Se la chiesa rende visibile il suo volto «trinitario», la fede cristiana diverrà più credibile

 

Quale chiesa
per il terzo millennio?

di Silvano Cola

 

 

Questo articolo è in continuità ideale con altri due dello stesso autore, pubblicati precedentemente: uno riguardante le immagini di Dio e l’altro i rapporti tra la chiesa e i non credenti1. Qui si pongono in evidenza le caratteristiche che la chiesa sta acquistando, nel suo cammino verso il terzo millennio, sotto la spinta del carisma dell’unità sbocciato dal suo seno nel nostro tempo.

Icona della Trinità

Una delle caratteristiche della chiesa postconciliare è l’ecclesiologia di comunione, ossia il superamento delle dicotomie precedenti: chiesa docente – chiesa discente, sacerdozio ministeriale – sacerdozio regale, chiesa universale – chiesa locale o particolare, chiesa istituzione – chiesa carismatica.

È vero che la chiesa da sempre è stata vista «radunata nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (icona della Trinità), ma forse per la prima volta essa sta assumendo i rapporti tra le Persone divine come modello dei rapporti che devono stabilirsi ad ogni livello tra cristiano e cristiano, tra uomo e donna, in seno alle famiglie sia naturali che religiose, tra vescovi, tra sacerdoti, tra sacerdoti e vescovi, tra gerarchia e fedeli.

Il travaglio di due millenni

Questa verità, così limpida nel Nuovo Testamento e rivelata da Gesù, sembra strano che abbia tardato quasi duemila anni a imporsi come modello sociale di comportamento anche all’interno della chiesa, se si eccettuano i primi anni di fondazione della stessa ed esperienze successive sporadiche in ristrette comunità religiose. Ma non bisogna dimenticare che la legge che regola la crescita dei grandi organismi sociali è la stessa legge che regola lo sviluppo di ogni essere vivente: prima si difende la propria identità e, quando questa è solida, ci si apre agli altri senza paura che si venga fagocitati. Basti un esempio: per 2000 anni ha regnato l’apologetica, ossia la difesa a oltranza del proprio credo religioso con conseguente lotta per la conversione o la distruzione dei cosiddetti avversari. Il dialogo all’interno delle stesse chiese cristiane, dopo la Riforma di Lutero, era proibito, segno di uno stato di insicurezza e instabilità della fede che le singole chiese temevano a proposito dei propri fedeli, con possibili diserzioni. Non parliamo poi del dialogo con le grandi religioni e con i cosiddetti non-credenti. Si è dovuti arrivare al Vaticano II e alla chiesa postconciliare per cominciare ad aprirsi al dialogo.

Per questo, il fatto storico forse di maggior rilievo è stato il delinearsi in questo secolo di una dottrina trinitaria che non solo ha avviato un nuovo modo di comportamento nella prassi, ma ha iniziato una rivoluzione culturale che, a cominciare dalla teologia, cambia il modo di pensare, di comprendere la creazione tutta intera, compreso l’uomo, la sua vita e le sue varie forme di aggregazione fra cui la chiesa e, di conseguenza, anche le sue varie strutture come la parrocchia.

Sembrava quasi che non ci fosse più niente da aggiungere alla dottrina trinitaria sviluppata dai grandi Padri della chiesa Atanasio, Basilio, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa, sant’Agostino, Giovanni Damasceno e, infine, san Tommaso e san Bonaventura. Ma il fatto è che, se pure hanno visto la vita trinitaria come il modello da imitare nei rapporti interpersonali dei cristiani, nessuno ha spiegato come viverli in concreto.

La novità del nostro tempo

La vera novità viene negli anni ’40 quando, partendo da una esperienza di amore reciproco dovuta alla decisione di attuare alla lettera la Parola «amatevi l’un l’altro come io vi ho amati», pronte quindi a dar la vita l’una per l’altra, Chiara Lubich, con le sue prime compagne, viene illuminata sul dinamismo intimo della vita della Trinità, e intuisce che la chiave dell’unità sia tra le Persone divine che fra i cristiani è stata svelata dall’abbandono di Gesù sulla croce. Dice in una frase sintetica, ma dagli sviluppi imprevedibili per la teologia, la filosofia e le scienze: «Tre formano la Trinità, eppure sono uno, perché l’Amore è e non è nel medesimo tempo; ma, anche quando non è, è, perché è Amore».

