«Se la circolazione del sangue nel corpo della chiesa e del mondo è troppo lenta, è perché manca l’amore reciproco»

 

Non vi do solo il vangelo,
ma la mia stessa vita

di mons. Paul Schruers

 

Cosa produce la spiritualità collettiva quando viene vissuta dai vescovi? Ce ne parla Paul Schruers, vescovo di Hasselt in Belgio, facendoci dono della sua esperienza. L’abbiamo raccolta mentre la raccontava ad un incontro internazionale di seminaristi.

A

vevo quindici anni e una sera, tornato a casa, la cena non era pronta. Bisognava attendere. Cosa fare? Cercai qualcosa da leggere e, non trovando il giornale con i risultati del calcio ma solo un libro del Nuovo Testamento, lo presi in mano non avendo altra scelta e cominciai a leggerlo per passare il tempo. Ad un certo punto trovai una frase che diceva più o meno così: «Perché la vostra gioia sia perfetta, vi dico: Dio vi ama, amatevi intensamente gli uni gli altri» .

Pochi giorni prima avevo litigato coi compagni di scuola e mia madre era stata chiamata per parlare col direttore. Erano tempi di guerra ed avevo visto estrarre i cadaveri dalle macerie. Ma ora capivo che valeva la pena di vivere.

A diciott’anni ho deciso di diventare sacerdote. Prima avevo pensato di fare il medico per rendere felici tante persone, ma accanto a me nella scuola c’era un calciatore dello Standard Liège che scoppiava di salute ma non era felice. Di colpo ho intuito che soltanto il vangelo ci può dare la gioia.

Forse per questo il primo libro, da me scritto quarant’anni fa, trattava appunto della gioia. Qualcuno recentemente mi ha detto che è ancora attuale. Penso che non sia vero, perché esso parla della gioia ma non è stato scritto con gioia. Allora la vedevo come attraverso il vetro di una finestra a soli tre metri di distanza ma senza riuscire mai a raggiungerla.

Oggi forse ho capito il perché. Innanzi tutto per tanto individualismo che c’è nella nostra vita, dove ognuno cerca di farsi santo e di organizzare il proprio apostolato da solo. Ero quasi eroico in queste cose, ma ovviamente la gioia non veniva fuori.

Il secondo motivo del mio malessere era vedere tante strutture. Quando sono diventato vicario generale a 37 anni, ho ricevuto un mucchio di documenti, un enorme elenco di commissioni da seguire ed ho dovuto comprarmi una seconda agenda.

Un terzo motivo era il clericalismo mio e dei miei amici. Dovevo convertire gli altri, ma dimenticavo di convertire me stesso; dovevo parlare molto, ma non sapevo più ascoltare; dovevo dare, ma non era possibile ricevere.

Avvertivo che mi mancava come la chiave per entrare nel vangelo. Poi ho preso parte ad alcuni incontri. Al primo fui invitato da un gruppo di giovani del Movimento dei focolari, quando ero vescovo da pochi giorni.

La chiave per entrare nel vangelo

La loro conversazione verteva su questa frase della Scrittura: «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede avevano un cuor solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune» (At 4, 32). Un giovane studente raccontava che aveva venduto tutti i suoi dischi, dandone il ricavato ai poveri. Ed era raggiante di gioia. Ho chiesto se per loro non era difficile essere cristiani oggi. Mi hanno risposto: «La croce di Gesù ci aiuta a vivere così».

Scoprivo in maniera tutta nuova la comunità, la Parola di Dio e la croce di Cristo. Quella sera ho dato via tutti i miei risparmi. Era una somma piuttosto consistente, perché i miei genitori volevano che mi costruissi una casa. La casa finora non c’è e non ci sarà mai, perché la casa vera, quella che accoglie la famiglia di Dio è più importante.

