Alcuni utili suggerimenti prendendo spunto da un’opera di Piero Coda

 

Come fare teologia oggi?

a cura di Enrique Cambón

 

È appena uscita un’introduzione alla teologia, ultimo lavoro di Piero Coda, autore ben noto ai nostri lettori1. L’apporto originale dell’opera sarà analizzato, in modo ampio e nei suoi risvolti tecnici, in un’intervista che apparirà nella rivista di cultura «Nuova Umanità»2. Qui ci limitiamo a porre in luce alcuni aspetti pratici, che pensiamo possano essere di particolare interesse, oltre che per gli studiosi, soprattutto per i pastori e gli studenti.

La spiritualità, humus della teologia

GEN’S: Qual è l’importanza di una spiritualità per la ricerca teologica? In che senso si può parlare, come faceva nei suoi ultimi scritti Klaus Hemmerle, di «intellectus unitatis»?

Oggi si sta riscoprendo che la grande teologia cristiana è sempre stata legata alla spiritualità, intesa nel senso paolino alto di vita nello Spirito.

È stato così con i Padri della chiesa. Nel medioevo la teologia si è rinnovata attraverso le grandi correnti spirituali, come quella francescana e domenicana. Nell’epoca moderna invece c’è stato sovente un divorzio tra santità e teologia, tra spiritualità e teologia; così quest’ultima ha peccato spesso di razionalismo, di lontananza dalla vita e anche dalla cultura del proprio tempo. Oggi siamo in una stagione in cui la spiritualità sta tornando ad essere humus e direi parola d’ordine primaria della teologia.

In un recente seminario di studio fra rappresentanti di tutte le facoltà teologiche italiane sulla frammentazione del sapere teologico, tutti i maggiori teologi italiani, che hanno anche esperienza di insegnamento, giungevano alla conclusione che oggi occorre una teologia sapienziale. Anche se non si sa ancora dire – e loro stessi lo riconoscevano – che cosa significhi precisamente «teologia sapienziale», è questa la grande esigenza avvertita dagli studenti di teologia, dal popolo cristiano, dai teologi stessi.

Io ho avuto il dono, e di questo ringrazio infinitamente Dio, di studiare teologia e poi di approfondirla, come professore, all’interno di un’esperienza spirituale: quella scaturita dal carisma dell’unità di Chiara Lubich. In questo modo, la teologia per me è sempre stata nutrita di spiritualità e, a sua volta, ha dato nutrimento alla mia esperienza spirituale. È stata cioè ulteriore impulso, come dice Chiara, a conoscere di più Dio per amarlo di più; e ad amarlo di più per conoscerlo di più, e in Lui conoscere meglio la storia che viviamo.

Alla fine del corso di introduzione alla teologia che tengo al Laterano, dico, con una battuta, agli studenti: spero che abbiate imparato qualcosa sulla teologia come disciplina in cui si cerca di amare Dio con l’intelligenza, per amare con un po’ più d’intelligenza l’umanità!

Il dono che il carisma dell’unità ha dischiuso alla mia ricerca teologica in questi anni, e che cerco di esprimere in questo testo d’introduzione alla teologia, anche se solo in modo molto embrionale, è questo: proprio l’esperienza tipica di questa spiritualità – l’esperienza dell’unità in Gesù risorto che vive in mezzo ai suoi – è diventata per me il luogo e il presupposto dell’atto teologico, quello che Klaus Hemmerle  chiama intellectus unitatis. La teologia non è altro per me che la comprensione, nell’intelligenza, di quell’esperienza di comunione con Dio in Cristo risorto e tra le persone, che si realizza anche grazie alla mediazione di questo carisma.

Non per niente ho presentato all’inizio di questo volume l’icona dei discepoli di Emmaus, che esprime precisamente questa realtà: i discepoli che, per la presenza del Cristo risorto in mezzo a loro, si aprono all’intelligenza delle Scritture. Il verbo greco che viene utilizzato da Luca è interpretò (dierméneusen): Gesù risorto in mezzo ai suoi fa l’«ermeneutica» di tutto ciò che lo riguarda nelle Scritture.

Questo per me è l’atto teologico: partecipare a questa esperienza del Cristo risorto che vive in mezzo a noi, e permettere che Lui in ciascuno di noi diventi grazie allo Spirito Santo l’interprete di Se stesso, nella Scrittura e nella storia del nostro tempo.