Contemporaneamente nasce la spiritualità collettiva, quando Chiara afferma che, se devo farmi nulla davanti a Dio se voglio arrivare all’unione con lui (nella spiritualità individuale), poiché lo stesso Dio è anche nel cuore dei fratelli, la logica evangelica mi porta a farmi nulla anche di fronte ad ogni prossimo. Succede allora che, se c’è reciprocità in questa pericoresi di amore, si edifica quel castello esteriore (“la mia cella è noi”) che è vita trinitaria sulla terra, inizio della comunità visibile che è la chiesa.

Le conseguenze sul piano ecclesiale (e sociale) sono enormi. Non si tratta solo di dichiarazioni di principio o di attuazione di rapporti trinitari in piccoli gruppi. È l’inizio della nascita e della crescita di un’Opera a dimensione universale, che pone alla base della propria esistenza e del proprio agire, ante omnia, quella «mutua e continua carità che rende possibile l’unità e porta la presenza di Gesù nella collettività». E poiché suo fine specifico è «che tutti siano uno» e abbraccia di fatto persone di ogni vocazione e stato di vita, di ogni chiesa, di ogni religione e ogni persona di buona volontà, non è strano che Giovanni Paolo II abbia visto in essa «i lineamenti stessi della chiesa postconciliare», icona visibile della Trinità, modello di quella comunione effettiva d’amore cui la chiesa è chiamata.

Ricordo quell’ora semplice e solenne il 19 agosto dell’84, quando Chiara ha esposto al Papa la spiritualità dell’Opera di Maria, e poi ha fatto parlare brevemente – in merito alle rispettive attività – i rappresentanti centrali degli aspetti della vita dell’Opera, i responsabili delle varie diramazioni costituite dalle sezioni, branche e movimenti, i responsabili dei dialoghi che l’Opera instaura con le altre chiese cristiane, con le grandi religioni e con gli uomini di convinzioni diverse. Assieme allo stupore del papa, forse per la prima volta ci siamo accorti noi stessi che Maria stava formando un’Opera che è, sì, figlia della chiesa, perché ha tutte le caratteristiche della madre, ma anche capace di ravvivarla spiritualmente e organicamente, rimettendo nel tessuto connettivo del suo corpo, tra cellula e cellula e tra le varie membra, quell’amore che «è al di sopra di tutto, il solo capace di tenerle perfettamente unite» (Col 3, 14).

Alle parole del Papa ha fatto eco, nel gennaio scorso, il segretario della CEI, mons. Ennio Antonelli il quale, durante un colloquio con Chiara, ha messo in evidenza la perfetta sintonia che egli riscontrava tra l’Opera e la chiesa: da una parte la sua perfetta ortodossia e il suo perfetto radicamento nella tradizione della chiesa, e dall’altra una piena e costruttiva apertura nel dialogare a tutto campo. Ha detto di trovare nell’Opera una chiesa autentica, la chiesa come la vuole Dio, quella discesa dal cielo tra gli uomini. L’Opera, diceva, dovunque arriva, oltre a portare la sua tipica vita nuova, sa promuovere e unificare anche le forme di vita cristiane e associative nella chiesa. E terminava dicendo: «L’Opera sta attuando magnificamente lo spirito del Concilio».

«Chiesa in miniatura»

È quello che oggi dei teologi chiamano “chiesa in miniatura” o “chiesa condensata” (A. Borras), capace di ricordare a tutta la chiesa la propria vocazione di essere comunione trinitaria.

Ma come si configura, in concreto, quest’Opera di Maria che può indicarci – come si è detto – quale sarà la chiesa del 2000?

