Lealtà e libertà: due valori evangelici che ci permettono di dialogare con tutti

 

Al di là degli steccati

di Giancarlo Moretti

 

 

L'autore di questo articolo è un parroco romagnolo che all’attività pastorale sa unire la riflessione dello studio. Egli cerca di aprire qualche finestra su quel mondo immenso formato da tutte le persone di buona volontà impegnate alla costruzione di un mondo più vero, più bello, più unito. E lo fa con l'entusiasmo di chi, radicato in Dio, crede nell’ essere umano

A

prirsi all’altro, soprattutto a chi ha convinzioni diverse, rinvia quasi inevitabilmente a qualche tratto della storia personale, a quei momenti incantati di non facile lettura, anche perché avvolti nel mistero, che precedono il periodo delle grandi scelte. Si tratta quasi di una preistoria personale, che sa di mitologico, dove si è formato il modo di pensare, piuttosto che le idee.

Da poco tempo svolgevo il ministero nel mio paese d’origine. Qui ho ritrovato un anziano signore, quasi novantenne, che da giovane aveva militato in un partito allora famoso per il suo radicalismo anticlericale. Lo salutavo e lo rispettavo. Penso che nel tono del mio saluto si potessero cogliere i segni di stima che fin da bambino nutrivo per il suo fare distinto e la sua condotta manifestamente onesta.

Alle premure della sua famiglia perché si avvicinasse alla chiesa aveva sempre risposto con un orgoglioso diniego; ma dopo qualche tempo ha affermato: «Non voglio il prete, chiamatemi il figlio di Vincenzo!».

Questo passaggio fu determinante per me e segnò le tracce di un percorso: capii che i canali della grazia erano quegl’intrecci misteriosi di valori vissuti nel silenzio della quotidianità, di fronte a Dio, ed incoraggiati dalla cordialità di galantuomini che hanno fatto dell’amicizia il luogo privilegiato della loro integrità. A questo punto capii perché mio padre ci teneva che, pur diventando prete, «rimanessi al di qua della balaustra». Voleva dirmi di non interrompere mai il dialogo con coloro che non la pensano come noi. Se non l’avessi ascoltato, mi sarei trovato irrimediabilmente in una chiesa mutilata.

Quando, negli anni settanta, Paolo VI affermò che «se la chiesa non avesse i lontani non sarebbe ciò che deve essere», e Chiara Lubich riconosceva nel «farsi uno con loro lo scopo specifico del Movimento», feci l'esperienza di essere collocato in una nuova dimensione. Fu come potersi tuffare in mare in una giornata estiva, arida e afosa, e nuotare al largo, leggero per la perdita di gravità.

È stato l'inizio di un’esperienza affascinante: ho provato a percorrere questa strada, spesso gustosa ma ancor più spesso non facile. Gustosa perché, nei luoghi più impensati e nelle persone apparentemente più fuori si trovano ricchezze straordinarie e frutti preziosi. È proprio vero che lo Spirito precede l’opera dell’Apostolo. Ma l’Apostolo ci vuole. È lui che può dare il giusto senso e la giusta direttiva a quei tesori di spirito e di umanità. Per farlo, però, egli deve accettare di rinunciare alle sue sicurezze, deve accettare la novità, il rischio, e soprattutto deve essere disponibile a mettersi in crisi.

Una luce nuova: vivere l’altro

In quel periodo avevo da poco iniziato un’esperienza singolare, almeno per me, educato fino ad allora ad intendere la vita in forma individualistica. Avevo iniziato a condividere pienamente l’impegno parrocchiale con un altro sacerdote, come fratelli.

Eravamo giunti in quella parrocchia per motivi pastorali, ma facemmo un patto: posporre ogni interesse all’amore scambievole, ed affrontare ogni incomprensione e divergenza solo dopo averle superate di fronte a Dio.

Questa vita mi stava insegnando il senso della povertà: essere in rapporto a tutto e a ciascuno senza possedere. Questo è rischio, ma è anche libertà, libertà di poter vivere l’altro.

