Il Dio per l’uomo d’oggi: intervista a G. M. Zanghì

 

Verso una cultura del post-ateismo

a cura di Enrique Cambón

 

 

Con un’intuizione per certi versi originale, che a nostro parere costituisce un apporto per il futuro della fede cristiana, G. M. Zanghì trova nelle stesse caratteristiche dell’Amore di Dio, la condizione che rende possibile l’ateismo. E vede in ciò le radici per la scoperta di un Dio “più divino” e quindi più credibile. Anticipiamo in questa intervista, con la semplicità del linguaggio colloquiale, alcune delle idee di fondo di uno studio molto più tecnico ed esteso che l’autore ha intenzione di pubblicare.

Perché è possibile l’ateismo?

GEN’S: Von Balthasar diceva che «il dramma del mondo deve avere in Dio le condizioni della sua possibilità». Se Dio «è più intimo a noi che noi stessi» e «in lui siamo, ci muoviamo ed esistiamo», come mai è possibile l’ateismo?

Il dilemma dell’ateismo è il seguente: se Dio non ci fosse, allora l’ateismo sarebbe un bene (la difficoltà sarebbe quella di spiegare il mondo, di renderlo razionale); però se Dio c’è e noi lo neghiamo, è un disastro per
l’umanità, perché sarebbe come se una macchina, che dovrebbe funzionare in un certo modo, noi la facessimo andare al contrario. Si creerebbero dei guai e delle disfunzioni terribili, personali e collettive, come vediamo oggi nell’umanità.

La domanda però che qui ci poniamo vuole andare ancora più a monte. Se Dio esiste, come mai è possibile l’ateismo?

Armando Torno, autore tra l’altro di due libri sulla ricerca di Dio, ha scritto acutamente: «Che Dio venga negato o affermato, provato o confutato, testimoniato o offeso, considerato o ignorato, tutto ciò fa parte della sua natura». In altre parole: Se io posso negarlo vuol dire che Dio è fatto in maniera tale da poter essere negato.

In genere quando si parla dell’ateismo lo si analizza cercando le motivazioni dalla parte degli esseri umani: nella libertà umana, nella nostra impossibilità di “spiegare” il Dio ineffabile, ecc. Mentre la domanda di fondo, in realtà, dovrebbe essere: Com’è fatto Dio per poter essere negato? Noi non potremmo negarlo, se non ci fosse offerta questa possibilità dallo stesso modo d’essere di Dio.

Il discorso della kenosi

GEN’S: Questo farebbe più comprensibile come mai, proprio dall’Occidente che ha alle sue radici la comprensione ebraico-cristiana di Dio, sia venuto fuori l’ateismo come fenomeno di massa.

Dio ha avuto sempre un rapporto con
l’umanità. Ad un certo punto si è scelto un popolo, quello ebraico, perché servisse come da pedana di lancio per potersi comunicare maggiormente a tutto il mondo, aprire la sua intimità, far capire chi è lui.

Nella rivelazione giudaica Dio si apre, con una manifestazione graduale, che raggiunge il culmine nei profeti (non solo nei grandi come Isaia, Geremia, ma anche nei cosidetti minori, come Osea, Amos). Dio comincia a presentarsi con un nome che è originale, che nessuno mai gli aveva dato nel passato: “Amore”.

Tutta la cultura occidentale si è costruita su Dio, ma sono convinto che non è riuscita ancora a costruirsi pienamente sul Dio cristiano. Diceva J. Maritain: «Che Dio sia essere i greci lo sapevano, Aristotele lo aveva perfettamente capito. Ma che Dio sia Amore, i greci non lo sapevano. È stato Giovanni che ce l’ha rivelato». E conclude: «Ma la cultura, il pensiero cristiano, è ancora lontano dall’aver tirato le conseguenze da questa rivelazione».

Una delle caratteristiche tipiche di Dio Amore che i cristiani non hanno ancora scoperto fino in fondo, è quella del non-essere.

Nella Trinità ciascuno dei Tre è se stesso compiutamente e interamente negli altri due. Il Padre è tutto nel Figlio e tutto nello Spirito Santo. Il Figlio è tutto nel Padre e tutto nello Spirito Santo. Lo Spirito è tutto nel Padre e tutto nel Figlio. Per cui appena io volessi afferrare il Padre, già non lo troverei, perché è tutto trasferito nel Figlio, e così successivamente.

