiesto da dove fossero venute tante persone. Alla risposta che era tutta gente del posto, ha suggerito di riparare un altro vecchio capannone più ampio, adibito prima ad allevamento di polli, per poterlo utilizzare per le attività parrocchiali. Con la collaborazione di tutti ci sono riusciti.

Il 3 marzo 1991 il vescovo è tornato di nuovo per benedire il locale e ha eretto la vecchia fattoria in parrocchia, dedicandola a San Martin de Porres, il protettore dei poveri. Dopo anni di lavoro paziente stava nascendo una vera vita di comunità tra i cristiani.

Ad un certo momento si è dovuto affrontare il grave problema della proprietà terriera. Il governo si era riappropriato già di una parte con la costruzione di una grossa strada, mentre il resto era stato suddiviso in parti uguali tra le 600 famiglie cattoliche. Queste avevano occupato abusivamente gran parte del terreno, costruendovi poverissime abitazioni e trasformando in una baraccopoli il terreno circostante la chiesa.

Il ruolo del parroco era molto delicato, perché non tutti in diocesi concordavano nel donare la proprietà agli occupanti, ma pur in mezzo a mille difficoltà tutto si è risolto bene e i frutti sono stati abbondanti.

Più di 100 matrimoni sono stati regolarizzati. La comunità parrocchiale oggi è di 3.500 persone. Con il vescovo c’è un rapporto cordiale e caloroso: egli non è più il padrone della terra, ma il pastore della comunità.

E non è tutto.

Alcuni giovani del Movimento dei focolari hanno visitato questa originale parrocchia e, colpiti dalla povertà ma anche dalla vita evangelica che qui si cerca di vivere, hanno lanciato tante iniziative nella loro città per raccogliere fondi, coi quali la comunità ha potuto aiutare due famiglie particolarmente bisognose, iniziare una piccola biblioteca per la gioventù e comprare una tv e un videoregistratore per usare audiovisivi nella formazione di ragazzi e adulti. Alcune famiglie del Movimento dei focolari hanno dato vita ad un progetto di adozioni a distanza, mentre con l’aiuto di una congregazione di suore viene gestito un programma di educazione e di assistenza sanitaria per i bambini.

«Se guardo a questi anni passati qui – ci confida il parroco – posso dire che il nostro piano di evangelizzazione è stato quello di cercare di mettere in pratica il vangelo nella situazione drammatica in cui ci siamo trovati e, da parte mia, di predicare solo ciò che mi sforzo di vivere. Ci sono stati tanti alti e bassi, tensioni, paure, fallimenti ma la comunità cristiana è rinata».

Il vescovo, in occasione della sua ultima visita per amministrare il sacramento della cresima, gli confidava: «Dopo tanto tempo ho fatto un’esperienza straordinaria: ho visto una comunità viva!».

 

 

Darryl d’Souza

Ciò che i regimi
non possono fare

Durante gli anni della dittatura comunista, nella Germania dell’Est la propaganda atea del regime era spietata e cercava con ogni mezzo di sradicare la fede. I cristiani venivano discriminati e non era permesso loro l’accesso a posti di responsabilità, mentre i loro figli non potevano fare studi superiori o frequentare l’università se i genitori non scendevano a compromessi, mandandoli, per esempio, alla cosiddetta “Jugendweihe”, una specie di cresima socialista. Tutta l’attività religiosa era relegata nell’ambito delle mura della chiesa senza possibilità di uscite a vita pubblica.

Certamente non era facile vivere in queste condizioni, ma gli abitanti di Kella, un paesetto della Turingia, nella zona di confine fra l’Est e l’Ovest, hanno trovato il modo di fare un’interessante esperienza. Ce la racconta una famiglia del posto.

Negli anni ’80 è arrivato un parroco che ci ha aperto come uno spiraglio, mostrandoci che il vangelo può essere vissuto in qualsiasi situazione. Prima alcuni giovani, poi le loro famiglie e, quindi, tante persone della parrocchia hanno riscoperto che Dio è amore ed hanno iniziato a porre in pratica il comandamento nuovo di Gesù. Anch’io sono rimasta impressionata dal cambiamento di mia figlia.

Ben presto abbiamo scoperto che la fonte di questo nuovo stile di vita era il Movimento dei focolari e ci siamo sentiti parte di una famiglia che si estende ben al di là dei confini della nostra parrocchia. Il nostro gruppo, formato da giovani e adulti, s’impegnava a vivere il vangelo, ricominciando sempre, rinnovando il patto dell’amore reciproco, comunicandosi le esperienze della Parola di Dio e mantenendosi in contatto con tutto il Movimento. E abbiamo cominciato a sperimentare cosa vuol dire essere chiesa viva.