Vivere l’altro: i giovani erano entusiasti nel trovare in noi tanta disponibilità; e l’entusiasmo, di ritorno, contagiò anche me. Ma fu una tentazione: la tentazione di andar dietro ai giovani in quel continuo cercare i valori ora in una canzonetta o in un’idea forte di partito o in uno slogan... Fu allora che capii che la povertà della vita comune era anche verità. Non saprei spiegare come, è stata un’esperienza.

Per essere fedele alla vita comune non potevo correre troppo. Sentivamo che era necessario portare a conoscenza del fratello tutto ciò che si viveva con gli altri. Ma come? Sarebbe stato necessario tanto tempo per ripetere tutto ciò che mi era capitato precedentemente nei fatti in cui era coinvolta la mia singolarità... Allora come fare? Dove ritagliare il tempo?

Mi ha sempre affascinato quel senso del mistero con cui i medioevali ci hanno trasmesso le formule della distillazione: un processo che era volto ad esaltare le qualità. Anzi anche a me come a loro capitò di capire che la realtà, prima ancora che sulle cose e sul fare, è fondata sulla qualità. La vita comune, come la preghiera, esigeva proprio questo processo: distillare dal caos del fare e dei doveri quotidiani la qualità, il senso del vivere, il senso dei rapporti, e donarci poi reciprocamente il distillato.

Così nell’unità il vivere l’altro ci portava, quasi inavvertitamente, a cogliere l’oggettività dei valori, e gli altri a contatto con noi scoprivano un senso di universalità che li rendeva sereni, comunicava loro la pace: ci rendeva amici. Amici era l’espressione che specialmente i giovani usavano, ma era assai di più che semplice amicizia. «Un tempo eri tanto amico, che eri solo amico – mi diceva un ragazzo – ora sento che mi dai qualcos’altro, mi porti più su...».

L’aver sperimentato in me la spiritualità dell’unità e, conseguentemente, la comunità come luogo di verifica, è stata l’ancora che mi ha dato sicurezza e pace.

L’unità accolta e custodita

Gli eventi sono stati tanti e mi portarono a svolgere il mio compito in ambienti assai diversi. Ma alcuni elementi sono divenuti costitutivi della mia storia, come, in fondo, è loro natura.

L’elemento base cui mi riferisco è innanzitutto l’unità. Questa parola indicava, anche per l’uso ideologico che se n’è fatto in questo secolo, un punto di arrivo o il risultato di imprese o di conquiste ed il frutto del nostro impegno manageriale. Quell’esperienza di vita comune mi rivelò invece che l’unità precede ogni nostro intendimento, che va accolta e custodita con grande silenzio nella disponibilità a perdere i propri interessi, piuttosto che cercata quasi fosse opera nostra.

Potevo lasciarmi condurre. Nella nuova parrocchia, dove sono tuttora, ho trovato una realtà particolare anche se può risultare una tipologia molto diffusa in Romagna. Una comunità piuttosto compatta attorno alla parrocchia, assai fedele agl’impegni liturgici, ed un’altra, facente capo al partito dominante, che frequenta il bar centrale. La frequenza in chiesa da parte di questi ultimi era riservata solo alle grandi occasioni. L’atteggiamento che si coglieva in loro poteva essere espresso da quella preghiera antica nel dialetto di questa terra, che tradotta in italiano suona così: «Signore, se ci sei, fai che la mia anima, se ce l'ho, vada in Paradiso, se c'è! Amen».

Il dialogo

Ho guardato tutti, specialmente i giovani, come candidati all’unità, anzi ho cercato di scoprire ogni elemento di unità che lo Spirito veniva via via svelando.

Ho capito che mio compito era il dovere della speranza, e la fedeltà a questo era chiave di accesso a comprendere e a farmi uno con tutti gli aneliti di unità che le persone alimentavano nel segreto del loro cuore. Cominciò un dialogo, prima discreto, fatto di tanti riti di avvicinamento, poi reso sempre più esplicito. Esso rivelava un grande desiderio di vivere valori autentici.

È diventata chiarissima in me la convinzione che l'incontro con la Verità non era da cercare al termine di un percorso in avanti, ma nel recupero di una memoria. Ho sentito il dovere di farmi piccolo, talmente da poter scendere nel profondo dei cuori, dove è ancora viva e fiammante la memoria dell’Assoluto.

