Solo nella comunione il celibato acquista il suo pieno significato: dà la possibilità di rivivere l’esperienza degli apostoli con Gesù

 

Ho vissuto così la mia avventura

di Ciro Neppe

 

 

Un’esperienza di celibato vissuta con serenità anche in ambienti difficili. Il segreto? La comunione fraterna cercata e vissuta nel quotidiano con sacerdoti e laici nell’impegno comune di costruire la comunità cristiana.

E

ro in campagna con mio fratello, avevamo 7 e 9 anni, parlavamo di quanti figli avremmo voluto avere da grandi e ci siamo messi d’accordo sul numero cinque, forse perché in casa allora eravamo ancora in cinque. Visto che la prima cosa da fare appena cresciuti sarebbe stata quella di trovarsi una sposa, decidemmo che io, più grandicello, potevo già scrivere una letterina d’amore ad una compagna di scuola che ci sembrava la più carina. Lo facemmo insieme, perché tra noi non c’erano segreti ed anche perché mio fratello doveva poi fungere da postino. L’ultimo giorno di scuola egli consegnò maldestramente la missiva, subito intercettata dall’occhio vigile della maestra.

Una letterina senza risposta

In breve tempo tutto il paesino ne conosceva il contenuto. Mi sarei seppellito vivo ed avevo una gran paura per la reazione dei miei genitori. Per fortuna, quando tornai a casa, mia madre mi disse sorridendo: «È una bella letterina!»; e mio padre aggiunse: «Hai scelto bene. Adesso devi vedere cosa lei ti risponderà». Fu un gran sollievo e mi resi conto che in fondo avevamo fatto un solo sbaglio, quello di farci scoprire... Ovviamente in quelle condizioni l’amata, anche se avesse voluto, non avrebbe potuto rispondere.

A dodici anni, però, accettai l’invito del parroco di andare in seminario, sognando di trovarvi un piccolo paradiso. Appresi da alcuni adulti che da prete non avrei potuto sposarmi. Per loro la cosa sembrava molto importante; a me in quel momento non interessava un bel nulla.

In seminario non trovai l’eden che mi aspettavo, ma tante cose buone, soprattutto sacerdoti in gamba che ci volevano bene. Studiavo con gusto e pregavo come tutti. Il tempo passava rapidamente e mi trovai in filosofia al seminario maggiore. Se mi avessero voluto ordinare, avrei detto subito di sì: tanto ero sicuro della mia vocazione.

Come son belle le ragazze!

Ma durante le vacanze di quell’anno feci una scoperta. La mia famiglia e quella della fanciulla delle elementari erano molto unite e noi ragazzi e ragazze giocavamo volentieri insieme. Non ero più un bambino, avevo i miei 17 anni. Un bel giorno la ragazza pensò fosse arrivata l’ora di rispondere alla mia lettera e lo fece con molto tatto. Mentre eravamo soli a casa sua, mi chiese se potevo studiare medicina invece che teologia ed io risposi che l’avrei fatto volentieri, dopo aver terminato gli studi teologici, per poi partire missionario in Africa. Lei allora parlò più chiaro: «Io non voglio interferire sulla tua vocazione, ma se un giorno tu dovessi cambiare idea, io sarei ben lieta di sposarti». Le risposi che ciò non sarebbe stato possibile, perché io ero molto contento del mio cammino. Poi però perdetti la pace. Era una bella fanciulla, ma fino a quel momento quasi non me n’ero accorto; ora mi sembrava ogni giorno più bella.

Finite le vacanze, tornai in seminario. Dentro di me era accaduto qualcosa, perché quella figura mi tornava continuamente nella memoria ed ogni volta il cuore aveva un sussulto. Ne parlai naturalmente col direttore spirituale, ma neanche lui poteva farci nulla. Passò un anno in questa altalena, che mise in forse la mia vocazione.

Tornarono di nuovo le vacanze. Ma furono un po’ diverse. Mi resi conto che al mondo di ragazze ce n’erano tante ed anche di più belle. Dissi a mio padre del mio tormento e della possibilità di lasciare il seminario. Egli mi rispose che qualsiasi scelta era buona, se fatta con calma e nella volontà di Dio. Avrei avuto sempre il suo appoggio.