Cristo che fa teologia in noi

GEN’S: Teoricamente, penso, i teologi in genere potrebbero essere d’accordo con queste tue espressioni. Ma credo che la domanda di fondo sia: che cosa significa concretamente fare teologia alla luce della presenza del Risorto? Come si fa in pratica per lasciare che Gesù risorto sia l’ermeneuta nella ricerca teologica?

Oggi la teologia si avvicina a comprendere questo dato di fondo dell’epistemologia teologica; ci sono per esempio delle espressioni molto belle in proposito del teologo tedesco H.J. Pottmeyer. La cosa fondamentale è, appunto, come realizzare tutto questo nella prassi. E cioè, come il teologo, o meglio la comunione dei teologi, possa camminare in questa direzione.

E qui mi pare che occorre effettivamente scoprire una metodologia esistenziale, che faccia cogliere come attualmente presente in mezzo a noi l’azione dello Spirito del Cristo risorto. Mi sembra che la cosa fondamentale sia aprirsi a una visione dell’intelligenza teologica che non è solamente atto del singolo teologo che per conto proprio, nel confronto con la Scrittura, tenendo conto della Tradizione, in un dialogo con i suoi colleghi di ricerca (che però rimane un dialogo esterno), ricerca la verità. Il teologo sempre di più deve scoprirsi come espressione della chiesa concreta, per cui deve vivere in dialogo con tutte le istanze che trasmettono la verità cristiana (Scrittura, Tradizione, Magistero), ma anche con gli altri teologi, con la comunità dei credenti, con i carismi del proprio tempo... E questo deve avvenire in una dinamica di reciprocità, anzi di reale pericoreticità.

Nell’ambiente universitario, così com’è organizzato attualmente, ciò risulta abbastanza difficile da realizzare, per tanti motivi anche strutturali. Ho potuto fare, invece, questa esperienza all’interno di quella originale scuola, chiamata «Scuola Abbà», che è nata attorno a Chiara per lo studio e l’esplicitazione dell’altissima teologia, per molti versi densa di novità, contenuta nel carisma dell’unità.

Lì è effettivamente possibile realizzarlo, proprio perché si parte esplicitamente e intenzionalmente dal mettere a base anche del lavoro teologico l’amore reciproco per “meritare” la presenza di Cristo in mezzo a noi.

Questa stessa esperienza la faccio nella comunità sacerdotale in cui vivo. In essa vi sono dei giovani dottorandi in teologia coi quali, sulla base di un’esperienza di vita vissuta insieme, si porta poi avanti anche la ricerca teologica. Dalla comunione che si realizza e dai frutti dei loro lavori, si avverte che si apre una nuova dimensione di questo pensare in comunione. Non è un semplice pensare insieme, è un pensare in qualche modo pericoreticamente, per quanto è possibile all’interno della storia e coi nostri limiti.

Trinitarietà e pensare teologico

GEN’S: Infatti nel tuo testo parli esplicitamente del dinamismo trinitario come originario e strutturante per tutta la teologia. Tuttavia si avverte oggi in tanti cristiani, soprattutto teologi, una specie di «agnosticismo» a questo riguardo, perché forse si percepisce la teologia trinitaria come un insieme di teoremi logici per specialisti, qualcosa di molto complesso e poco pratico per la vita concreta. Al contrario altri autori riconoscono nella Trinità la realtà più propria ed originale della fede cristiana, ma nello sforzo di mostrare la sua praticabilità comunitaria e sociale, accentuano più il tripersonalismo che l’unitrinità divina...

Questo è vero. Ci sono queste due tendenze. Quella dell’agnosticismo trinitario nasce, a mio avviso, fondamentalmente dal fatto che giustamente si rifiutano certi modelli di comprensione del mistero trinitario concepiti in modo troppo essenzialista e astratto. Anche nel dialogo con le altre religioni essi  risultano troppo antropomorfici e legati a una determinata cultura occidentale. Mi pare quindi che in questa tendenza all’agnosti-
cismo trinitario c’è l’invito a rispettare l’ineffabilità del mistero di Dio e, diciamo, a slegarsi da certi a priori un po’ sclerotizzati di comprensione del mistero trinitario.

Il grande limite, in questo caso, è però quello di affossare tutta la grande tradizione della chiesa che si è sempre costruita nella certezza di aver a che fare, quando si parla di quella che Rahner chiama la Trinità immanente, Dio in Sé, con un dato ontologico che la rivelazione ci dischiude, perdendo così di vista lo specifico che la rivelazione cristiana porta per la comprensione stessa del senso dell’essere e dell’esistere storico-concreto.

