Si può avere la sensazione di non credere e, nonostante ciò, continuare a credere? La fede è più vicina alla carità di ciò che correntemente si pensi?

 

L’«ateo» che è in ognuno di noi

di Kike Apioli

 

 

Mentre mi accingevo a scrivere, oltre al coraggio necessario per raccontare le proprie esperienze, mi veniva in mente il titolo dell’opera di Pirandello «Uno, nessuno, centomila». Perché in certo senso ognuno è irripetibile e lo è anche la sua strada per andare a Dio; ma allo stesso tempo si sperimenta che le persone sono più simili fra di loro di quanto si possa immaginare: quando abbiamo accesso all’interiorità degli altri, ci sorprendiamo di constatare che quello che pensavamo fosse soltanto un problema nostro, è comune a tanti.

S

ono nato in una famiglia come se ne trovano tante nei Paesi di tradizione cattolica: tutti battezzati, fatto la “prima comunione”, ma senza nessun’altra pratica religiosa e soprattutto senza criteri coscientemente evangelici per guidare la propria vita. A 15 anni ho conosciuto i giovani dell’Azione cattolica, diventando dirigente parrocchiale prima e nazionale poi. A 18 anni ho cominciato a pensare alla possibilità di donare totalmente la mia vita a Dio, alla chiesa, all’umanità; a 20 anni sono andato in seminario.

Mentre studiavo filosofia ho cominciato ad avere dei seri dubbi di fede. Ricordo di aver dato l’esame sulle “prove razionali dell’esistenza di Dio”, prendendo un bel voto ma senza credere in ciò che dicevo. La cosa cresceva così intensamente che ho cominciato a intravvedere la possibilità di dover lasciare il cristianesimo.

Mi dispiaceva, perché capivo che sotto certi aspetti la vita mi si sarebbe complicata. Soprattutto perché volevo «non soltanto vivere, ma sapere perché vivo». Mi rincresceva, in modo speciale, dover lasciare
un’esperienza che avevo cominciato in quegli anni con persone del Movimento dei focolari. Trovavo lì un cristianesimo così evangelico ed attraente, che pensavo: «Se un giorno lascerò la chiesa e troverò delle persone alla ricerca della felicità e del significato della vita, suggerirò loro di andare a trovare questo gruppo di cristiani», proprio perché non avevo incontrato nulla di più bello nella mia vita.

«Peccato che non sia vero...»

Ero alla soglia degli studi teologici e non potevo cominciarli con questo subbuglio dentro. Quindi dovevo prendere una decisione. Proprio in quel momento è nata a Loppiano, vicino a Firenze, la prima cittadella dei focolarini, che voleva essere un “esperimento in laboratorio” di una società tutta informata dal vangelo.

Prima di lasciare tutto, mi hanno fatto la proposta di andare a fare un’esperienza in questa citadella, dal momento – mi ha detto uno di loro – che «Gesù non è venuto a portare un sistema di idee ma una vita nuova, e per sapere se il suo messaggio è vero, bisogna viverlo fino in fondo».

I primi mesi non furono facili. Continuavo a riconoscere che erano delle persone e
un’esperienza eccezionali, ma trovavo delle spiegazioni umane a tutto ciò che lì succedeva. A tal punto che un giorno, ascoltando Chiara Lubich che era venuta a parlarci, cercavo di non far vedere che mi cadeva qualche lacrima mentre dentro di me dicevo: «Sono così belle queste cose, che meriterebbero di essere vere... Peccato che non lo siano!»

Trovandomi con un responsabile della cittadella, che in gioventù era stato un intellettuale ateo, gli ho detto: «Cos’è questa cosa di doversi tagliare la testa e mettersi ad amare? L’intelligenza l’abbiamo per affrontare i problemi...». Mi ha risposto: «E chi ti ha detto che ti devi tagliare la testa? O meglio: devi tagliartela, non per rimanere senza testa, ma per mettere al posto della tua, la mente di Gesù; cioè per avere più intelligenza, non di meno...».