«I Ribissi»

È nato un gruppo di ragazzi del dopo cresima, facente capo al “bar del piazzale”. Frequentano la parrocchia settimanalmente, ma in chiesa non ci vengono, se non nelle occasioni forti. Questo gruppo ha preso il nome “I Ribissi”. Il ribisso è una biscia scodata, piuttosto cattiva, ma in Romagna questo nome è usato come termine confidenziale e affettuoso per rivolgersi ad una persona tendenzialmente birichina. Ha preso origine da un’antica favola natalizia riscoperta ultimamente dai ragazzi stessi, che riconosce in un ribisso un giovane bellissimo, buono e generoso, nascosto sotto sette pelli. «Noi siamo appunto i ribissi – dicevano con orgoglio questi ragazzi – e vogliamo toglierci le sette pelli dei vizi che il mondo circostante ci butta addosso, per diventare veri, e ci riusciremo...!».

Devo dire che per un verso, ci sono riusciti: hanno disattivato tutti i meccanismi di diffusione della droga tra i giovani del “piazzale”, hanno ricomposto il tessuto del dialogo tra le diverse culture nella parrocchia e fra le diverse fasce sociali.

Da una parte e dall'altra dei due “schieramenti” essi hanno dovuto fare i conti con quella forma di aggregazione che assomiglia tanto ai catari del medioevo.

“Càtharos” in greco vuol dire “puro”. È la tentazione di mirare ad una chiesa di puri in contrapposizione agli altri, definiti spesso “i poveri peccatori!”. Ovviamente il discorso vale alla pari per un qualunque gruppo sociale con pretese di autosalvazione – ed in fin dei conti poi non cambia nulla. È la tentazione di rinserrare le file, vivere sempre fra persone con le stesse caratteristiche antropologiche e culturali, curare la tolleranza all’interno e l’intolleranza all’esterno del gruppo, crearsi un linguaggio e schemi di giudizio che, pur inefficaci ed inadeguati, servono sempre e comunque da ombrello.

Per me questi ostacoli e queste sofferenze avevano un volto ben concreto, Gesù crocifisso, accolto e amato fino alla predilezione nel suo massimo abbandono; e ai ragazzi mostravo come ogni difficoltà sia di sprone per andare incontro agli altri.

Erano gli anni in cui più forte si avvertiva l’eco delle parole di Giovanni Paolo Il, che invitava ad aprirsi all’Europa e scoprirne le radici cristiane. Così abbiamo programmato di fare ogni anno un campeggio in un paese diverso dell’Europa. Nel progetto i ragazzi hanno voluto che apparissero dei punti precisi sotto la voce “aprirsi”: aprirsi agli adulti (il campeggio è diventato così della comunità e non solo dei giovani), aprirsi alla patria in cui andiamo, facendo fare bella figura alla nostra e creando rapporti veri con le persone che si incontrano nel paese che ci ospita... Credo che siano state queste aperture che hanno permesso “di togliersi di dosso alcune delle sette pelli” che li rinserravano in se stessi.

La svolta sui Monti Tatra

Il campeggio sui Monti Tatra in Slovacchia ha costituito certamente una svolta. La povertà estrema che abbiamo incontrato è stata vissuta dai ragazzi e dagli adulti per un verso come avventura. La vicinanza con le persone del posto, specialmente con quelle che hanno vissuto il campeggio con noi, ha provocato un fenomeno nuovo. La loro dignità, la profondità interiore, e l’attenzione per l’arte, la bellezza e la natura hanno contagiato tutti: gradatamente questi valori sono entrati nello stile di vita.

È qui che è sorta l’idea della mostra «Costruiamo Ponti: Est–Ovest un solo umanesimo europeo» .

In questa occasione ho potuto constatare come per incanto che le caratteristiche che spesso vengono ritenute nei giovani come negative, diventavano in loro veicolo per un nuovo dialogo e nuovi rapporti.

Così il bisogno del gruppo diventava apertura senza limiti ai ragazzi del territorio (questo spiega il segreto di aver aggregato 1500 giovani per un incontro con gli artisti); la tipica incoscienza diveniva semplicità nel rivolgersi a politici ed imprenditori; la spensieratezza e il bisogno di vivere si facevano ricerca di bellezza e bisogno di autenticità; l'ostinazione e la noncuranza verso “proposte vantaggiose’’ dei genitori divenivano richieste agli adulti di partecipazione ad un dialogo basato sulla vita e sul rispetto preliminare della persona. E il gioco non si ferma qui...