Dall’altra parte, il tripersonalismo, che oggi può tendere anche (il più delle volte inconsapevolmente) al triteismo, ha risposto positivamente all’esigenza di ripensare in una chiave più dinamica, più comunionale il rapporto tra le tre Persone divine: e quindi anche in termini più comprensibili e più vivibili dalla fede cristiana. Però, a sua volta, denuncia una carenza talvolta pericolosa di approfondimento ontologico, contravvenendo anche qui a una ricca tradizione del pensiero cristiano, che è sempre stato attentissimo al dato dell’unità di Dio.

Oggi occorre rispondere alle istanze positive che sono avanzate da queste due posizioni certamente parziali e insoddisfacenti, se prese in modo unilaterale ed estremistico.

Prima di tutto, bisogna partire da una forte esperienza e comprensione del mistero trinitario vissuto nella comunità cristiana. Occorre, cioè, una base esistenziale in cui, vivendo in qualche modo la realtà trinitaria, l’amore scambievole, si sperimenta da un lato la distinzione dei soggetti e la realizzazione progressiva delle singole persone, dall’altro  un’unità che ci supera, e così anche l’ineffabilità e la trascendenza del mistero di Dio.

Su questa base esistenziale occorre rinnovare il grande discorso sull’ontologia del mistero trinitario, coniugando unità di Dio e trinità delle Persone. Probabilmente una delle piste che vanno perseguite è quella di pensare l’unità di Dio, come più volte ha ribadito Giuseppe Maria Zanghì, non più, come tendenzialmente si è fatto finora, prima della distinzione personale, cioè prima dell’evento della rivelazione (per cui si dà un De Deo Uno prima del De Deo Trino), ma dopo la rivelazione: in quell’atto di distinzione abissale che ci è rivelato nell’abbandono di Gesù sulla croce. Quindi, occorre pensare l’unità, l’Uno di Dio, nella novità gravida di conseguenze ontologiche e pratiche che ci dischiude la rivelazione della Trinità delle Persone in Gesù abbandonato.

Questo mi pare fondamentale sia per il dialogo con le religioni monoteistiche
(ebraismo e islam) sia per il dialogo con le grandi religioni orientali, dove una difficoltà forte è appunto costituita da un tripersona-
lismo presentato in maniera ingenua e antropomorfica, che non riesce a esprimere il mistero dell’unità di Dio. Mistero che non è semplicemente quello della pericoreticità fra le tre Persone, ma proprio quello dell’unità profonda dei Tre in cui ciascuno è l’Uno e tutti e Tre insieme sono l’Uno che è Amore. Questa, probabilmente, è una delle frontiere prossime del pensiero cristiano, da cui può nascere o rinascere un grande pensiero metafisico con un respiro più universale.

Come discernere verità ed errore?

GEN’S: Nella storia ci sono state delle eresie che non potevano essere accettate perché recavano danno al cristianesimo e all’umanità; però è anche vero che in tantissime occasioni, affermazioni o realtà che all’inizio sono state contrastate nella chiesa, poi si sono dimostrate vere ed importanti. I cattolici, poi, trovano con frequenza delle nuove ipotesi teologiche, pur suggestive, in contrasto con le affermazioni del magistero. Con quali criteri discernere la verità per non fermare il giusto avanzare della storia?

Penso che la prima grande regola per poter orientarsi nel dibattito teologico e per comprendere il positivo delle puntualizzazioni fatte dal magistero ecclesiale, è quella di rafforzare la propria esperienza spirituale. Occorre avere – come diceva san Tommaso d’Aquino – connaturalità per le verità cristiane.

Questo è il punto fondamentale: il credente, in base alla propria esperienza di fede, acquista quel sensus fidei che gli permette di orientarsi, forse non ancora nella tecnicità di discorsi più o meno raffinati, ma con sicuro intuito, su una linea e una prospettiva aderente alla verità, cioè al progetto di Dio sull’umanità.

Un secondo grande criterio mi pare che è dato dal vivere un’esperienza di comunità cristiana reale, dove è possibile un vero dialogo. Occorre confrontarsi e porsi nella condizione di leggere l’esperienza e di discernere la verità all’interno di quello spazio in cui la presenza di Cristo risorto si rende particolarmente eloquente.

Al convegno ecclesiale di Palermo nel ’95, in proposito, ho proposto questa linea che mi sembra sia stata abbastanza recepita: è necessario attuare nella chiesa, soprattutto oggi, un «discernimento comunitario». Di discernimento ce n’è bisogno anche per le posizioni teologiche, ma esso dev’essere fatto comunitariamente. Porsi, come chiesa,  in ascolto della voce dello Spirito, come dice il libro dell’Apocalisse.

