Intervista a Michel Pochet

 

Verginità e bellezza

a cura di Enrique Cambón

 

L’intervistato è noto a molti dei nostri lettori, tra l’altro per le sue opere1, che chiariscono e sviluppano diversi dei temi qui menzionati ovviamente in modo succinto.

«Avevo trovato la mia famiglia»

GEN’S: Come è nata la tua chiamata ad una donazione totale a Dio?

Era il 1959, avevo 18 anni ed ero a Parigi per cominciare a studiare architettura nella Scuola delle Belle Arti. Qualcuno raccontava ad un’altra persona di un incontro estivo chiamato Mariapoli a cui aveva partecipato, ed io ho sentito per caso la conversazione. Parlava di giovani che vivevano il vangelo in modo molto semplice, fresco, alla lettera, poveramente, con gioia. Poi diceva che l’idea dell’unità era la cosa centrale per loro, e che credevano profondamente in quella parola evangelica «dove due o tre...» (Mt 18, 20).

Provenivo da una famiglia cristiana, e già da molto giovane avevo avuto una certa inclinazione al sacerdozio. Negli ultimi anni avevo tanti dubbi, ma ero alla ricerca. Quando ho ascoltato quella conversazione, ho sentito molto forte dentro come se qualcuno mi dicesse: «Sta attento, perché magari è quello che stai cercando».

Quando qualche mese dopo mi hanno invitato al primo incontro del Movimento dei focolari a Parigi, anche se era un mondo nel quale spontaneamente non mi sarei mai avventurato, sono andato perché avevo sempre dentro quella impressione.

Con questo spirito sono andato, ancora nel 1959, alla Mariapoli in Italia, a Fiera di Primiero, perché volevo approfondire, capire se era quello che cercavo o no. E lì è diventata una convinzione che quello era il mio posto, che avevo trovato la mia famiglia. Non perché mi piacesse in modo particolare, ma perché avvertivo che era qualcosa che Dio aveva predisposto per me. Per cui sentivo che in un  certo senso non avevo scelta; la mia comodità avrebbe preferito di avere scelta, ma era una specie di evidenza.

Quando ho finito la Mariapoli, uno dei primi che avevano seguito Chiara Lubich, mi ha detto: «Adesso tornando a Parigi, ricordati che sei responsabile di quello che hai trovato qui, per il tuo popolo». Da parte sua poteva sembrare una cosa molto semplice. Invece io l’ho recepito come una vocazione. Se posso parlare di una vocazione, la mia è nata in quel momento. Ho sentito una grande paura, ma d’altro canto mi sembrava vero che avevo una grande responsabilità.



1.   MICHEL POCHET, Bel-Amour - Esperienza interiore di un artista; Dio esiste per fortuna; Sessualità in positivo - Per un dialogo sull’amore umano, tutte edite nella loro versione italiana dall’Ed. Città Nuova di Roma.

Etica ed estetica: contrapposte?

GEN’S: Tu sei un artista. Questa dimensione era già profondamente presente allora nella tua vita. Quale rapporto ha avuto con la tua vocazione?

Appena finita la Mariapoli ho scritto a Chiara Lubich, dicendole che da piccolo avevo sentito come una doppia vocazione, quella artistica e quella di consacrazione a Dio. Però erano due cose che vedevo come divise.

Non riuscivo a concepire come potevano stare insieme, perché fra la chiesa ed il mondo degli artisti sembrava esserci una incompatibilità, una grande distanza. Infatti c’era una spaccatura fra la chiesa ed il mondo dell’arte. Le cose religiose in genere mi apparivano brutte e le cose belle non appartenevano al mondo religioso...

Sembrava impossibile allora immaginare qualcuno che fosse allo stesso tempo santo e artista, perché si pensava che la grande sensibilità, i sensi molto in allerta, la sensualità degli artisti che ne derivava, fosse incompatibile con una vita di consacrazione, di castità, ecc. Gli artisti non erano persone «affidabili». L’etica e l’estetica per molti apparivano incompatibili.