Quindi come si vede non si tratta di un “non essere” nel senso di qualcosa che semplicemente “non esiste”. Per dirlo con la limpida intuizione di Chiara Lubich: «Tre (...) formano la Trinità eppure sono Uno perché l’Amore è e non è nel medesimo tempo, ma anche quando non è, è, perché è Amore».

Bisogna, in poche parole, prendere sul serio con tutte le sue conseguenze che il nome ultimo di Dio è Amore. E la legge dell’amore – questo gli amanti lo sanno – è non essere perché l’altro sia; ma mentre io non sono perché l’altro sia, allora io sono, perché è questo non essere che mi fa essere.

Le nostre categorie sconvolte

GEN’S: È un discorso duro da accettare da parte di tanti in Occidente, dove il pensiero si è sviluppato fondandosi sull’essere...

Infatti, se lo pensiamo bene, una tale prospettiva sconvolge in certo modo tutte le nostre categorie.

Quando Dio si rapporta con l’umanità, proprio perché è Amore, non può farlo se non dandosi totalmente, “non essendo” per fare l’altro “uguale” a sé (come diceva Hegel, non ci può essere vero amore senza uguaglianza).

Questo è il discorso kenotico: Dio è presente nel mondo ma come uno che si è tutto dato. È presente come morto, diciamo, morto per amore. Il non essere costituisce “le viscere” di Dio, e tutta la creazione è il volto manifestato di Dio in modo kenotico. Questo mondo che io vedo non è altro che la kenosi della divinità, il risvolto kenotico di Dio.

Certamente Dio non si presenta a noi così per il gusto di nascondersi, per “metterci alla prova” o altro. Si presenta così perché l’esige costitutivamente il suo stesso essere. Quando Dio crea, lo fa amando. Cosa vuol dire “amando”? Dando tutto. Quando lui mi fa essere, mi fa essere come lui, cioè mi fa essere “assoluto”, completo.

In altre parole, Dio si rapporta sempre “trinitariamente”, per cui anche nei riguardi della natura si “svuota” di se stesso per far essere natura la natura; solo così lui è veramente Dio. È per questo che noi possiamo negare Dio. Perché lui non s’impone a noi, non ci schiaccia con la sua evidenza e con la sua gloria. Quello che noi neghiamo quando neghiamo Dio non è tanto lui, quanto il suo “non apparire” per amore, la sua presenza kenotica nel creato.

Non essere per essere

GEN’S: Vediamo allora questa realtà da un’angolazione antropologica: cosa può significare tutto ciò dalla parte della persona umana?

Di fronte ad un Dio kenotico, quello che difficilmente tanti riescono a capire è che, allora, se la realtà di Dio è la kenosi, anche la realtà umana è segnata da essa in modo decisivo.

Se ciò che costituisce l’essere di Dio è il non essere per Amore, allora se io mi trovo di fronte a questo “non essere” non recependolo in maniera giusta, cioè non essendo anch’io nel non essere per amore, si genera un conflitto tra il mio essere e il non essere di Dio.

È una situazione conflittuale fra un Dio che è attingibile solo se lo sai riconoscere kenotico, e una soggettività, autentica conquista dell’essere umano, che se non vuole anch’essa essere kenotica, si chiude la strada ad attingere Dio.

Su questa base sono nate le grandi culture religiose ed umane. Per un grandissimo tempo, le culture avendo capito che il nodo da risolvere si trova nell’io (cioè che è l’io quello che t’impedisce di capire Dio), senza però capire bene la kenoticità di Dio, hanno cercato di cancellare l’io. Per cui, per esempio, nei maestri indù, nei maestri del buddismo, nei maestri sufi stessi, il punto d’approdo dello sviluppo umano è riuscire a negare il sé, a negare il proprio io, sapendo che poi trova l’io vero, che è quello di Dio. Per non sacrificare Dio, ha finito per sacrificare l’io.

La cultura occidentale moderna, che poggia sulla grande scoperta dell’individualità da parte del genio greco, a ragione non ha voluto sacrificare l’io. Ma tale soggettività, non venendo fuori in maniera kenotica, cioè non sapendo perdersi per amore, cade nell’ateismo e nell’individualismo, i due grandi drammi dell’Occidente: perde allo stesso tempo Dio e il fratello.