Quella bilancia...

La sua risposta pacata e sapiente mi fece un gran bene. Ora il mio cuore era più libero e vedevo i miei genitori come persone realizzate, felici con ben nove figli. La famiglia mi apparve stupenda e nello stesso tempo capii, non saprei dire come, tutta la grandezza della chiamata alla verginità. Fu come se Gesù mi dicesse: «Vedi come è bella la famiglia? Ma a te offro una cosa ancora più grande: vieni e seguimi».

Quella sera, andando a dormire, nella mia fantasia immaginai una bilancia - forse perché figlio di commercianti - e su di un piatto misi la possibile scelta di una sposa. La volevo bella, perché se non fosse tale perdeva ogni attrattiva, ma anche intelligente, perché altrimenti non ci sarebbe stato dialogo, e infine anche santa, perché capivo che bellezza e scienza senza virtù sarebbero per lo meno insufficienti. Pur sapendo che trovare tutto questo in una donna era un’utopia, moltiplicai al massimo queste qualità e misi tutto sul primo piatto della bilancia. Sull’altro piatto misi invece l’esperienza che Gesù mi invitava a fare seguendo lui in quello stile di vita che - a suo dire - «non tutti possono capire». La mia vita avrebbe potuto rassomigliare un po’ all’umanità stessa di Gesù: tutta del Verbo e perfettamente realizzata. Il secondo piatto ebbe un peso incalcolabile e mandò per aria il primo che, senza perdere la sua bellezza, per me perse ogni attrattiva.

Feci il corso teologico con una grande serenità e quando mi ritrovai in cattedrale steso a terra al canto delle litanie, prima di ricevere il suddiaconato, mi sembrò ridicolo aver firmato l’impegno di osservare il celibato, perché non si trattava di un impegno davanti ad un Codice di diritto canonico, ma della mia totale donazione a Dio. E spontaneamente feci voto di castità per sempre.

Una crisi inattesa

Arrivai a 29 anni e, contro ogni aspettativa, una nube oscura mi avvolse. Il cristianesimo mi sembrava una grande menzogna lungo la storia, la verginità di Maria una favola, la vita dei santi un’invenzione per far soldi. Non si trattava di una crisi sentimentale, era qualcosa di più profondo che mi faceva anche tanta paura: potevo perdere la fede.

Ero parroco in un paesino di montagna, dove gli abitanti erano cristiani sul serio e non potevo far trapelare questa mia situazione. Decisi di fare un serio corso di esercizi spirituali vicino a Loreto. Prima di rinchiudermi nella settimana di silenzio, feci visita al santuario e nella cosiddetta casetta di Nazaret feci questa preghiera a Maria: «Se tu sei quella che mi hanno detto in famiglia e in seminario, dammi la luce ed io in cambio ti do la mia vita; se invece sei una donna comune, trasformata poi dal mito, io in questi giorni cambierò strada». Ed entrai nel grande silenzio.

Una mattina nella messa, mentre pregavo il Padre nostro, rividi come in uno specchio tutta la mia vita fino a quel momento e la potevo riassumere in queste parole di Gesù: «Senza di me non potete far nulla». Capii che questo era il mio essere. Fu una luce, si ripetette altre due o tre volte in quei giorni. Per il resto nulla mi interessava delle prediche del ritiro: erano parole tante volte sentite, vecchie e senza gusto.

Tornato a casa mi resi conto che non spendevo bene il mio tempo: di giorno lavoravo senza sosta e di notte divoravo libri, mentre fermarmi a fare mezz’ora di meditazione mattutina era per me un martirio. Dovevo dialogare di più con Dio, ma non ci riuscivo.

Passai ancora qualche anno in una continua ricerca e mi presentai un giorno all’eremo di Camaldoli. Volevo farmi eremita per trovare Dio, ma il priore mi disse di tornare a fare il parroco. Studiai allora con interesse la spiritualità francescana e ne rimasi incantato. Che pena, però, che san Francesco fosse scomparso da secoli! Come tradurre il suo carisma nell’oggi? Non manderà Dio un’altra persona del suo calibro?