Mentre in Mariapoli avevo trovato l’unità fra queste cose. Curiosamente, anche se queste parole non sono state dette materialmente, e quindi non so come le ho capite, ho colto che potevo «vivere Maria». E in questa possibilità trovavo la sintesi delle mie aspirazioni.

Da una parte Maria come madre del Bell’Amore, della bellezza di Dio incarnata, e d’altra parte come l’unica che può dire veramente «questo è il mio corpo», perché nell’eucaristia c’è quel corpo che lei ha dato, che è venuto da lei.

Perciò trovavo in Maria il modello per me, incontravo in lei la sintesi - che per anni mi sembrava impossibile - del sacerdozio e dell’arte, dell’artista che vive totalmente per Dio.

Arte e verginità

GEN’S: Quale rapporto intuivi fra il tuo essere di artista e la verginità?

Lì ho capito che l’artista ha molto da vedere con la verginità. Perché per seguire Gesù bisogna lasciare tutto, padre, madre, moglie, case, campi, e prendere la propria croce. Chi sente la chiamata a seguirlo in una donazione totale fa questo alla lettera, non solo spiritualmente: dev’essere disposto a lasciare tutto, una famiglia propria, la propria terra, il proprio lavoro, ecc. Soltanto che per gli artisti, quando pospongono anche l’arte per amore a Gesù, credo che non si tratti dei propri campi, del proprio lavoro, ma di qualcosa di più profondo ancora.

Quando pospone l’arte, l’artista pospone la propria persona, il proprio essere per Gesù. Pospone se stesso, non il proprio lavoro, l’attaccamento ad un’attività. Siamo lì ad una profondità tale della persona, che a me sembra comparabile con la sessualità.

Ho scritto tanti anni fa una pagina, una poesia dove dico che la verginità è quella dell’artista che non «produce». L’artista che pospone persino l’arte per Dio, «sacrifica il suo figlio», il figlio della promessa, come Abramo. Infatti l’autentica opera d’arte nasce da una vera e propria ispirazione, che ha a che fare con lo Spirito Santo.

Qui si trova la sua paternità: così come si parla di paternità/maternità spirituale come centuplo della verginità, così c’è un’arte spirituale che sarebbe il centuplo di un’arte alla quale si è rinunciato per seguire Gesù, una creatività paragonabile a quella che chiamiamo paternità/maternità spirituale.

Sessualità come pienezza

GEN’S: Per molti anni, come responsabile del Movimento dei focolari in Belgio, sei stato a contatto con tantissimi giovani. Qual’è la tua esperienza con loro, nei riguardi delle esigenze etiche del vangelo nell’ambito della sessualità?

Io non ho mai preteso nei riguardi dei giovani, anche delle tante coppie con le quali venivo a contatto, di fare il moralista. Cercavo di farmi uno non soltanto con le loro difficoltà, ma anche con le loro gioie, le loro risorse.

Vedo che in questo campo spesso si mette in rilievo ciò che non va. Ma per una cosa che non è andata (e magari rimane un senso di colpa per tutta la vita), ci sono tantissime altre che vanno bene. E raramente si dice che il bene è bene.

Per una volta che c’è stato qualcosa di male, si calca la mano; ma le novecento novantanove volte in cui non c’è stato lo sbaglio, sembra che quello non sia un bene; dal modo di presentarlo spesso sembra solo un «non male».

Per questo ho cercato di mettere sempre in luce il bene, il bello, il positivo. Imparare a capire tutto il bene che c’è. Quando una coppia anziana, proprio anziana, mi ha raccontato che fra loro il rapporto, anche l’amore fisico, era sempre più bello, più puro, più gioioso, mi son detto: «questa è una cosa importante, perché allora si può rassicurare questi giovani che potranno essere sempre più felici se vogliono». Ci sono delle condizioni per questo, ovviamente, ma è possibile essere sempre più felici; non devono pensare che il momento più bello della vita è l’adolescenza, il primo innamoramento...

Questo per dire soltanto un esempio. Io ho visto che i giovani ti capiscono e ti seguono se sono convinti che tu cerchi la loro felicità.