Credo che sia da individuare in questa alchimia di valori il segreto del successo della mostra, il segreto per cui chiunque, artista o gente comune, politico o imprenditore, ragazzo o adulto... qualunque fosse la cultura o la propria sintesi di valori, si è sentito a casa, protagonista in prima persona dell’evento.

A questo punto l’espressione di Paolo VI «la chiesa non sarebbe ciò che deve essere», ha cominciato ad assumere contorni ben precisi. Infatti solo in un rapporto, che è più che collaborazione, come si è realizzato in questo processo “culturale”, possono coagularsi forme di socialità e di umanità, nuove e impensate, che fanno presagire quella primavera della chiesa che tanti hanno intravisto per il prossimo millennio.

Verso un dialogo tutto nuovo

Ma dopo questo evento il gruppo dei Ribissi ha incontrato grosse difficoltà: alcuni membri hanno la sensazione che tutto sia finito e temono di aver speso tante energie inutilmente... Ormai sui 20 anni i ragazzi hanno nuove esigenze: il “gap culturale” – nelle sue componenti territoriali, scolastiche, affettive e l’intensità di rapporto uomo-donna, ecc. – è divenuto tra di loro piuttosto evidente. Anche se sono coinvolti da una tenace forza centripeta, esiste qualcosa che non li soddisfa. «Evidentemente – dicevano alcuni di loro – deve essere rimasta ancora qualche pelle da togliere».

E qualche pelle è proprio rimasta. Questi ragazzi, ed anch’io come tutti gli altri adulti coinvolti con loro, abbiamo percorso un sentiero nuovo che ci pare stia rimarcando anche il confine dell’età moderna. Essi hanno voluto rompere sia con una chiesa che fosse onnicomprensiva nelle sue tentazioni teocratiche, come con un mondo che voleva fondare i valori sulla propria arroganza. La fine delle ideologie e del prometeismo moderno ha reso facile all’ultima generazione imboccare sentieri nuovi e più promettenti. In fondo qualcuno, a livello profetico, li ha già preceduti. Ma costruirsi ora delle retrovie che fungano da copertura è un’altra cosa.

In un momento di intensa ricerca abbiamo ricordato la mostra del ’300 Riminese, organizzata dal comune. Trattasi di una scuola di pittura che ha avuto grande seguito e sviluppo ed un forte prestigio in quel secolo. Poi nel 1345, per motivi sconosciuti – eravamo nell'anno della peste resa famosa nella letteratura dal Boccaccio – si è estinta. In questa mostra avevamo constatato che – esempio pressoché unico nella iconografia sacra di tutti i tempi – Gesù risorto viene rappresentato sempre e solo in mezzo ai suoi. Ci ha preso un momento di estasi e ci siamo detti: «Qui c’è la radice della religiosità romagnola; dunque la preghiera “Signore, se ci sei...” è solo il rovescio della medaglia». Ed abbiamo concluso: «Noi abbiamo bisogno di un rapporto tutto nuovo con Gesù».

Ci siamo così messi alla ricerca delle nostre radici. Desiderosi di abbandonare una religiosità fatta di formule, sentiamo il bisogno di ritrovare con Dio un rapporto io-tu nutrito di vita autentica. Se pensiamo solo all’aldilà come futuro lontano ricadiamo nella prima faccia della medaglia: «Signore, se ci sei...». Se pensiamo agli altri come fratelli nasce il desiderio di rapporti pieni e vissuti con tale trasparenza da sperimentare che Gesù risorto è qui in mezzo a noi. Direi che questo è ormai l’anelito presente in chi, con diverse culture, cerca di costruire un mondo secondo le attese del cuore.

Ora i Ribissi hanno cominciato a levarsi forse l’ultima pelle, magari la più dolorosa, per essere pronti ad un dialogo tutto nuovo con Dio. Sarà appunto il dialogo che risuonerà come canto nella chiesa che ha conosciuto l'inverno con il buio ed il freddo della “modernità”.

 

 

Giancarlo Moretti