Un giorno mi trovai ad ascoltare, contro voglia, Chiara Lubich che parlava ad un gruppo di preti sulla «via Mariae»: il cammino che i focolarini cercano di percorrere verso la santità. Mi resi conto che una persona non poteva parlare così delle cose di Dio, se non ne avesse diretta esperienza e capii che Dio mi offriva la possibilità di vivere anch’io quella vita. Era dono suo e a me veniva chiesto solo di dire liberamente il mio sì o di rifiutarmi. E fu l’inizio di una nuova vita, non più vissuta da solo, ma in unità con altri sacerdoti e dentro tutta la realtà del popolo di Dio che trovavo così ben rappresentato nel Movimento dei focolari. Furono due anni di novità in tutti i sensi.

Nel triangolo della fame

Poi, accettando l’invito della chiesa, mi ritrovai responsabile di una parrocchia di 30.000 abitanti, sparsi in 80 paeselli nel nord-est del Brasile, in una regione chiamata «triangolo della fame».

In quel periodo - era il 1965 - la situazione in quella regione era così difficile che me ne capitavano di tutti i colori. Nei primi mesi, per esempio, era un via vai di ragazze che venivano a salutarmi. Più tardi seppi che era normale per loro cercare qualcuno che pagasse i loro studi o procurasse del cibo alla loro famiglia in cambio del proprio corpo. Nella tradizione del luogo ogni persona «da bene», cioè con qualche disponibilità di denaro, godeva del diritto di avere una giovane a disposizione. L’ambiente era tale che questo sembrava normale anche per il prete: in fondo chi fin dal mattino si dedica totalmente agli altri, ha diritto a sera di trovarsi a casa una gradevole compagnia.

In una pagina del mio diario di quegli anni trovo questa annotazione: «Quel giorno alle dieci del mattino nell’ufficio parrocchiale è entrata una giovane, mi ha salutato e poi canterellando si è messa ad andare su e giù per la stanza quasi fosse su una panchina di sfilata di moda. Il fatto mi è sembrato un po’ strano. Le ho chiesto di sedersi e alla mia domanda se desiderasse qualcosa, ha risposto: ‘Ma, padre, lei non capisce?’. Non avevo capito davvero e pensavo che lei avesse tempo da perdere. Le ho suggerito di andare in cucina a fare un po’ di compagnia alla signora Maria. Maria è una india che tiene la casa parrocchiale e mi fa da mangiare. È di una semplicità cristallina. La ragazza è andata in cucina e, fra l’altro, le ha detto: ‘Ma il padre non capisce che io sono fuoco!... Come devo manifestarglielo?’. Deve aver ricevuto una risposta un po’ dura, perché dopo un breve tempo l’ho vista uscire in tutta fretta».

Ma c’era sotto i miei occhi un’altra situazione ancor più dolorosa: la miseria! Un giorno ho visto morire sulla porta di casa un padre di famiglia che veniva a chiedere aiuto per dar da mangiare ai figli. Un’altra volta hanno portato una mamma che ritenevano indemoniata: dopo aver dato a lei e agli uomini che l’accompagnavano un buon pasto, il demonio della fame è sparito. Non era raro che dei genitori si impiccassero dopo aver distribuito ai figli l’ultimo miserevole pasto; ed altri ancora, spinti dalla disperazione, sparivano senza lasciar traccia di sé, abbandonando i figli sulla strada. O una giovane madre che chiede di tenerle in braccio un momento il figlioletto e poi sparisce. Una notte, rientrando a casa, sentii il pianto di un piccolino avvolto nel giornale: qualcuno l’aveva depositato sulla porta di casa, perché sapeva che l’avrei affidato a mani sicure.

Vedevo una situazione sociale inimmaginabile per un europeo: sfruttamento disumano anche dei piccoli, analfabetismo, mancanza di adeguate strutture sanitarie, malattie veneree diffusissime, alta percentuale di bambini nati con malformazioni, alta mortalità infantile, quasi nessuna sicurezza sociale. Un giorno, parlando con un giovane trattorista, ho saputo che conviveva con una donna ed aveva quattro bambini. Una giovane famiglia che, in realtà, non esisteva per lo Stato, perché né i genitori, né i figli erano registrati all’anagrafe. Gli feci capire che, se lui fosse perito in un incidente sul lavoro, i suoi figli e la sua donna non avrebbero avuto di che vivere. Sarebbe bene regolarizzare la loro posizione, registrandosi al municipio, unendosi in legittimo matrimonio ed esigendo quanto dovuto per legge dal suo datore di lavoro. Mi ascoltava stupito e alla fine mi chiese: «Ma io ho forse questi diritti?». Rivendicarli, d’altronde, voleva dire essere cacciato dal lavoro e morire di fame.

