Dialogo con i lettori

«C

i sembra che nella teologia della chiesa locale ci siano gli elementi sufficienti per alimentare la spiritualità dei sacerdoti diocesani. Perché allora andare a cercarne un’altra, ad esempio, in un movimento ecclesiale? Dobbiamo riconoscere che sia in seminario che nell’esperienza pastorale fatta finora, spesso abbiamo ricevuto di più proprio dai sacerdoti che appartengono ai movimenti. Ma perché dev’essere cosi? Noi vorremmo trovare nella diocesi ciò di cui abbiamo bisogno, senza doverlo cercare altrove...».

(un gruppo di diaconi vicini all’ordinazione presbiterale)

 

Spiritualità diocesana
e movimenti ecclesiali

Da un punto di vista ancor più ampio ci si potrebbe domandare: «A cosa servono le spiritualità e i carismi, se nel vangelo c’è già tutto?». C’è già tutto, ma non tutto è pienamente compreso in ogni tempo, perché la storia pone sempre nuovi interrogativi e presenta nuove esigenze. C’è già tutto, ma non tutti riescono a viverlo con radicalità e coerenza. I carismi e le spiritualità sorgono lungo i secoli come doni dello Spirito alla sua chiesa, appunto per rispondere a questa doppia necessità: produrre un nuovo approfondimento e comprensione del vangelo e rinvigorire la vita cristiana in modo da rispondere adeguatamente ai segni dei tempi.

Prendiamo il campo specifico della famiglia. Nella Scrittura c’è tutto ciò di cui hanno bisogno gli sposi, i genitori, i figli, i giovani e gli anziani, per vivere la propria vocazione. Ma chi può negare la felicità, la pienezza evangelica e, conseguentemente, l’impegno sociale che tantissime famiglie hanno trovato oggigiorno nelle varie spiritualità? Senza di queste avrebbero mai raggiunto tale pienezza e sarebbero state capaci di irradiare tanta vita?

Se si pensa poi ai numerosissimi carismi esistenti da tempo, che hanno dato tanti frutti per la chiesa e per la società e dai quali sono nate le più svariate famiglie religiose: che bisogno hanno i loro membri di andare ad attingere ad un’altra fonte, quando hanno già una propria spiritualità? Eppure anche i grandi carismi sorti nel passato o nei nostri giorni, presi ognuno singolarmente, non riescono a rispondere adeguatamente a tutte le esigenze dei nostri tempi, mentre possono arricchirsi nel confronto con gli altri. E poi, nella comunione ecclesiale, ognuno può essere aiutato ad attuare il proprio carisma dalla luce e dalla testimonianza che trova in chi segue un altro carisma.

Tantissime volte, infatti, abbiamo ascoltato da religiosi e religiose, legati al Movimento dei focolari, testimonianze di questo genere: «A contatto con la spiritualità dell’unità ho riscoperto in modo nuovo il mio fondatore, la mia fondatrice, il carisma della nostra congregazione...».

Qualcosa di simile succede con i preti diocesani. Certamente nella chiesa locale c’è tutto, cioè tutti i mezzi necessari per vivere adeguatamente il vangelo. Si potrebbe anche affermare che esistono elementi per una solida «spiritualità diocesana»: la carità pastorale, la comunione nel presbiterio e con il proprio vescovo, una corretta visione della chiesa come popolo di Dio che dia il corrispondente protagonismo ai laici, il ministero concepito - attraverso la Parola e l’Eucaristia - come servizio all’unità, l’opzione preferenziale per i poveri e per gli ultimi come tipica esigenza evangelica, e così via. Ma una cosa è affermare queste realtà, un’altra avere la sapienza per interpretarle e la capacità per incarnarle.

Un gruppo di sacerdoti di una diocesi, a proposito dell’influsso che il carisma dell’unità aveva nella loro vita, scrivevano al loro vescovo: «L’incontro con questa spiritualità (dell’unità) non ha aggiunto nulla a quanto già possedevamo in forza del nostro battesimo e del dono inestimabile del sacerdozio; ha però tutto ravvivato, facendoci cogliere in particolare che il sacerdozio ministeriale non è tanto un privilegio, ma un servizio al sacerdozio regale dei fedeli, e che per esplicare tale servizio occorre che anche noi ministri viviamo innanzitutto le esigenze del battesimo...

Per conservare e rendere sempre più vivo questo dono, rinnoviamo quotidianamente la scelta di Dio, vivendo tra noi una totale comunione; così le gioie, le difficoltà, le intuizioni riguardanti sia la propria vita personale sia il ministero, vengono comunicate e condivise. Tutto ciò ci fa scoprire la bellezza e la fecondità di una spiritualità collettiva e la dimensione mariana del nostro sacerdozio».

Bisogna dire che il senso di queste risposte si coglie attraverso la vita. La più stringente logica di argomentazioni teoriche non basta. A chi non ha visto in una spiritualità o in un carisma una vita che l’attrae, gli possono sorgere mille obiezioni, ma per chi in una spiritualità o carisma ha trovato una vita evangelica che l’aiuta a essere più pienamente se stesso nel posto dove si sente chiamato, queste obiezioni cadono da sé.

Un prete, ricordando quanto gli era successo a questo riguardo, scriveva: «Nel momento in cui mi si manifestava quella luce che faceva brillare quanto già c’era in me, potevo dire di no? La luce che entra in una stanza non aggiunge nulla a quanto già c’è; rende però tutto più vivo». E poiché la spiritualità, che egli aveva trovato, era quella del Movimento dei focolari, aggiungeva: «Per me non fa nessun problema essere, allo stesso tempo, focolarino e prete diocesano. Come focolarino non ho nessun progetto pastorale da attuare, ma uno stile di vita da vivere, che è poi la vita del vangelo vista dalla prospettiva dell’unità. Fare mia la pastorale del vescovo è evidente per me. Certo, il mio essere focolarino influisce, ma non sul contenuto della pastorale, bensì sul modo di farla, vivificando le direttive ed i progetti con la linfa di una vita evangelica, ed inoltre non permettendomi di fare una pastorale individualista, ma spingendomi decisamente a muovermi in comunione con agli altri, come d’altronde vuole oggi la chiesa».

 

a cura della redazione