Va anzitutto premesso che Chiara ha sempre affermato che l’idea dell’Opera era in Cielo e che lei non l’ha mai conosciuta prima, né ha voluto anticiparla. Lei non ha fatto che seguire l’ispirazione del carisma attimo per attimo. Aveva capito, certo, che se la civiltà del Cielo è l’Amore che fa Uno, essendo anche la chiesa, come tutta l’umanità e il creato, una creatura di Dio, il Verbo, venuto come un emigrante sulla terra, non poteva che forgiarla a immagine della Trinità, perché anche qui si vivesse la civiltà dell’Amore («fece di tutto perché quaggiù si vivesse come lassù»).

E vita trinitaria vivono i focolarini che ripetono la vita della casetta di Nazaret. Scriveva Chiara ancora nel ’48: «L’importante è mettere a base, a mezzo, a fine dei nostri rapporti l’unità. In questa unità voluta da Dio le anime si fondono in uno, e riaffiorano uguali e distinte. Come la santissima Trinità». Vita trinitaria vivono i focolarini sposati che stabiliscono, ante omnia, Gesù in mezzo a loro; vita trinitaria hanno imparato a vivere religiosi e sacerdoti e via via i volontari, i gen e ogni altro membro delle diramazioni dell’Opera. E Chiara, vedendo sempre il movimento da lei fondato in funzione della chiesa poteva dire che quello che lei sentiva  di portare, anche in ambienti lontani dalla chiesa, è la presenza dell’anima della chiesa, perché Gesù in mezzo a noi e lo Spirito Santo, anima della chiesa, sono tutt’uno.

Quando l’Opera si sviluppa e si distinguono le varie diramazioni, la caratteristica nuova è che nessuna di esse vive per sé, ma per le altre. Anche per esse «l’importante è mettere a base, a mezzo e a fine, l’unità», tanto che Chiara può affermare: «Vi è in tutta l’Opera il timbro dell’unità e trinità di Dio».

Il Centro dell’Opera, formato dai responsabili degli aspetti concreti e di tutte le diramazioni (si potrebbe paragonare al Consiglio dei cardinali prefetti delle varie Congregazioni, che il papa riunisce periodicamente) riassume l’intera Opera e ne manifesta l’unità. È il custode della fiamma dell’unità, del diamante che è Gesù in mezzo, perché ogni membro è sempre pronto a dare la vita per gli altri ed ha il compito specifico di mantenere e incrementare lo spirito d’unità in tutte le parti del Movimento, coordinandone anche le attività. L’unità con la Presidente è totale da parte di tutti. È lei «il segno visibile dell’unità dell’Opera» (cf Statuti generali, art. 87ss.). Certo, anche il Consiglio dell’Opera è una struttura, ma è a imitazione della prima originaria struttura che è la Trinità: molti che sono Uno. Non è così la chiesa, icona della Trinità?

Nell’Opera di Maria, infatti, non avrebbe né significato né possibilità di lunga vita una zona che non ripetesse sul posto, tra le varie diramazioni, l’unità del Centro e non respirasse all’unisono con il Centro. I Consigli di zona ripetono infatti, come spirito e come struttura intercomunicativa, il Consiglio generale del Centro; e lo stesso fanno i focolari con il loro Consiglio, sì che ciascuno può dire: «la luce (e la vita) che Tu hai dato a me io l’ho data ad essi perché siano una cosa sola come noi», pur tenendo conto, nell’attività, della diversa inculturazione geografica.

Sono, questi, tutti effetti della nuova cultura che nasce dal “darsi” per essere, e non più dalla rivendicazione dell’io o personale o comunitario.

