Parlare di Dio oggi

In questo nostro tempo il discorso su Dio sta imboccando forse la strada giusta, grazie anche al vistoso fallimento di un umanesimo chiuso alla trascendenza (basta, per convincersene, uno sguardo planetario alla persistente sopraffazione dell’uomo sull’uomo, agli eccidi mostruosi, allo sfruttamento perverso delle persone più indifese), ma grazie anche – direi – a una visione laica della religione che ha denunciato alcuni aspetti non propriamente evangelici sia di una certa  teologia che di una certa religiosità non soltanto popolare. Si è parlato di “pensiero debole” per negare ogni certezza metafisica ed etica, ossia ogni punto di riferimento cui ci si appigliava con la pacifica sicurezza di poter raggiungere, seguendo quelle dottrine, una pienezza di umanità in questa vita e l’immortalità beatifica nell’altra.

Esiste ancora, evidentemente, una moltitudine di persone non sfiorate da questi drammi ideologici, capaci di discernere nelle circostanze della vita il bene e il male e capaci di perseguire il bene malgrado i sacrifici che spesso ciò comporta. Ma è più generale il discorso che facciamo. C’è un’altra moltitudine di persone che, pur discernendo il bene dal male, pur affermando l’esistenza di valori individuali e universali con la buona volontà di seguirli, si professano non-credenti in Dio. Ma quale Dio?

Ogni cambiamento epocale deve giocoforza affrontare un certo grado di destrutturazione delle vecchie credenze per poter cominciare a ristrutturare l’uomo e il mondo secondo la nuova coscienza che è venuta maturando anche dalla constatazione dell’involuzione regressiva delle idee e della socialità. Quando il “Dio degli eserciti” ha permesso Auschwitz (presa spesso come fatto emblematico dell’impotenza di Dio) è impallidita la figura del Dio trionfalistico e paternalistico, e la figura stessa di Cristo re dell’universo. Si è cominciato a riconsiderare il Dio di Gesù Cristo proclamato da san Paolo (“Non conosco che Cristo, e questi crocifisso”) come il punto focale di interpretazione non solo di Dio, ma dell’uomo e della storia. La kenosi di Dio che si fa uomo (che è stata definita “l’unica vera rivoluzione della storia”) non poteva non essere considerata normativa per la vita del cristiano e successivamente per ogni rapporto umano e sociale, proprio perché svelava in qualche modo lo stesso mistero della vita intra-trinitaria, e di conseguenza tocca il mistero dell’essere e della vita. Così che dopo i primi coraggiosi accenni di un Origene sulla sim-patia di Dio con le sofferenze del Figlio-Uomo e degli uomini, dopo la svolta operata da Lutero con la sua theologia crucis, ogni risposta su Dio non può prescindere dalla figura di Cristo crocifisso che ha sperimentato il silenzio e l’abbandono del suo Abbà, il Padre, riaffermando tuttavia il proprio esere-in-relazione trinitaria con Lui. Ma è in questi ultimi decenni che la kenosi ha costituito la chiave di volta per lo sviluppo teologico e, insieme, per una più chiarificante teologia della storia. Proprio recentemente, il padre gesuita P. Lamarche, membro del comitato direttivo del grande Dictionnaire de Spiritualité, giunto ormai alla conclusione dell’opera, iniziata nel 1932, nella presentazione del XVII e ultimo volume ha potuto scrivere che «al momento della redazione degli articoli inizianti con la lettera K, era ancora difficile immaginare uno studio consistente sulla kenosi di Cristo e sulla kenosi di Dio, mentre oggi sarebbe indispensabile».

Sia in campo protestante che in quello cattolico il ritorno al fatto fondante dell’Incarnazione di Dio (senza la quale non si dà per l’uomo – se rifiuta di amare il prossimo come se stesso come ha fatto Dio nei confronti dell’uomo – né redenzione né, come conseguenza, possibilità di diventare persona  analogamente alle tre divine Persone che sono Tre in Uno) e del mistero pasquale della morte e risurrezione (che tocca la dinamica stessa della vita e della maturazione umana), è stato oggetto di profonde indagini teologiche. Si è dovuto riaffrontare il secolare problema del “nulla” o del “non essere” o in generale del negativo come componente essenziale dell’essere. Ma ciò che impressiona è la confluenza sul medesimo argomento del pensiero di Autori disparati quali Kitamori, Moltmann, Tillich, Rahner, Lévy, Balthasar...fino ai contemporanei B. Forte, G. Zanghì e P. Coda.

A mo’ d’esempio cito Tillich che nella sua opera The courage to be del 1962 scrive che «il non-essere appartiene all’essere; che l’essere non potrebbe essere il fondamento della vita senza il non-essere, (al punto che) l’autoaffermazione dell’essere senza il non-essere non sarebbe nemmeno autoaffermazione, ma un’immobile identità. Niente sarebbe manifesto, niente espresso, niente rivelato (...). Il non-essere schiude il divino isolamento e rivela Dio come potere e amore. Il non-essere fa di Dio un Dio vivente. Senza il “no” che Egli deve superare in se stesso e nella sua creatura, il divino “sì” a se stesso (e alle sue creature) sarebbe senza vita. Non ci sarebbe rivelazione del fondamento dell’essere, non ci sarebbe vita (...). È l’autoaffermazione divina che ha il potere di rendere possibile l’autoaffermazione dell’essere finito (...) nonostante il non-essere». E conclude che una simile affermazione può farla «solo la Chiesa sotto la Croce, la Chiesa che predica il Crocifisso che invocava Dio che rimaneva il suo Dio anche dopo che il Dio della fiducia lo aveva abbandonato nelle tenebre del dubbio e della mancanza di significato».

Più o meno la stessa cosa hanno affermato B.- H. Lévy e Sergio Quinzio, conosciuto come “profeta laico”. Tutti tenacemente protesi a dare una speranza alla disperazione degli uomini perché il Dio Crocifisso ha vinto la disperazione e la morte risorgendo glorioso. Ma devo confessare che la risposta più illuminante l’ho trovata negli scritti di Chiara Lubich che fin dal 1949 scriveva:

«Perché avessimo la Luce, Ti venne meno la vista.

Perché avessimo l’unione, provasti la separazione dal Padre.     

Perché possedessimo la sapienza, Ti facesti “ignoranza”.

Perché ci rivestissimo dell’innocenza, Ti facesti “peccato”.

Perché sperassimo, sentisti la disperazione.

Perché Dio fosse in noi, Lo provasti lontano da Te».

E ancora: «Vorrei testimoniare al mondo che Gesù Abbandonato ha riempito ogni vuoto, ha illuminato ogni tenebra, ha accompagnato ogni solitudine, ha annullato ogni dolore, ha cancellato ogni peccato».

E tutto per un semplice motivo: perché “Dio è Amore”.

Non sono affermazioni spiritualistiche, ma teologia ed esperienza. Molto di più si capirà da alcuni articoli di questo numero.

S. C.