Dopo un paio di mesi mi sono detto: «Quando finirò questa esperienza lascerò tutto. Ma mentre sono qui, almeno per coerenza, devo stare alle regole del gioco. Mi metterò ad amare tutti, a vivere per gli altri». Questo mi ha salvato persino l’equilibrio psichico, perché mentre pensavo a condividere le gioie ed i dolori degli altri, dimenticavo i miei, e trovavo sollievo di fronte alla tensione costante che inevitabilmente vivevo dentro.

Infatti se oggi dovessi dare un titolo a ciò che ho vissuto da allora in poi, esso potrebbe essere: «la fede cristiana è qualificata
dall’amore».

Il dolore trasformato in amore

Una realtà che non riuscivo mai a capire era “Gesù abbandonato”. Mi dicevano ad esempio che quando arrivava il dolore, di qualunque tipo fosse, bisognava trasformarlo in amore e continuare a dare la vita;
che l’amore vero non erano sorrisi e sentimenti, ma Cristo in croce che sentiva l’abbandono del Cielo e della terra. Quella era la “definizione” per antonomasia di cos’è l’amore.

Finché ho trovato quella meditazione di Chiara Lubich in cui, riferendosi all’abbandono di Gesù in croce diceva più o meno così: «Tu che eri la luce ti sei fatto tenebra per noi, tu che eri la sapienza ti sei fatto ignoranza fino a domandare “perché”, tu che “vedevi” come nessuno sei diventato “cieco”...». Sono allora andato in cappella e mi sono rivolto a Dio: «È questa la misura dell’amore che tu vuoi? Va bene, sono disposto ad andare avanti così, cieco, nell’oscurità, senza vedere, per tutta la vita. Se tu mi lasci così, diventerò matto, ma la croce è una pazzia al ragionamento umano, come dice Paolo, allora anch’io sono pronto a questa pazzia: in questo momento ti dico di sì per tutta la vita».

È stata una di quelle volte in cui si constata la verità del vangelo. Perché da quel momento è tornata la luce, a conferma che solo «chi ama vede». Non diceva Gesù «a chi mi ama mi manifesterò» (Gv 14, 21)? Non era una semplice conseguenza logica del fatto che «chi non ama non conosce Dio perché Dio è Amore» (1 Gv 4, 8)?

Naturalmente era una luce che non poteva rimanere inalterata per sempre, ma che dovevo custodire e riconquistare dinamicamente. Se “prova” ci può essere dell’esistenza di Dio, questa è stata per me la più forte: toccare con mano quotidianamente la verità del vangelo, vivendo uno ad uno i suoi insegnamenti. Capivo Chiara Lubich quando, alla domanda perché Dio l’affascinava tanto, rispondeva: «S’è fatto conoscere soprattutto attraverso il vangelo che abbiamo scoperto “vero”... non ci ha mai deluso; le sue promesse si sono attuate... Come si fa a non innamorarsi di Colui che t’ha riempito la vita, te l’ha resa dinamica, divina e feconda?».

Sono rimasto così segnato da questo, che quando, parecchi anni dopo, già sacerdote, sono tornato nella mia terra, nelle varie comunità dove sono stato, spesso avevo l’ardire di “sfidare” le persone, soprattutto i giovani, dicendo loro: «Vuoi sapere se il vangelo è vero? Facciamone insieme l’esperienza...».

Ricordo che finendo quel periodo passato nella cittadella, pur con tutti i limiti e la fragilità mie e degli altri, mi dicevo: «Se ho potuto sperimentare già in qualche modo il Paradiso di qua, posso credere che continuerà poi di là».