La novità del terzo millennio:
il primato della relazione

Si può dire allora che, se il secondo millennio si è costruito sulla difesa del primato dell’essere – a séguito di Aristotele e san Tommaso – il terzo millennio si baserà sul primato della “relazione” tra gli esseri, come nella Trinità, dove il Padre si può chiamare Padre solo e in quanto è relazione al Figlio, e il Figlio solo e in quanto è relazione al Padre. Nasce così la “ontologia trinitaria”, di cui si può dire iniziatore il vescovo teologo Klaus Hemmerle che l’ha enucleata dagli scritti e dal pensiero di Chiara Lubich. Il “darsi”, come dinamismo dell’agape divina, vissuto sul piano storico, genera la comunione. Ma è indissociabile dal dinamismo della kenosi e dall’accettazione della croce. Solo così può nascere la chiesa-comunione dove ogni realtà trova la propria identità nel darsi, nel vivere per le altre.

Allo stesso modo – possiamo prevedere – si configurerà la chiesa del 2000, grazie alla collegialità effettiva ed affettiva (agàpica) vissuta dai vescovi col papa e tra loro come ante omnia, ed essa sarà modello della struttura diocesana dove il presbiterio e i vari consigli pastorali ed economici devono insieme e all’interno di se stessi testimoniare prima di tutto la vita trinitaria. Da questa rievangelizzazione anche delle strutture potrà nascere e crescere una comunità cristiana «che manifesti in se stessa, nella vita e nelle opere, il vangelo della carità». Il papa l’ha ricordato nella Christifideles laici: «Se è vero che sentiamo urgente rivitalizzare il tessuto sociale del nostro Paese, con lo sguardo rivolto a tutta l’umanità, ciò ha però come condizione che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali» (n. 34).

Non a caso Chiara ha dato vita, tra le diramazioni dell’Opera, ai movimenti parrocchiale e diocesano i quali, se tendono a rivitalizzare il tessuto cristiano nei loro ambiti, hanno lo sguardo rivolto a tutta l’umanità, collaborando con tutte le altre diramazioni dell’Opera che, svincolate dalla territorialità,  operano nei diversi settori della società e della cultura.

Il profilo mariano e petrino
in rapporto trinitario

Se ci domandiamo, insomma, come si configurerà la chiesa nel terzo millennio, possiamo rispondere in sintesi: sarà una chiesa che manifesterà, accanto al profilo petrino, il suo profilo mariano, anch’essi in rapporto trinitario.

I due profili, o i due princìpi petrino e mariano caratterizzanti la chiesa, sono stati una tesi ricorrente nel grande teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, entrati poi nel capitolo otto della Lumen Gentium. Chiara da sempre ha visto nel profilo mariano l’aspetto più profondo e interiore della chiesa, sia perché Maria mette in rilievo in essa l’aspetto fondamentale dell’amore che la fa essere una, sia perché grazie a questo amore Maria fa entrare la chiesa nel mistero di Dio che è amore trinitario.

Forte è questa sua affermazione: «Maria, laica come noi laici, sta a sottolineare che l’essenza del cristianesimo è l’amore e che, anche sacerdoti e vescovi, prima di essere tali devono essere dei veri cristiani, dei crocifissi vivi, come lo fu Gesù che sulla croce fondò la sua chiesa. Maria mettendo in rilievo nella chiesa l’aspetto fondamentale dell’amore che la rende “una”, come nella Trinità, presenta al mondo la Sposa di Cristo quale Gesù l’ha desiderata e tutti gli uomini d’oggi l’attendono: carità ordinata, carità organizzata. E solo sottolineando questo suo fondamentale aspetto la chiesa oggi può adempiere degnamente la funzione di contatto e dialogo col mondo, al quale spesso interessa meno la gerarchia, ma che è sensibile alla testimonianza dell’amore, anima del mondo».

E il Papa, rifacendosi ai due profili petrino e mariano della chiesa, parlando ai cardinali e prelati della curia romana il 22 dicembre dell’87, sottolineava anche lui, nella nuova ecclesiologia, il profilo mariano dichiarandolo “altrettanto – se non più – fondamentale e caratterizzante... quanto il profilo apostolico petrino”, e aggiungeva che «la dimensione mariana della chiesa antecede quella petrina, pur essendole strettamente unita e complementare»; che la dimensione mariana «è anteriore tanto nel disegno di Dio quanto nel tempo, è più alta e preminente, più ricca di implicazioni personali e comunitarie».

