Dialogo con i lettori

«S

ono cosciente che la parrocchia deve aiutare i bisognosi, ma ormai sono così numerosi quelli che vengono a chiedere soldi che non so proprio cosa fare. Aumentano sempre più, non si riesce a soccorrerli tutti e c’è il rischio di aiutare anche chi userà il denaro per la droga o per altri fini non buoni. Se li mandiamo via, potremmo sentirci dire un giorno ‘‘avevo fame e non mi avete dato da mangiare’’. D’altra parte questi poveri sono solo la punta dell’iceberg di una problematica sociale, la cui soluzione supera le nostre capacità» .

(Il parroco di una città laziale)

 

Avevo fame e mi
avete dato da mangiare

È proprio vero: sono problemi che superano le nostre forze. Ma di fronte al fratello che chiede aiuto bisogna tentare tutte le strade, anche se in maniera intelligente. Tra le qualità che caratterizzano la chiesa, c’è sempre stata – fin dal suo nascere – quella di soccorrere i poveri. Nei primi secoli, però, non veniva tanto in rilievo il benefattore dal cuore magnanimo, ma la comunità che accoglieva i poveri nel suo seno e li aiutava. Era la comunione dei beni tra i fedeli che faceva sì che «nessuno tra loro era bisognoso» (At 4, 34).

Bisogna rimettere in moto la comunione dei beni tra i parrocchiani e dare questo senso alle varie organizzazioni ecclesiali come la Caritas. Non basta creare questi organismi demandando loro la soluzione dei problemi, bisogna formare i nostri cristiani, almeno coloro che desiderano vivere il vangelo, nella dottrina sociale della chiesa.

Sono stato a Borgo Sabotino nella provincia di Latina. Qui, come in tutta la regione, sono numerosissimi gli extracomunitari in cerca di sopravvivenza. Ebbene quella comunità parrocchiale ha formato diverse équipes di uomini e donne che raccolgono le offerte in natura e preparano ogni giorno un pasto caldo per questi fratelli. Ne vengono a volte quindici e a volte anche trenta e la provvidenza non manca mai.

Il parroco mi assicurava che se questi poveri ne ringraziano Dio, il bene maggiore lo ricevono i parrocchiani stessi, perché si diffonde sempre più tra loro la mentalità dell’accoglienza e della condivisione dei beni, facilitando l’integrazione di questi nuovi arrivati e riducendo la piaga del consumismo negli abitanti del posto. Infatti, il contatto diretto e fraterno con queste persone, che hanno lasciato la loro terra in cerca di un tozzo di pane e che risparmiano il soldino spesso guadagnato con i lavori più umili per mandarlo ai propri figli o ai propri genitori, fa riflettere più di ogni nostra predica.

Ma il problema non è solo dei paesi ricchi. Voglio riportare di seguito quanto mi ha raccontato un sacerdote, Anton Basler, della Slovacchia, dove non si naviga di certo nell’abbondanza.

«Questo mercoledì prima della messa della sera qualcuno ha suonato alla mia porta. Non avevo tempo. Volevo finire la catechesi dei bambini per poi andare ad attendere le confessioni. Alla porta stava un uomo e io l’ho subito classificato tra le persone senza casa, uscite appena dalla prigione. Era ben vestito, ma barbuto e con un odore sgradevole. Mi ha raccontato subito la sua storia. Quante ne ho già sentite e sempre con la stessa conclusione: vogliono denaro!

Gli ho detto che gli darò da mangiare, ma nessun denaro. Mi ha promesso di ricambiarmi con il suo lavoro, per esempio strappando l’erba cresciuta tra le piastrelle davanti alla casa. Mi è sembrata una buona idea, perché anch’io da alcuni giorni pensavo la stessa cosa. Ho detto: ‘‘Bene, lo puoi fare e aspetta il mio ritorno’’. Gli ho dato qualche strumento e sono corso in chiesa.

Dopo la messa ho visto che tutto il marciapiede era pulito con molta cura. Egli si lamentava perché tutti cercano di liberarsi al più presto di lui mandandolo sempre da altri. Mi sono reso conto che quest’atteggiamento spesso l’ho avuto anch’io e che l’avevo anche prima della messa. Poi mi è venuta l’idea di dargli la possibilità di fare un bel bagno. Dopo un momento d’esitazione ha accettato. Mentre era in bagno, sono andato a pregare la cuoca di preparare una buona cena. ‘‘Per chi?’’, mi ha chiesto incuriosita. ‘‘Per il Signore Gesù’’, le ho risposto. E lei: ‘‘Sicuramente è uno di quei tali...’’. Ma infine l’ha preparata.

Ero contento che per quella sera non avevo invitato nessuno. Quando l’uomo ha visto la cena, è rimasto molto sorpreso. Certamente aveva fame. Mentre mangiava, all’improvviso mi sono ricordato della preghiera che abitualmente recito ogni mattina: ‘‘Ti cercherò, Gesù abbandonato, in ogni momento della mia vita’’. Ora Lui era lì ed ero felice. Ad un certo momento mi ha domandato se per caso non avessi un paio di scarpe usate. Ho detto che veramente non ne avevo. Ma poi mi sono ricordato che ne avevo ricevuto in dono un paio nuovo, che non mi andava del tutto bene. Sono andato a prenderlo: a lui andava benissimo.

Volevo aiutarlo a risolvere la sua situazione, l’ho portato alla stazione e gli ho comprato il biglietto del treno per Praga (più di 200 km di distanza), dove poteva preparare i suoi documenti.

Quando ci siamo salutati, era felice, non tanto per le cose ricevute, ma perché qualcuno aveva visto in lui un essere umano. Ma forse più felice ancora lo ero io per aver riconosciuto nel fratello il volto del mio Signore».

Qualcuno potrà sostenere che noi cristiani con questo modo di agire addormentiamo le coscienze, facendo il gioco degli sfruttatori e non incidiamo sul cambiamento delle strutture ingiuste che mal distribuiscono i beni del creato.

Ricordo che tale osservazione è stata fatta un giorno al famoso vescovo brasiliano, Dom Helder Cámara, conosciuto in tutto il mondo perché su questo punto ha sempre svegliato le coscienze. Egli rispose invitando ad applicare quel detto latino: unum facere et alium non omittere, perché il povero per mangiare un piatto di minestra non può attendere che i grandi del mondo si mettano d’accordo. Se l’uomo della parabola, incappato nei ladroni lungo la strada che scende da Gerusalemme a Gerico rappresenta oggi intere popolazioni, comprende anche quel singolo che, disperato e da tutti abbandonato sul lastrico, si presenta davanti ai nostri occhi, tendendoci la mano.

Naturalmente noi e le nostre comunità parrocchiali non dobbiamo fermarci a fare la semplice assistenza immediata, ma abbiamo l’obbligo di contribuire a far nascere una «società alternativa», che incarni i valori evangelici, anche a livello economico-sociale.

Per creare un mondo più giusto e fraterno non basta formare «uomini nuovi», sono necessarie anche strutture nuove. Ma cosa possiamo fare noi, gente comune, che non abbiamo accesso ai posti di comando? Come integrare il macro e il micro-sociale? Sarebbe un tema da trattare in modo esteso, ma intanto ci può essere utile lo slogan ecologista: «pensare globalmente ed agire localmente».

 

 

E. P.