Attraverso l’oscurità

Ritrovate le motivazioni per andare avanti nella fede, ho ripreso gli studi di teologia. È passato molto tempo da allora, sono diventato prete, ho visto tante cose e vissuto tante vicende diverse, tra l’altro ho dedicato parecchio tempo agli studi. Ovviamente l’esperienza evangelica fatta, per quanto forte, non ti “vaccina” contro le difficoltà. Anzi, uno studioso con molta dimestichezza in queste realtà mi aveva detto una volta: «Ricordati che chi è chiamato al pensiero, ha vocazione all’oscurità».

Andando avanti nella vita ho individuato sempre più chiaramente che l’oscurità che sentivo dentro nei riguardi delle cose di Dio, dipendeva in grande misura dal fatto che esse racchiudono un’ambivalenza: puoi interpretarle dal punto di vista della fede o dare un’interpretazione atea, e l’una e l’altra possono apparire ugualmente plausibili. Ho visto che ciò porta delle conseguenze tanto per gli atei come per i credenti. Se credere è «avere il coraggio di sopportare dubbi», nemmeno una persona atea può mai essere dogmaticamente sicura di non sbagliare; potrà sempre domandarsi: «E se fosse vero?». O magari affermare, con l’onestà di Jorge Luis Borges, «questo mondo è così misterioso, che non posso scartare la possibilità di Dio».

Sono rimasto perplesso la prima volta che ho letto, non ricordo se in Pieper o in Guardini, che una delle componenti dell’atto di fede è che «si crede perché si vuole». Invece andando avanti nella vita ho constatato che effettivamente una decisione personale da parte di chi crede è necessaria all’origine della fede. Di fronte a quell’ambivalenza di cui parlavo, se uno non crede, tutto può confermargli che Dio è una “ipotesi inutile” per spiegare i fenomeni della natura e le vicende storiche; se invece ad un certo punto si prende la decisione di credere, anche in mezzo a inevitabili dubbi e sofferenze si trovano moltissimi motivi e conferme che puntellano la propria fede. Soprattutto se si ha la fortuna di trovare persone piene di Dio, o comunità dove attraverso l’amore evangelico la presenza di Dio si avverte, e magari ancora uomini e donne di pensiero che hanno un dono per approfondire le realtà della fede in modo adeguato ai tempi, rigoroso e creativo.

Pazienza storica

Aggiungo due aspetti dell’amore evangelico che personalmente mi sono stati di grande aiuto. Il primo è questo. Più volte, magari in mezzo ad una notte insonne, ho ringraziato Dio dell’oscurità della fede che non mi permetteva di appoggiarmi all’evidenza, ma era un richiamo ad un amore più vero. Di fatto, quando “vedo”, mi accorgo che sono io che vado avanti con le mie qualità e facilmente ricerco me stesso. Mentre quando sono nell’oscurità e «continuo a sorridere parlando agli altri della luce», almeno sono più sicuro di aver cercato di agire per amore.

Tante volte ho pregato: «Senz’altro non ti ho amato come dovevo, Signore. Lo so che non ho saputo farlo con quella concretezza e radicalità necessarie per alleviare maggiormente le sofferenze del mondo. Ma alla fine della vita, almeno un po’ d’amore me lo troverò in tasca grazie a questa “divina commedia” con la quale, in mezzo all’oscurità, ho continuato a dare la vita per te e per gli altri...». E mi dicevo che se questo amore è anche fede, allora anch’io potevo dire di avere la fede, pur «non sentendo». Non sarà infatti che abbiamo troppo identificato la fede con il «vedere», con il credere a delle verità, mentre dovremmo avvicinarla di più all’«ascoltare» per vivere, al «fare la verità» (Gv 3, 21), a quella «fede che opera per mezzo della carità» (Gal 5, 6; cf Ef 4, 15)?

L’altro aspetto a cui mi riferivo è che la pazienza storica bisogna averla non soltanto nei riguardi delle vicende dell’umanità, ma anche di quelle personali. Di fronte ai numerosi interrogativi inevitabili, alla non comprensione di tanti problemi, alla gradualità con cui la condizione umana scopre le verità, ho cercato di soffrire-amare serenamente, cercando di non impazientirmi né diffondere “veleno” in coloro che mi ascoltavano. Quante volte ho dovuto applicare quel programma: «Il dolore e l’amore sono segreti, è la luce che va donata». Poi, a volte dopo decenni, un giorno arrivava la risposta. E una goccia di sapienza mi ripagava, abbondantemente, per anni di oscurità.