Del resto, Chiara ha sempre avuto coscienza che l’Opera di Maria altro non vuole essere nella chiesa se non una mistica, ma reale, presenza di Maria. E mons. Klaus Hemmerle poteva confermare a un’assemblea di vescovi: «Questo Movimento, approvato col nome di Opera di Maria, per la sua vocazione alla carità e per la sua ispirazione all’unità, sembra veramente portare alla chiesa di oggi, col suo spirito e col suo servizio, la presenza di Maria».

Le Mariapoli:
un’esperienza paradigmatica

Si è sentito spesso dei vescovi dire: «Se vuoi vedere la chiesa futura, và in Mariapoli: là troverai tutte le diverse realtà del popolo di Dio in comunione».

Non è sbagliato, perché nella Mariapoli si vedono realizzate le parole di Pietro: «Voi che eravate non-popolo ora siete popolo di Dio... popolo santo» (1 Pt 2, 10).

Ricordo quelle Mariapoli estive dove convenivano famiglie, laici consacrati, bambini e preti, giovani, religiosi e religiose, e si cantava: «Tranvier, studenti e medici, speziali e deputati, entrando qui in Mariapoli, son già parificati», perché l’unica legge del convivere era ed è l’amore scambievole, e l’amore, si sa, porta a considerare l’altro uguale a sé, anzi più grande di sé; così che anche noi preti dovevamo in genere tacere e imparare a vivere il vangelo. Pur coscienti dell’ordine sacro, imparavamo a non farne una prerogativa di distinzione, ma (e qui parafraso la Lettera ai Filippesi) a spogliarcene, a diventare servi, uomini tra gli uomini, e a farci obbedienti a tutti. Fu allora che ci sentimmo finalmente sacerdoti. Fu proprio nelle Mariapoli che scoprimmo Maria non come devozione ma come vita, perché vedevamo che Maria riviveva in quei laici per i quali non aveva importanza il fatto di essere architetti o manovali, ma essere cristiani. L’essenziale era vivere Maria per essere più Gesù, tutti insieme. In quella unità di un corpo che vive, ciascuno aveva poi i suoi doni personali da offrire. L’essere preti, per noi, diventava il nostro servizio.

La meraviglia era di vedere un pezzo di Corpo mistico di Cristo che si muoveva finalmente come corpo sociale. L’unità era dunque possibile! E non solo perché avevamo in comune un solo Dio, una sola fede e un solo battesimo, ma perché si era compaginati dall’amore concreto, sì che tutti davano e tutti ricevevano, dalle realtà spirituali a tutte le cose materiali.

Lì si faceva l’esperienza che siamo stati creati per essere dono l’uno all’altro, e che nella casa della madre comune, Maria, non esistevano discriminazioni di sorta. L’essere laico o prete, donna o uomo, ricco o povero, vergine o sposato, nero o bianco, non erano che delle chances che individualmente avevamo per farne dono, e arricchirci ognuno dell’infinita varietà e bellezza dei doni di Cristo. Lì si era chiesa, comunione divina vissuta in terra, testamento di Gesù realizzato in una porzione di umanità.

Illuminante, a questo proposito, l’augurio rivolto dal Papa a un gruppo di vescovi amici del Movimento, indicando quale chiesa lui si aspetta all’inizio del terzo millennio: «Vi auguro – ha detto – di essere sempre più ispirati e penetrati da questa spiritualità (del Movimento) e da un profondo amore a Maria, per essere costruttori di quella città di Maria (Mariapoli) che vuole essere e deve essere la chiesa, per portare come Maria e con Maria la luce di Gesù Cristo nel mondo di oggi» (O.R. 19 febbraio ’87).

 

Silvano Cola

 

 

 

 

 

 

 

1)  In Gen’s, n. 3/4 (1991) pp. 100-105; n. 4/5 (1993) pp. 114-120. In ambedue i numeri si troveranno numerose indicazioni sul dialogo fra cristiani e non credenti.