È alla luce della dinamica che fa tali le Persone della Trinità che si capisce cos’è la persona umana: è l’individuo che, riuscendo a superare nell’amore il limite dell’io, superando l’egoità, riesce a raggiungere la dimensione della persona. Mai qui in modo definitivo, ovviamente, ma sempre in cammino ed in crescita, perché siamo esseri storici.

Ecco la differenza radicale fra l’individualità che la Grecia ha scoperto e la persona in senso cristiano. L’individualità è quella che dice “io sono”. E dicendo “io sono” si distingue da tutti, alza un muricciolo e dice: «Tu non ti permettere di entrare qua dentro, perché questa è la mia privacy». Si pensi alla frammentazione delle polis greche! Ma questo non è l’io con il quale Dio dialoga!

Per una cultura post-atea

GEN’S: Quindi, con quel paradosso tipico delle cose di Dio, se agisci in modo adeguatamente “kenotico”, sembra che si perda qualcosa, mentre in realtà si tratta di una nuova crescita.

Ne sono convinto. Noi dobbiamo promuovere una cultura che non cancelli la soggettività, ma la sviluppi nel gioco di quella reciprocità che è mutuo darsi per amore. Quindi un pensare con questa reciprocità, un vivere nella reciprocità in tutti gli aspetti della vita intersoggettiva e sociale.

È qui che l’umanità attuale si trova di fronte al problema dei problemi. La risposta che sta dando oscilla fra due esiti: o cerca di risolverlo a favore del non essere in senso nichilistico, o a favore dell’essere inteso come negazione del non essere. Senza capire che le due risposte sono insufficienti.

Una cultura capace di far possibile
un’epoca post-atea, è una cultura che sappia scoprire in maniera nuova il valore della negatività. In fondo tutti gli ultimi grandi pensatori occidentali questo l’hanno intuito e si sono mossi in questa direzione, senza arrivarci pienamente. Capire il negativo non come negazione, ma come lo spazio nel quale l’E/essere, l’I/io, è e si mostra.

Se manca questo negativo, questo “non”, il nostro io rimane prigioniero di se stesso. Il negativo, se è autenticamente “trinitario”, non uccide l’io, ma lo dilata, perché gli spalanca una porta aprendolo sugli altri. Si tratta, come nel Dio Uno e Trino, di un non essere per amore e così far essere allo stesso tempo l’altro e te stesso.

Questa sarebbe, detto in poche parole, la “cultura dell’amore” che fa ancora possibile un’esperienza di Dio in questa nuova epoca che si va facendo strada. Un Dio “più adeguato” a Dio ed ai tempi.

Gesù crocifisso e abbandonato

GEN’S: Facciamo allora un altro passo, esplicitando questo discorso fino alle ultime conseguenze. Giovanni Paolo II, nel suo bestseller “Varcare la soglia della speranza”, diceva in piena sintonia con il meglio della teologia contemporanea: «Se fosse mancata quell’agonia della croce, la verità che Dio è Amore sarebbe sospesa nel vuoto»...

Infatti, se si volesse trovare un’espressione per descrivere la dinamica per la quale Dio è Amore, la più adatta è quella di
Gv 13, 1: «Avendo amato i suoi, li amò sino alla fine». La caratteristica dell’amore con cui Dio si rivela è che il suo amore giunge sino alla fine.

Cosa significa la parola “fine”? Significa – come ben aveva capito ad esempio S. Bulgakov – quella kenosi intradivina che storicamente si è tradotta nella croce e nell’abbandono. Per questo oggi si riconosce nella Pasqua, cioè nella crocifissione-abbandono-morte-risurrezione-consegna dello Spirito, il momento più alto dove si è attuata nella storia la stessa dinamica della vita divina intratrinitaria. È lì che abbiamo l’archetipo, il massimo modello storico, del non-essere-per-essere trinitario.

La risurrezione di Cristo ha come significato profondo quello di riportare alla luce questo “Dio morto” che si è “kenotizzato” nella creazione. La risurrezione consiste nel fatto che, la kenosi della divinità che è la creazione, entrando nella Trinità, viene superata nella gloria che questa kenosi contiene.

Verso una dinamica trinitaria

GEN’S: Ogni notte è preludio di nuova luce. Verso quale traguardo ci sta chiamando quindi l’ateismo contemporaneo?