Un altro incontro che mi ha introdotto in maniera decisiva in questo nuovo stile di vita è stato con il vescovo di Aachen, Klaus Hemmerle. Dopo essere stato con me in una Mariapoli, è venuto a trovarmi. Gli ho chiesto il suo programma di vescovo. Mi ha risposto: «Che tutti siano uno, affinché il mondo creda». «Ma non ti ho chiesto – gli dissi – di citarmi il vangelo; voglio conoscere il tuo programma». Ed egli: «Il mio programma è il vangelo». E mi mostrava il suo anello col simbolo della Trinità ad indicare la chiesa-comunione.

Poi ci siamo trovati più volte insieme ad altri vescovi e la mia sorpresa cresceva. Klaus era un grande teologo, ma era anche un vescovo senza programmi complicati. «Se sto guardando – diceva – il telegiornale e squilla il telefono, mi alzo e dico: “Klaus, ama con tutto il cuore”. Se vado ad una riunione molto impegnativa e un bambino mi viene incontro, mi fermo e lo ascolto con tutto l’amore». Ed ho capito anch’io che il vangelo non può essere una teoria nella mia vita, ma la realtà di ogni momento.

Durante un incontro di vescovi, un collega del Burundi ci comunicava la sua esperienza a contatto con la spiritualità dell’unità: «Prima – diceva – ero sacerdote, dopo vescovo e adesso vorrei diventare cristiano». Mi  ricordava le parole di sant’Agostino: «Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano».

Che significa questo per me? Ogni mattina, alzandomi, ripeto: «Oggi voglio vivere “ut omnes unum sint” – perché tutti siano uno». E volgo lo sguardo al Crocifisso, perché egli è la via all’unità, sapendo che tante volte durante la giornata lo incontrerò proprio in questo modo. Penso anche a quella Parola del vangelo che in quel mese cerchiamo di vivere insieme.

Vivere per amare

Durante la giornata ci sono incontri personali, riunioni e conferenze. Cerco di mettermi nella condizione di dare prima di tutto amore alle persone con cui verrò a trovarmi. Sempre di nuovo ripeto a me stesso: «Vado per amare».

Poco tempo fa mi sono trovato in una
riunione molto difficile. Si tratta di una organizzazione ecclesiale, il cui personale negli ultimi dieci anni è in continue e dure discussioni. Mio compito era avviare un dialogo di pace e di riconciliazione. Ho cercato di amare tutti e, uscendo dagli schemi, ho chiesto alle persone che lavorano in quell’ufficio notizie sulle loro famiglie. Uno di loro poi mi ha detto che era la prima volta che in quel posto qualcuno gli aveva chiesto dei suoi figli, e che anche per questo la seduta era stata molto buona.

Nella conferenza episcopale, dove c’è un clima molto costruttivo, cerco sempre di inviare una lettera ai vescovi che hanno scritto un opuscolo o un libro e lo distribuiscono. È un modo semplice e concreto che fa crescere tra noi l’unità. Penso che per un certo tempo sono stato l’unico a ringraziare in questo modo. Adesso, quando scrivo qualche libro, ricevo simili lettere anche dai vescovi.

Mentre andavo a visitare una scuola, dieci chilometri prima di arrivarvi, sorpasso alcuni alunni in bicicletta. Sono un po’ diversi da me nel vestire, nei loro capelli lunghi, in tutto il modo di fare, e mi prende un po’ di timore. Arrivato nella scuola, il direttore mi avverte che incontrerò una classe particolarmente difficile. Quando apro la porta, mi dico: «Non ho paura di voi, perché vi voglio bene». Non è stato molto facile, ma almeno si è creato un clima di libertà e di dialogo con loro.

Anche nelle omelie e nelle conferenze cerco innanzitutto di amare, di dare la vita, ispirandomi a San Paolo che scriveva: «Avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita» (1Ts 2, 8). Proprio così: il vangelo deve passare per la mia vita. Sperimento che, quando ho vissuto per un certo periodo una Parola del vangelo, posso spiegare a cuore aperto tutte le altre Parole che incontro durante il mese, perché Gesù-Verbo è presente in ogni Parola del suo vangelo. Ogni tanto qualcuno dice: «Hai fatto una predica per me». Invece ho donato semplicemente un po’ della mia vita, raccontando come cerco anch’io di incarnare la Parola di Dio.