La riunificazione della Germania ha portato, tra l’altro, dei gravi problemi economici, soprattutto tanta disoccupazione. Dalla nostra vita d’unità sono nate iniziative concrete, che hanno coinvolto un po’ tutti, mettendo a frutto i vari talenti. Si è rimodernata la casa canonica, divenuta ormai un centro di convergenza per tutti; e si è potuto aiutare una famiglia, la cui casa era stata devastata da un incendio. Un gruppo di donne disoccupate si è messo a confezionare cravatte e foulards di seta dipinti a mano e così, oltre a venire incontro alle proprie necessità, dà annualmente un migliaio di marchi per l’economia di comunione.

Un’esperienza molto bella di chiesa viva, sia per gli abitanti del paese che per i visitatori, è stata una manifestazione del Movimento dei focolari, la Mariapoli vacanze, che abbiamo potuto ospitare per ben tre volte. Con generosità sono stati messi a disposizione letti, provviste che si avevano in cucina e in cantina, tempo e doti. Si sono messi a posto il campo sportivo, poco usato prima, e tutti quegli angoli del paese che non erano in ordine.

Alcuni di noi hanno fatto anche da guida ai mariapoliti per le gite nei dintorni. Sono nati rapporti nuovi con tante persone che prima neanche conoscevamo. Due coppie di giovani, dopo aver passato qualche giorno con noi, hanno voluto festeggiare le loro nozze a Kella, per l’atmosfera spirituale che vi si respira. Sono state due giornate di festa per tutto il paese.

Il Movimento dei focolari ci ha anche dato altre occasioni per vivere l’ospitalità. Abbiamo accolto alcune famiglie della Repubblica Ceca, un sacerdote con 4 studenti russi, persone profughe della Bosnia... Con generosità si sono aperte le case, si sono fatte gite e visite e, nonostante le barriere della lingua, abbiamo potuto comunicarci le esperienze sulla Parola di Dio.

Un giorno ci telefona un sacerdote tedesco che lavora in una parrocchia di cattolici a Celyabinsk, una città russa degli Urali. Un gruppo di 16 scolari con la loro insegnante è in volo verso la Germania, ma per un imprevisto non possono più essere ospitati nel luogo prestabilito. Ci chiede se la nostra comunità parrocchiale può accoglierli. I telefoni si riscaldano. Bisogna prenderli da un aeroporto distante 250 km. In breve tempo troviamo le famiglie per ospitarli durante tre settimane, prepariamo i pasti per tutti, procuriamo il necessario per la loro permanenza tra noi, perché loro non hanno i soldi per mantenersi. È una sfida, ma tutto serve perché l’unità e l’amore crescano. È arrivato di tutto: torte, frutta, scarpe e maglioni per difendersi dal freddo, automobili ed autisti con tempo libero per visitare luoghi interessanti e belli, vicini e lontani. Ciò è stato fatto con carità e pazienza da parte di tutti.

Galina, l’insegnante russa che accompagna i ragazzi, ci ha chiesto: «Chi vi paga per questo lavoro che fate per noi?». Abbiamo risposto che facciamo tutto liberamente e gratuitamente. E Galina, sbalordita, commentava: «Da noi nessuno lavora se non è pagato».

Sentendosi a loro agio, gli amici russi hanno voluto conoscere più a fondo la nostra vita ed hanno così cominciato a scoprire il vangelo. Molti di loro hanno partecipato per la prima volta alla celebrazione eucaristica. È stato un momento di Dio. Alla loro partenza lacrime e commozione profonda.

Dopo alcune settimane riceviamo una lettera da Celyabinsk. È Galina che tra l’altro scrive: «Da quando siamo tornati vi abbiamo nel cuore. I miei scolari e i miei figli ringraziano con me Dio d’avervi conosciuti. I giorni passati con voi ci sembrano un sogno. Raccontiamo sempre quest’esperienza a parenti, amici e conoscenti. Spesso con i miei scolari ci ripetiamo: “Chi è felice, può donare felicità; chi lo fa accresce la propria”. Queste parole sono diventate per me e per loro il motto che orienta la nostra vita. Forse c’incontreremo presto. In Germania o in Russia? Vi salutiamo con affetto».

Abbiamo l’impressione che quell’amicizia sovietico-tedesca, che il regime comunista in 40 anni di dittatura non è riuscito a costruire, è ora fiorita tra noi semplicemente come frutto del vangelo vissuto.

 

 

Inge e Ernst Montag