Quale intelligenza?

In altri tempi l’esperienza personale di Dio, con i suoi effetti tipici, con la profondità mistica che ne derivava, con la dolcezza e la verità che certe persone provavano nel loro rapporto con Dio, erano una testimonianza che suscitava o rafforzava la fede di coloro che venivano a contatto con queste persone privilegiate. Oggi questa via non è invalidata, anzi; ma avvertiamo che non ci basta più.

C’era in tanti di quei grandi, ad esempio, una fiducia nell’intelligenza e nella verità che oggi non riusciamo più ad avere nello stesso modo. Siamo diventati troppo consci della storicità umana, dei processi di legittimazione che arrivano in un secondo momento a giustificare ideologicamente ciò che si vuol provare, degli avvenimenti che nella storia del cristianesimo hanno fatto trionfare una certa corrente che poi è diventata “la” verità, del superamento attraverso tutta la storia di posizioni che sembravano incrollabili, del peso che hanno sul pensiero la coscienza storica di ogni epoca ed i quadri sociali di conoscenza, del nesso esistente fra i normali meccanismi psicologici e fisiologici ed i fenomeni religiosi, e via discorrendo.

Per cui abbiamo bisogno anche noi di ritrovare fiducia nella possibilità umana di arrivare alla verità. Ma a me, come a tanti altri, le presentazioni del passato spesso non soddisfano più.

Di fronte al senso del relativo, che oggi abbiamo acquisito come in nessun’altra epoca, abbiamo anche noi necessità di certezze, di valori perenni. Abbiamo necessità di una sapienza che sappia tirar fuori dal tesoro evangelico “cose vecchie e cose nuove”. Spesso trovo delle persone, anche con delle responsabilità spiccate nelle chiese cristiane, che questo lo capiscono, lo vorrebbero fare, ma non sanno come farlo. È che non basta proporselo, ci vuole lo Spirito Santo, un carisma mistico ed intellettuale all’altezza dei tempi.

Perciò ho un’immensa riconoscenza per la luce che ho trovato nel carisma dell’unità. Soprattutto in quel noto periodo illuminativo vissuto da Chiara Lubich nel ’49-’50 e che adesso si sta comunicando a tutti attraverso gli studi di quella che è stata chiamata “Scuola Abbà”. Due cose mi colpiscono in modo speciale ogni volta che ne sento parlare: innanzitutto mi viene presentata un’esperienza che mi fa incontrare con delle realtà; e inoltre mi fa scoprire un Dio “più divino”.

Tante volte, ascoltando queste lezioni della “Scuola Abbà”, mi dico: «Così è possibile credere; solo una tale presentazione del cristianesimo potrà permettere in futuro la fede di tanti». Senti che ti trovi non di fronte a delle idee sulle quali fermarti a ragionare, ma ad una realtà da vivere e nella quale “entrare”.

Questa presentazione mi sembra così adeguata a Dio e costituisce un tale respiro per la mia fede, che qualche volta ho scherzato tra me e me: «Stai a vedere che le affermazioni di fede, oltre ad essere così belle ed importanti, adesso risulta che sono anche vere!».

Un’esperienza “più divina” del divino mi aiuta tra l’altro ad evitare una tentazione, nemmeno tanto sottile. Quella di pensare: «Male che vada, anche se non fossero cose vere, ho fatto qualcosa di positivo per l’umanità, ed io stesso ho trovato tanta felicità e pienezza». La tentazione cioè di prendere soltanto gli aspetti umanistici simboleggiati nelle realtà affermate dalla fede, e così diventare solo un agitatore sociale a servizio degli ultimi e delle vittime di tutti i tipi, o un promotore di valori umani “mascherato” da credente...