Suscitare la reciprocità

Ultimamente è diventato molto importante per me vivere quest’amore nella reciprocità. Se un tempo visitavo la prigione, quando ero invitato, vi andavo nella speranza di convertire qualcuno. Adesso ho sperimentato che la prigione è terra sacra e non ne sono mai uscito senza migliorare il mio essere cristiano. A Natale ero in una cella con tre giovani. Per iniziare un dialogo ho chiesto ad un detenuto: «Qual è il tuo hobby?». Mi ha risposto: «Il contrario del tuo». Volevo sapere più precisamente ed egli ha specificato: «Sono per il diavolo». Chiedendogli il perché, mi ha detto: «Il male è potente. Ho venti anni e sono stato in dieci riformatori per giovani; la droga mi tira giù». «Non ti capisco del tutto – gli ho detto – perché, quando sono entrato qui, mi hai dato la tua ultima tazza di caffè». E l’altro compagno ha aggiunto: «Ci dà anche delle sigarette, quando non ne abbiamo più». E il terzo si è tolto la camicia, mostrandomi sul dorso il tatuaggio di un cuore e dicendomi: «Questo amico mio, quello del diavolo, sa fare bellissimi tatuaggi». Ho esclamato: «Ma questo è un Sacro Cuore!». Accortomi che non capiva, ho aggiunto: «È un cuore, quindi è il segno dell’amore. Io ho soltanto un cuore, ma tu fai in modo che uno abbia due cuori, persino un cuore sul dorso. Allora non sei del diavolo». «In fondo hai ragione», mi ha risposto. L’ultima cosa vista in quella cella era il cuore sul dorso e ho pensato: «Qui ho imparato qualcosa: d’ora in poi, quando uscirò da un posto, l’ultima cosa che la gente dovrà vedere, sarà il cuore sul mio dorso».

Quest’amore reciproco è anche molto importante nei contatti con persone di convinzioni diverse. Durante le festività cittadine – sono feste mariane che si fanno ogni sette anni – un giornalista ha voluto intervistare me e un politico della nostra città. Durante la prima ora non abbiamo parlato per niente della festa, ma ci siamo dilungati trattando dei problemi dell’Africa e dei disoccupati. Dopo sono rimasto ancora per un’ora intera a parlare con quel politico, un massone, e ho anche giocato con i suoi nipotini. Due settimane fa, i dirigenti del partito socialista della mia città, guidati da lui, sono venuti a visitare la chiesa. In questa occasione egli mi ha chiesto: «Potrei parlare con te come con un vero amico?». Ho risposto che ne ero ben contento, anche perché volevo ringraziarlo per il suo amore per l’Africa e per la sua preoccupazione per i poveri. Così l’amore diventava reciproco.

Anche i vescovi possono diventare amici di chi non ha il dono della fede, e viceversa. Penso che la pastorale deve basarsi essenzialmente sull’amore reciproco. Se la circolazione del sangue nel corpo della chiesa e del mondo è troppo lenta, è perché manca l’amore reciproco.

Poco tempo fa avevo una riunione molto difficile in Rwanda. Dopo aver comunicato questa nostra vita, ho sentito un sacerdote dire ad un altro: «Questo vescovo vorrebbe che anche noi sacerdoti diventassimo cristiani!». E nasceva un clima nuovo, di profonda comunione tra tutti.