Ho notato anche un’altra cosa: in genere la purezza è concepita come qualcosa che si perde. Sembra che il bambino sia puro, ma se fa certi atti perde la purezza. Mentre a me sembra sempre di più che la purezza si acquista. Il bambino non ce l’ha. Lui sarà innocente, ma finché non è adolescente, finché non passa appunto questo periodo che lo porta ad essere adulto, non conosce ancora la castità, conosce uno stato di bambino, cioè uno stato d’immaturità. La purezza è una realtà adulta verso la quale si cresce. Questo cambia la prospettiva: non è un capitale che si può distruggere, ma è qualcosa che uno non ha e che può, però, creare, che può far nascere.

Sessualità «redenta»

GEN’S: Una delle tue ultime opere si chiama «Sessualità in positivo». Cosa hai voluto dire con ciò?

In realtà quel titolo non mi piace del tutto. Così l’hanno chiamato nella versione italiana, mentre altre traduzioni hanno rispettato l’originale che era «Redenzione del sesso».

Voleva essere un titolo un po’ provocatorio, perché spesso avevo l’impressione che il sesso era come «condannato». Magari per tante ragioni, perché nella società attuale il sesso può essere molto pervertito, banalizzato, strumentalizzato, ecc. Ma in realtà non possiamo condannarlo, perché è una realtà umana, e perciò fa parte di ciò che Dio incarnandosi e morendo ha redento.

Volevo sottolineare che, nonostante tutte le esperienze negative che ci possano essere in questo campo, c’è sempre speranza. La sessualità è una realtà, come le altre realtà umane, redenta, risorta, e quindi chiamata ad essere piena di Dio. Perciò c’è una possibilità di arrivare a sperimentare questa «redenzione» del sesso. Quindi, senza negare tutte le difficoltà, è legittimo offrire una visione positiva. Se c’è la possibilità di peccato, c’è anche la possibilità di redenzione.

Un solo amore, due chiamate

GEN’S: Chiara ha detto più volte che «è la carità che verginizza», tanto per il celibe per il regno di Dio come per lo sposato. Ci si può domandare allora qual’è la differenza di fondo fra vergini e sposati, dal momento che ogni cristiano deve avere una carità piena, a qualunque stato sia chiamato.

Io mi sono fatto una piccola teoria a questo riguardo. L’essere umano, essendo a immagine di Dio, non si accontenta di cose  limitate. Mi sembra che ci sono due dimensioni dell’amore che attirano profondamente, anche in modo inconsapevole, ogni persona. L’amore «assoluto» e l’amore «universale». Dio è capace di un amore assoluto, cioè di amare ogni persona come se fosse l’unica. Ma allo stesso tempo questo lo fa con tutti, fa sentire questo amore totale ad ognuno. Il suo è in senso pieno un amore contemporaneamente assoluto e universale.

Ho l’impressione che l’amore che l’essere umano desidera è a immagine di queste due dimensioni infinite. Da una parte un amore assoluto, la possibilità di amare con tutto il cuore, tutta la mente, tutte le forze, per sempre, fedelmente, un uomo o una donna nel matrimonio; amore che poi si continua, con la stessa profondità e totalità, nei figli. Il fondamento della coppia stabile è l’amore esclusivo, che comprende anche la dimensione genitale, l’intimità del proprio corpo. È un amore «assoluto» nel senso che prende tutto, nei riguardi di una persona.

Però il cuore umano ha in sé anche il desiderio di essere tutte le cose, di prendere dentro tutto, di amare tutti. Non in un modo generico, ma concreto. Non superficialmente, ma fino in fondo, altrimenti non sarebbe un amore veramente universale. Forse è questo il dilemma che sentiva in profondità quel filosofo scozzese che diceva: «Va bene l’amore al prossimo, basta che non siano tanti!».