Ateo e credente si avvinghiano

Molte volte nella mia vita ho ascoltato persone che parlavano dell’ateismo, a volte con acutezza e competenza, ma senza passione. Avvertivo che non “bruciava” dentro di loro l’ateismo vissuto da gran parte delle persone del nostro tempo.

Ho assistito ad un dialogo teologico fra il card. Ratzinger ed un teologo evangelico, P. Ricca, e quest’ultimo, con tipica sensibilità moderna, ad un certo punto ha detto: «Tutti abbiamo dentro un credente ed un ateo che si avvinghiano». Come potrebbe essere altrimenti, sia dalla parte di Dio che supera sempre i nostri concetti ed esperienze, sia da parte della fede che, dovendo incastonarsi come ogni altra esperienza in una dinamica antropologica, deve includere necessariamente la libertà?

Più volte mi è successo, parlando con semplicità ed apertamente dei miei travagli nella fede, di non sentirmi compreso. Ti dicono magari frasi del tipo: «Tu sei un buon ateo», « io non so chi preghi tu, se senti tutto questo»... Vorresti rispondere: «Guarda che io sono un “ateo” che ha una bella unione con Dio!». Sembra solo un’espressione paradossale, mentre invece esprime qualcosa di molto vero e importante.

Anche nella fede sento di poter dire «la mia notte non ha oscurità». So bene che questa oscurità costitutiva della fede è sempre un rischio, perché può convertirsi in una minaccia per il credere. Ma constato che costituisce l’occasione della mia scelta e quindi del mio amore. Ed anche nell’impossibilità di una certezza assoluta, faccio una sentita esperienza di Dio, di rapporto e di unione con lui.

Una volta un amico mi ha mandato una novella di Unanumo dove racconta di un prete che non sente la fede, però continua a “ingannare” la gente per pietà verso di loro, perché il mondo ha troppo bisogno dei valori del cristianesimo. Gli ho scritto che non ci eravamo capiti, che non è assolutamente il mio caso. Io non continuo la mia esperienza cristiana con il fine d’ingannare nessuno, nemmeno per compassione. Vivo coscientemente tutto il rischio della fede, ma capisco che se Dio c’è, ed è veramente Dio, non può esistere altro modo di vivere il rapporto con lui che, appunto, “nella fede”.

Vedendo come la gente crede e manifesta la sua fede, mi convinco che o non si accorgono di cosa credono, o in realtà, in fondo, non credono, solo che non hanno il coraggio o la lucidità di manifestarlo. Mi fa ricordare una commedia molto simpatica, nella quale Dio appare sotto le sembianze di un anziano ad una persona indifferente alle cose religiose, impiegato di un supermercato, dicendogli che ha scelto lui per dire all’umanità che Dio effettivamente esiste e che quindi devono cambiare vita. Naturalmente quando comincia a raccontare che “gli è apparso Dio” tutti, a cominciare dalla moglie, credono che gli abbia dato di volta il cervello. Allora domanda alla moglie: «Ma come, tu eri praticante ed io no, volevi sempre portarmi con te in chiesa, ed adesso che mi è successo questo non mi credi?». E lei gli risponde: «Beh, io credo in Dio... Ma non che esista!». Ho l’impressione che dietro a questa battuta ci sia molto da riflettere.

“Intellectus unitatis”

È un’espressione coniata da quel grande cristiano e teologo che è stato il vescovo Klaus Hemmerle, parlando dell’unità trinitaria in uno dei suoi ultimi scritti teologici prima di morire. Veramente ho sperimentato, nei più svariati campi, che uno stile trinitario di vita fa “vedere”, dà come un supplemento d’intelligenza.