Creare la comunione con tutti

Sono molto contento che il nostro consiglio episcopale, con sette membri, sia una comunità di veri fratelli. Ogni venerdì quando ci troviamo, ognuno racconta ciò che ha vissuto di gioia e di dolore, affinché i pesi di ognuno siano condivisi e le gioie moltiplicate. Sempre parliamo, almeno per una mezz’ora, su una Parola del vangelo e mettiamo in comune le nostre esperienze al riguardo. Dopo un anno di questa nostra vita modellata sugli Atti degli Apostoli, è nato un libretto: «Gli Atti degli Apostoli continuano oggi». Qualche volta ci diciamo in che punto qualcuno può migliorarsi ancora e soprattutto mettiamo in luce quel positivo che già sta fiorendo in lui, rendendolo più simile a Gesù e quindi più bello. Anche nel consiglio
presbiterale e nel consiglio pastorale diocesano riserviamo regolarmente un tempo per parlare insieme sul nostro impegno di vivere il vangelo. Noto che nelle riunioni si crea un clima diverso.

È bene poter parlare ogni giorno con qualcuno sul vangelo. Cerco di farlo ogni mattina per tre minuti col mio segretario per vedere come mettere in pratica durante la giornata la Parola di Dio. L’ultimo mese ci siamo soffermati molto spesso sul vangelo della prima domenica di agosto: «Non temete». Questo modo di vivere ci ha aiutato molto nelle visite difficili e nell’affrontare problemi dolorosi, che ovviamente mettono un po’ di paura. Preghiamo anche insieme, con Gesù in mezzo a noi e per intercessione di Maria e dei nostri amici in cielo, per alcune intenzioni particolari di quel giorno.

È importante, naturalmente, vivere questa comunione anche con vescovi di altri paesi, come segno di una collegialità che non sia solo giuridica, ma anche affettiva ed effettiva, come oggi si suol dire. Con una quarantina di loro ci scriviamo alcune volte durante l’anno, raccontandoci le nostre esperienze di vita evangelica. Ultimamente ero stupito che la fattura del telefono era più alta del solito; poi ho visto che una chiamata in Burundi costa 350 franchi belgi. Ma i soldi usati per costruire l’unità sono ben spesi, non soltanto per la compagnia telefonica, ma anche per il vangelo.

Fare della diocesi una famiglia

Vorrei che nella comunità diocesana vi fossero dappertutto persone che diventino più famiglia attorno al vangelo. Diverse volte ho proposto, anche nella rivista diocesana, che la chiave della pastorale è il Risorto presente in mezzo a noi. In un testo sulla vita religiosa il Papa scrive una frase molto ardita: «Gesù in mezzo è il locus teologicus». È la chiave della teologia, ma è anche il locus pastoralis e il locus spiritualis. Ed è proprio così: Gesù presente nella comunità di fratelli che si amano è il luogo privilegiato per la teologia, per la pastorale e per la spiritualità.

Klaus Hemmerle faceva notare: «Gesù è così sensibile che se ne esce modestamente dalla porta posteriore, quando non viviamo l’unità». Ci conviene chiudere questa porta vivendo l’unità. Grazie ai miei cooperatori, penso che ora nella diocesi, in una riunione su due, si parla del vangelo.

Ma non ci siamo ancora, non siamo ancora abbastanza famiglia. La nostra chiesa in Belgio è molto organizzata e noi desideriamo che questa organizzazione diventi sempre più famiglia, comunione. In questo i sacerdoti, e soprattutto i sacerdoti giovani, hanno un ruolo importante, perché come è stato scritto in queste pagine: «Il celibato non è una vocazione alla solitudine, ma una vocazione alla comunione» (cf Gen’s 4-5/96 sulla verginità). Per questo è importantissimo incontrarci spesso, ed anche far nascere, se è  possibile, iniziative di vita comune.

Quando avevo quindici anni, mi chiedevo: «Potrà la gioia riempire la mia vita? Come posso trovare la chiave per aprire la casa della gioia evangelica?». Ora sono più peccatore di allora, ho meno forza di volontà, conosco meglio i miei limiti, ma ho l’impressione che ogni giorno sono più felice del giorno precedente.

 

Paul Schruers