L’Occidente è entrato in una vera e propria notte oscura, cioè in quel momento della vita in cui tutte le certezze umane e tutte le realtà umane che tu hai costruito crollano. Non ti rimane niente, e su questo niente Dio finalmente si può far capire.

Per me è questa “notte” che fa grande l’Occidente, perché è qualcosa che per forza dovranno passare anche le altre grandi culture. C’era un missionologo e teologo cattolico, l’abbé Monchanin, francese vissuto e morto in India, il quale una volta ha scritto: «Io sono convinto che il pensiero indù, per poter capire il cristianesimo, dovrà passare una vera e propria notte dello spirito». L’Occidente ha questo, che siamo in anticipo. Dovremo riuscire a superare questo per poter offrire la nostra esperienza agli altri. Non per dir loro come si fa, perché ognuno avrà la sua strada. Ma per dir loro: «Tu ti vuoi incontrare col Dio di Gesù Cristo? Preparati alla notte! E sai l’approdo quale sarà? Sarà
l’amore reciproco, perché Dio è Amore reciproco».

Un acuto pensatore che si professa non credente scriveva di recente: «Si vocifera che bisogna ripensare il concetto di Dio. Ma se ciò si vuole veramente, allora qui vi aspetto, signori miei». Come dicendo: Dov’è quella nuova immagine di Dio? Non vi fate illusioni, non lo sa nessuno, e soprattutto non si sa come raggiungerla...

Ebbene, se noi riusciamo a vivere “a mo’ della Trinità”, cioè a inabitare, a stare l’uno nell’altro per amore, persi l’uno nell’altro, volendoci bene al punto tale che io vivo in te e tu vivi in me, cosa ciò fa presente in mezzo a noi? Fa presente il Verbo di Dio. Una proposizione di cosa è fatta? Da alcune parole alle quali il verbo dà significato. Ecco, noi saremo come tante parole che, messe insieme da questo amore reciproco, e avendo il Verbo in mezzo a loro, sono il parlare “storico” di Dio. Sia il parlare che noi facciamo di noi in Dio, sia il parlare che Dio fa di sé in noi.

Allora chi arrivasse fra noi non avrebbe bisogno di qualcuno che vada sulla cattedra e gli faccia una dotta disquisizione su Dio. Basterebbe che vedesse quella comunità. Magari si parla delle cose più semplici, più normali, però quella persona avverte che c’è una presenza, che c’è un discorso che rende presente Dio, attraverso la nostra esperienza di unità trinitaria. E a chi ci dicesse come quello scrittore: «Qui vi aspetto, signori miei!», potremmo rispondere con semplicità, con l’evangelico: «Vieni e vedi».

Non si può non avere speranza che questa nuova cultura sarà realizzata nell’umanità, perché non è pensabile che l’essere umano possa vincere Dio, appunto perché Dio è Amore, e l’amore è senza pentimenti. Dio, attraverso tutta la storia dell’umanità, attende i suoi tempi, i suoi spazi, i suoi momenti. A noi soltanto fare tutta la nostra parte per offrirglieli.

 

 

a cura di Enrique Cambón

 

 

 

La Trinità nella prassi di tutti i giorni

«La Trinità, versione dell’Assoluto inaudita per qualsiasi fede religiosa non cristiana, combatte con l’uomo, come l’angelo con Giacobbe, per farsi accogliere da lui per accoglierlo in sé. È la Trinità che preme sul pensiero, sui rapporti interpersonali, per informarli di sé. (...) Fino a quando l’uomo non trasformi in trinità le sue categorie trasformando in trinità la sua vita. Con un lavoro secolare la Trinità sta trasformando, per purificazione e dilatazione, la comprensione di Dio che l’uomo aveva elaborato (non senza l’aiuto di Dio) nelle culture precristiane, e che la cultura occidentale anche cristiana aveva ereditato per condurre il pensiero a pensare il Dio vero, che è Amore. (...) Dagli abissi della cultura d’oggi deve esplodere vita nuova e pensare nuovo. Una vita che sia già fin d’ora trinità. (...) Un elaborare istituzioni e strutture che calino per quanto è possibile queste realtà nella prassi di tutti i giorni (...). Occorre dilatare queste realtà. Farle entrare in tutte le espressioni dell’uomo.»

G. M. Zanghì