Avevo molto sentito parlare del pensatore ebreo “personalista” Martin Buber. Ultimamente ho letto alcune sue opere e sono rimasto meravigliato di come lui ha colto l’importanza della relazione fra gli esseri umani. Con afflato profetico scriveva ad esempio: «Il rapporto tra Dio e il mondo è mutato... È la notte di un’attesa... Attendiamo una teofania di cui non conosciamo altro che il luogo, e questo luogo si chiama comunità».

Spesso ho ascoltato all’interno del Movimento dei focolari, o da parte di persone esterne che prendevano contatto con la sua vita, frasi come questa: «C’era una reciprocità così profonda, che si poteva avere l’impressione di “toccare’’ Dio».

Così come i grandi mistici hanno parlato delle loro esperienze meravigliose con Dio, oggi si vedono crescere dei “mistici” della presenza di Dio nella comunità «non solo negli individui ma anche nella loro unità... non solo in sé ma anche negli altri e nella comunione reciproca... non solo nel fratello ma anche nella relazione tra i fratelli» (J. Povilus). O, detto con una sfumatura che tiene più conto delle implicanze sociali, sperimentare la più profonda unione con Dio «non soltanto nell’interiorità dell’anima al vertice dell’ascesa, ma nella terrestrità della storia» (P. Coda).

Provo costantemente che, quando si vive l’amore evangelico fra le persone, si avverte una presenza speciale di Dio (o si acquista una capacità maggiore di avvertire la sua presenza). Personalmente ho sperimentato – facendo lezione, in incontri di gruppi piccoli o grandi, nelle confessioni, nei colloqui, nell’organizzare o portare avanti delle attività di ogni tipo – che quando c’è quella presenza attirata dall’amore reciproco fra due o più, si coglie più agevolmente l’Amore di Dio che opera magari dietro a situazioni dolorose o difficili, si ha più sapienza per discernere il da farsi o per affrontare i problemi concreti e del pensiero, si trovano forze per prendere le decisioni e fare i passi necessari... per cui alla fine senti che hai fatto un’esperienza di Dio. Quante volte, ad esempio terminando delle lezioni alle focolarine ed ai focolarini, mi son detto: «È stato un vero momento contemplativo, vissuto comunitariamente».

In innumerevoli occasioni, come succede sempre più spesso nel nostro mondo, ho trovato delle persone che dicevano di «non avere l’antenna necessaria per cogliere le onde religiose». Invece nella comunità dove c’era un vero amore evangelico – nell’esperienza pericoretica della presenza di Dio – Dio lo avvertivano. Per usare ancora parole di Buber, «un individuo può resistere con tutte le sue forze al fatto che “Dio’’ esista, e gustarlo nel severo sacramento del dialogo».

Ho capito, allora, perché si suol descrivere il Paradiso come un immenso cielo stellato, dove tutte le stelle si spengono rimanendo una sola accesa affinché tutte le altre contemplino la sua bellezza; poi questa si spegne a sua volta, si accende un’altra e tutte contemplano la sua bellezza; e così successivamente. Infatti un’esperienza del Paradiso che mi porto da questa vita, è aver contemplato l’opera di Dio nelle numerosissime persone che ho trovato e con le quali vi è un rapporto vero.

Dio presente nella comunità

Com’è noto, oggi gli studiosi mettono particolarmente in rilievo il fatto che la predicazione cristiana primitiva non cominciava dal “vogliamoci bene”, dal siamo tutti fratelli perché figli dello stesso Padre, dall’affermare la necessità dell’impegno sociale per trasformare il mondo, e via dicendo. Cominciava dall’annuncio della risurrezione.

È vero. Però bisogna aggiungere che l’impegno concreto ed efficace nell’amore evangelico permette l’esperienza d’incontro con Gesù risorto. Perciò tante volte ho sentito delle persone di tutti i tipi, esprimere riconoscenza perché avevano trovato questa presenza di Gesù vivente in mezzo a cristiani che si amavano sul serio. Tra mille altri, ricordo il card. Suenens che, salutandoci dopo una visita a Loppiano, diceva: «Vi ringrazio perché non si può non vedere Cristo nei vostri volti, nel vostro amore. Lui è presente, è visibile, traspare. E di questo c’è bisogno oggi più che mai, nella chiesa e nel mondo».