Cosa fa un povero prete in simili ambienti? Non può che farsi carico di tanti dolori e spesso o reagisce con la tentazione della violenza per cambiare la situazione, o si sente soccombere sotto il peso della disperazione. L’ho sperimentato sulla mia pelle. In quei momenti allacciare un’amicizia con una ragazza, che magari condivide appieno la tua preoccupazione per i poveri, è molto facile e mancare al celibato ti sembra una bazzecola, quando hai davanti agli occhi enormi peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio. In questi frangenti conservare il pieno dominio della propria sessualità è un’impresa molto difficile.

A volte mi sono domandato: «Riuscirò qui a vivere da cristiano?». Fortuna mia che a 90 km avevo la possibilità di trovarmi settimanalmente con un gruppetto di sacerdoti con cui condividevo ogni cosa.  Quando ho descritto la mia situazione, ho detto che la domenica anteriore mi ero svegliato sotto un’impressione fortissima: «Ecco io qui posso perdere tutto: prima la morale, poi il sacerdozio, poi anche la fede. L’ambiente è così pesante che potrà sopraffarmi». Ed avevo trascorso tutta la giornata sotto una luce che mi mostrava questa realtà senza però turbarmi, senza togliermi la pace interiore. Ma vedevo chiaro che io ero nulla e se fossi riuscito ad essere fedele, lo sarei stato solo per grazia di Dio. I miei colleghi devono essersi un po’ impressionati, perché a sera due di loro hanno voluto accompagnarmi a casa in macchina e conoscere meglio l’ambiente in cui vivevo. Comunque abbiamo fatto fra noi un patto: dirci sempre tutto.

Ho capito in quei giorni come sono vere quelle parole che avevo imparato da piccolo: ‘chi commette un peccato mortale uccide di nuovo Gesù’. Fino a quel momento mi sembravano belle parole, come quelle che si dicono per spaventare i piccoli. Invece ora vedevo che sono proprio vere e mi son detto: «Se mi lasciassi influenzare dall’ambiente, se tradissi la mia vocazione, quando il lunedì esco da questa parrocchia e vado a trovare i miei colleghi sacerdoti, ecco in mezzo a noi non ci sarebbe più quella presenza di Gesù tante volte sperimentata tra noi». Ed ho capito come il peccato distrugge la comunità, distruggendo la presenza di Dio in mezzo ad essa.

La verginità può fiorire ovunque

Ma, ad onore del vero, devo dire che nel nord-est del Brasile non ho incontrato solo miseria materiale e morale. Ho trovato pure uomini e donne che sapevano vivere in pienezza il vangelo; famiglie esemplari che mi incantavano col loro candore; e soprattutto giovani di ambo i sessi che sceglievano la verginità in maniera impensata, anche se a volte provenivano da famiglie disgregate. Più di una volta ho dovuto toccare con mano che Dio suscita figli di Abramo anche dalle pietre.

Un giorno stavo confessando in uno degli 80 paesini della parrocchia ed avevo una grossa preoccupazione, non riuscendo a trovare una catechista che potesse curare i ragazzi e i giovani. Venne a confessarsi una giovane maestra e mi disse: «Io sono una consacrata, ma secondo la nostra regola lo possiamo dire solo al confessore, dovendo vivere nascoste in mezzo al mondo. Sono stata trasferita in questo paesino e sono a disposizione della comunità». In quel posto era una manna caduta dal cielo!

Notavo anche con grande sorpresa che le giovani e le donne che cercavano di vivere la spiritualità dell’unità, cambiavano vita e diventavano in parrocchia una vera presenza di Maria. Ricordo un’infermiera che visitava tutte le mamme che aspettavano un figlio per istruirle e prepararle: lo faceva con un tale amore che le mamme quasi la veneravano.