Tenendo presente questo, per quanto riguarda la recezione delle valutazioni che il magistero dà di alcune opzioni che vengono fatte, non bisogna avere dei giudizi preconcetti. Se il magistero ha il ministero del «carisma certo della verità» – per usare l’espressione di sant’Ireneo assunta dal Vaticano II – in ordine all’autenticazione della verità cristiana, dobbiamo accoglierlo nel suo ruolo specifico.

D’altra parte, in questo accogliere le indicazioni del magistero, se si ha un senso della fede cattolica maturato anche comunitariamente, diventa più facile discernere ciò che in quelle prese di posizione è fondamentale e necessario, da ciò che è legato anche a una determinata cultura e a un determinato periodo storico.

Normalmente, in quelle posizioni del magistero che riguardano evidentemente la verità cristiana (non parlo di posizioni su situazioni contingenti di carattere sociale o politico, che costituiscono un altro ordine di problemi), proprio per il carisma di cui il magistero è investito, c’è un’indicazione di pericoli, di linee di frontiera che non debbono essere travalicate: ed è estremamente salutare fare tesoro di queste segnalazioni.

Il magistero non ha come suo compito primario quello di far evolvere positivamente le affermazioni teologiche sulle realtà di fede; non per niente la chiesa poggia «sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti» (Ef 2, 20). Tenendo conto di ciò che da esso è manifestato come non accettabile e positivamente come irrinunciabile, oppure della pista che viene aperta come possibile per un approfondimento, penso che ci si può muovere con la necessaria e adeguata libertà.

Faccio due esempi per rendere chiaro il discorso. La Veritatis Splendor di Giovanni Paolo II ha messo il dito su una grossa piaga della teologia morale ma, in modo più ampio, della teologia del nostro tempo: la crisi intorno al rapporto tra libertà e verità. Viene indicato così un essenziale tema dell’esistenza cristiana e dell’approfondimento della rivelazione nel confronto con la cultura odierna. Tenuto conto di questo, occorre, in modo conforme alla rivelazione da un lato e alle acquisizioni positive della cultura di oggi dall’altro, evolvere un pensiero in grado di coniugare in modo più adeguato la relazione tra verità e libertà. Ad esempio, nella linea di una concezione che tenga conto della dimensione di intersoggettività, più di quanto non facesse l’affermazione della verità in un orizzonte di oggettività/essenzialismo nella precedente cultura.

Un altro esempio può riguardare il tema del sacerdozio alle donne. Su questo il reccente intervento del Papa non fa che confermare una tradizione precedentemente già consolidata, manifestandone però la qualità di definitività. Quindi, per il teologo cattolico, chiude la possibilità di proseguire a investigare su questa strada. Ma ciò dev’essere visto non come un limite o come la chiusura di tutte le strade, ma come l’indicazione di ripensare l’originalità dell’evento cristiano ed aprire altre strade. Tutta la storia della chiesa è piena di quelle che sembravano porte chiuse, e che invece, grazie alla creatività nello Spirito di santi, di carismatici e anche di teologi, si sono trasformate in vie nuove.

È quello che diceva il grande teologo russo S. Bulgakov: i dogmi della fede non sono dei limiti, ma delle possibilità nuove aperte al pensiero.

Una panoramica
a partire da queste prospettive

GEN’S: Stai maturando un nuovo libro, dove tutte queste indicazioni di tipo metodologico dovrebbero essere applicate in pieno...

Infatti, il mio prossimo impegno sarà tentare una presentazione sintetica dello specifico della fede cristiana nella prospettiva del carisma dell’unità, come espressione di quell’esperienza della «Scuola Abbà», cui ho accennato. Vorrei cercare in modo molto semplice e anche sintetico di presentare, secondo una logica che è quella della verità cristiana così come ci è dischiusa da questo carisma, una panoramica di che cos’è per noi oggi la fede e la vita in Cristo.

Mi pare che tutto il lavoro che ho precedentemente svolto, fino a questo libro di cui abbiamo parlato, è stata una preparazione importante per il testo che devo ancora scrivere. Quest’ultimo libro mi ha fornito molto materiale proveniente dalla tradizione e mi ha chiarito diversi problemi e prospettive.

Ho già in mente un possibile percorso; ma chiedo allo Spirito Santo la luce e la forza per  concretizzarlo nella fedeltà alla dinamica dell’unità.

 

a cura di Enrique Cambón

 

 

1)   Teo-logia. La Parola di Dio nelle parole dell’uomo, Mursia-PUL, Milano-Roma 1997.

2)   Cf n. 3 (1997).