In ambito cattolico è stata molto approfondita la dimensione ecclesiale della fede, cioè il fatto che la fede debba essere compresa e vissuta “nella chiesa”, perché trovi in essa il suo “spazio vitale”.

Tuttavia è allo stesso tempo un’evidenza che la chiesa costituisce una difficoltà per la fede di tanti. Ci succede a tutti, sia di tendenza più o meno “progressista” o “conservatrice”, di farci delle idee riguardo a ciò che il cristianesimo dovrebbe portare avanti con urgenza, e pensare che la propria chiesa non si muova abbastanza in quel senso. Una cosa che personalmente mi ha aiutato molto al riguardo è di mettermi in un atteggiamento di fede anche verso coloro che non la pensano come me, soprattutto verso quelle persone che hanno delle responsabilità ecclesiali. Avverto allora che anche lì faccio un’esperienza di Dio: riesco a cogliere (e spesso aiuto a manifestarsi meglio) quel tanto di Dio che agisce in loro. Lasciando da parte giudizi e comportamenti non evangelici e mettendomi in un atteggiamento di amore, normalmente sia loro che io “vediamo di più”. Per cui magari si capisce qualcosa che prima non si coglieva, ci si esprime in modo più adeguato ai tempi, si agisce in maniera diversa. È vero che a volte questi processi sono lunghi, e spesso le mentalità non si cambiano facilmente o non mutano mai. Ma l’esperienza mi dice che, se molte volte ciò è dovuto ai diversi temperamenti, formazione, circostanze, esperienze del passato, molto più spesso è perché non c’è un sufficiente atteggiamento di “fede informata dalla carità” da parte di coloro che sono attorno.

Sapere non è ancora amare

Anche qui mi viene in mente un altro film eccellente: Viaggio in Inghilterra. Narra un episodio realmente accaduto nella vita di C. S. Lewis, convinto cristiano inglese vissuto nella prima metà del nostro secolo, brillante professore ad Oxford, scrittore e conferenziere, specialista di temi come la sofferenza ed il rapporto fra eros ed agape (sono note ancora le sue opere a riguardo). Eppure quando già avanti negli anni, scapolo incallito, si è innamorato di una donna e appena sposato si è manifestato in lei un cancro che l’avrebbe fatta morire in poco tempo, questa sua esperienza di amore e di dolore era ben diversa dalle parole con cui incantava i suoi lettori ed uditori.

Così ho visto che mi succede con le cose di Dio. Puoi sapere “tutto” su di esse, ma viverle è un’altra cosa. L’esperienza o la fai o non la fai. Mentre non l’hai fatta puoi discuterla. Quando l’hai fatta, puoi offrirla con tutto il senso della relatività e delle obiezioni a cui è esposta, però non puoi negarla.

Ho avuto la passione per lo studio, per la conoscenza, e continuo a sentirla con tutto il mio essere. Ma ho sempre constatato che la crescita nelle conoscenze non è direttamente proporzionale alla santità della mia vita. E so bene che la gente ha bisogno di trovarsi con la realtà di Dio, non solo con le mie idee, anche se andassero in una direzione giusta.

Sembrerà banale o scontato, ma è stato importante per me provare che in Dio si cresce, e poi egli “passa” agli altri attraverso le nostre parole e la nostra vita, nella misura in cui ci rapportiamo con lui e lo amiamo, in cui “diventiamo”, in qualche modo, lui, personalmente e socialmente.

Si sa che la fede è grazia prima che conquista. Ma Dio può entrare solo “lì dove lo lasciano entrare”. Ha sempre bisogno del nostro atteggiamento “mariano”, cioè della nostra disponibilità. «Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1 Gv 4, 16).

 

Kike Apioli