La persona che sente questa doppia tensione può entrare in una crisi molto grave, perché si rende conto che non è possibile viverle tutte e due contemporaneamente. Chi sente di amare una donna o un uomo in modo unico, fedele, può sempre amare tutti, ma non con tutte le caratteristiche con cui ama quella persona. Gli esseri umani si sentono chiamati preferenzialmente all’una o all’altra strada. La maggioranza delle persone sentono il bisogno di dare e di ricevere quell’amore totale con una persona. Altri invece sentono che, se il loro amore non è universale, non corrisponde a quello per cui sono fatti. Sentono che è lì che si realizza la loro caratteristica.

È una perdita per gli uni e per gli altri, perché vorremmo amare tutti in modo assoluto, ma non è possibile. Ognuno deve capire qual’è la sua chiamata di fronte a queste due possibilità. Se uno sente che è quella dell’amore universale, o si butta a vivere alla don Giovanni (ma quello non è amore, e di lì il vuoto insaziabile ed il dramma che vivono queste persone), o se ha le radici in Dio capirà la chiamata alla verginità, che significa essere votati e liberi per amare tutti. Il vergine è uno che si sente al posto giusto amando tutti, ogni persona, nello stesso modo.

Verginità: scelta incomprensibile?

GEN’S: Eppure nel mondo d’oggi per tante persone la verginità è inconcepibile, sembra una mutilazione, una perdita di umanità. Coscienti che la sessualità genitale è un’esigenza fisiologica, tanti vedono, oltre che inutile, impossibile non esercitarla in modo permanente. Tu hai visto tanti giovani condividere la tua scelta di verginità nel focolare. Potresti raccontarci qualcosa a riguardo, anche se necessariamente in poche battute?

Come ti dicevo, i giovani trovano il senso della castità se sono veramente certi che noi speriamo, desideriamo la loro felicità. Solo se sono in una situazione di gioia, di certezza che si tratta di felicità, allora una vocazione alla verginità - quindi contro corrente nei riguardi di un impulso così profondo e naturale - può manifestarsi e trovare il suo senso.

Penso per esempio a uno dei giovani che oggi è in focolare. Da quando l’ho conosciuto (avrà avuto allora 17 anni) ha manifestato l’inclinazione a dare la sua vita completamente a Dio nel focolare. E per qualche anno, senza nessun impegno, avevamo avuto più volte dei colloqui sulla sua vocazione.

Poi un giorno, naturalmente, si è innamorato di una bella e bravissima ragazza, anche lei profondamente cristiana ed innamorata di lui. Allora è venuto a parlarmi, per lealtà. «Cosa dici?», mi ha domandato, «non starò tradendo una mia vocazione, giacché da tempo pensavo alla verginità?». Siccome aveva previsto di andare a parlare e dichiararsi a quella ragazza, anche se ero abbastanza convinto che la sua era una vocazione seria alla verginità, mi sono sinceramente rallegrato che stava vivendo questa esperienza. Gli ho detto che mi sembrava una cosa molto bella, che ne ero felice, e che poi si sarebbe visto cosa questo voleva dire.

Era la fine della primavera e c’erano dei bei fiori nel giardino. Allora sono andato a prendere la rosa più bella e gliel’ho data, perché potesse andare con questo fiore a parlare con la ragazza che voleva corteggiare.

Per un po’ di tempo sono stati contenti di essere amici, hanno vissuto in modo bello il loro rapporto.

Un giorno è venuto in focolare. Sentiva che doveva prendere una decisione nei riguardi della sua vocazione. Ricordo che abbiamo letto due brani della Sacra Scrittura. Il primo quello dove si parla in modo così alto del matrimonio, da paragonarlo con i rapporti fra Cristo e la chiesa (Ef 5, 25-33); e poi quelle espressioni dove lo stesso Paolo, riferendosi alla sua esperienza nella verginità, dice: «vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro» (1Cor 7, 7).

Lui, valorizzando il disegno enorme delle due chiamate, sentiva che la sua era quella di un amore universale. Ed è entrato in focolare. Ma forse non l’avrebbe mai fatto se non ci fosse stata quella rosa.

a cura di Enrique Cambón

 

di un artista; Dio esiste per fortuna; Sessualità in positivo - Per un dialogo sull’amore umano, tutte edite nella loro versione italiana dall’Ed. Città Nuova di Roma.