Che dire poi delle focolarine che incontravo per motivi di ministero? Erano brasiliane, italiane e di altre nazionalità, ma sapevano avvicinare anche le persone più umili, come quelle dei mocambos, risvegliando in loro la dignità umana. Andavo anch’io da questa gente e, dopo che vi erano passate le focolarine, trovavo un altro ambiente e mi dicevo: «Dove passano queste donne fiorisce anche il deserto».

Forse è stato questo contatto con loro che ad un certo punto mi ha fatto fare un passo in avanti.

Una scoperta interessante

È proprio vero che quando sei nella tentazione, Dio non ti fa mai mancare l’aiuto necessario. Guidavo la macchina nella città di Recife per trovarmi con gli altri sacerdoti e quel giorno non sapevo dove mettere gli occhi, perché ovunque si metteva in mostra la nudità più sfacciata. Ma ecco una luce: «Tutte le volte che vedo un quadro o una statua della Madonna penso subito a Maria, forse perché cosi sono stato educato fin da piccolo. Ma quando vedo una donna, una ragazza, se la guardo con gli occhi di Dio, cosa vedo? Un’immagine, non scolpita nella pietra o dipinta su tela, ma un’immagine in carne e ossa di Maria, scolpita dallo stesso Creatore. Anche quando un’immagine non è artisticamente bella, vado al di là e penso a Maria. Anche quando una donna non si presenta secondo il suo dover essere, io devo andare al di là delle apparenze e vedere Maria». Fu una luce molto forte per me, forse perché vedevo tante donne e tante ragazze distrutte dalla cattiveria umana.

Naturalmente ho condiviso tutto con gli altri e la luce si confermava e diventava di tutti.

In quel periodo ho potuto apprezzare il dono della vita d’unità che cercavo di vivere insieme ad altri sacerdoti del Movimento dei focolari. Non avevo ancora la possibilità di una vita comune, anche perché le distanze tra noi erano enormi, ma abbiamo avuto la costanza ogni settimana di essere fedeli a quel giorno per stare insieme. Poter riposare fuori della parrocchia, mettere in comune gioie e dolori, essere capiti e cercare di capire gli altri, conoscere quanto avveniva nel Movimento dei focolari a livello mondiale, convivere con laici, vergini e sposati, impegnati nel regno di Dio e immersi in mezzo al mondo, tutto questo ci faceva respirare un clima di chiesa viva e universale. Era un’es-perienza preziosa.

Ho constatato che solo nella comunione il celibato acquista il suo pieno significato, perché ti rende simile agli apostoli, dei quali mai si dice nel vangelo che, quando erano con Gesù, sentissero nostalgia delle loro mogli. E chi la moglie non l’aveva, come Giovanni, non pensò di sposarsi.

La serenità con cui riuscivamo a vivere il celibato ci permetteva di aiutare gli altri. In quel tempo, tra il 1965 e il 1975 la crisi del clero ha avuto in Brasile i suoi momenti più critici. Tanti hanno abbandonato il ministero. Noi stessi abbiamo consigliato alcuni di sposarsi; altri, già sposati, li abbiamo aiutati a regolarizzare la loro posizione o a trovare un rapporto più vero con la loro moglie. C’erano situazioni che non permettevano di tornare indietro.

Non pochi di questi ci hanno detto che, se avessero avuto prima la possibilità di uno stile di vita più comunionale nel presbiterio diocesano, non avrebbero abbandonato il ministero.

Ma tanti sacerdoti, soprattutto tra i giovani, scoprendo la possibilità di una vita di comunione fra il clero offerta concretamente dai vari gruppi che si costituivano e che noi seguivamo con cura, hanno sperimentato la gioia di una vocazione vissuta nella donazione totale a Dio. Il celibato non più visto come una legge imposta dall’alto, ma come speciale chiamata ad essere discepolo fino in fondo, a seguire Cristo anche là dove solo pochi sono i chiamati.

E dopo tanti anni vissuti in questa donazione cosa ti rimane? Una gioia immensa! Sei passato in mezzo al mondo, hai asciugato tante lacrime, hai incontrato tante persone e in ognuna hai visto fiorire un disegno di Dio. Forse qualche pennelata gliel’hai data anche tu.

 

 

Ciro Neppe