Il buon samaritano di oggi non agisce da solo ma coinvolge più persone unite tra loro dall’amore

 

Promozione umana
a partire dall’unità

di Giovanni dalla Longa

 

Evangelizzazione e promozione umana, inculturazione e scambio di doni: è questa la storia dell’ospedale di North Kinangop. Tutto ebbe inizio circa trent’anni fa, subito dopo l’indipendenza del Kenya, quando il presidente Kenyatta donò al vescovo di Nyeri una casa colonica situata su di un altopiano a circa 2400-2600 metri sul livello del mare e a circa 130 chilometri da Nairobi. Giovanni, missionario del clero diocesano di Padova, fu nominato cappellano e amministratore dell’ospedale solo nel 1988, ma da allora sono accadute molte cose.

I

l territorio, dove attualmente si trova l’ospedale, era stato occupato precedentemente dai coloni inglesi che avevano sviluppato nella zona un fertile terreno coltivato a frumento, piretro e altre culture, ma senza strutture sanitarie, scolastiche e di assistenza sociale. Con l’indipendenza il territorio venne lottizzato e distribuito alle popolazioni autoctone dedite all’agricoltura. Attualmente vi abitano circa 150.000 persone.

La diocesi di Padova si assunse l’impegno di svilupparvi quelle strutture che il governo, ancora giovane, non era in grado di fare immediatamente. Così sono state aperte 6 missioni e in ciascuna uno di questi progetti sociali: dispensario, scuola secondaria, per sordomuti, per bambini handicappati, un liceo, e per North Kinangop un ospedale. Il CUAMM (Centro Universitario Aspiranti Medici Missionari) di Padova ha inviato durante più di 25 anni dei medici volontari e una Congregazione religiosa di Verona ha mandato delle suore per l’assistenza infermieristica.

Ancor oggi l’assistenza sanitaria nel territorio kenyano è coperta per il 45% dalla chiesa.

L’ospedale venne fornito, in epoche successive e con i pochi mezzi a disposizione, di vari reparti (medicina, chirurgia, maternità, pediatria, isolamento), degli ambulatori, dei laboratori principali e delle strutture integrative essenziali (farmacia, cucina, lavanderia, ecc.). Negli ultimi anni è stato oggetto di una ristrutturazione generale, resasi necessaria per le aumentate esigenze della zona, per le nuove e più puntuali normative sanitarie e soprattutto perché rappresenta, nella realtà locale, una struttura esemplare per continuità e per qualità di prestazioni rese. A tale scopo è stata annessa all’ospedale una scuola professionale per infermiere caposala.

Ho iniziato così...

Quando fui incaricato dell’ospedale bisognava fare un grande salto di qualità riguardo alle strutture edilizie già esistenti e non esistenti, al personale già presente e nuovo. Nel frattempo il governo, trovandosi in difficoltà finanziarie, aveva sospeso ogni contributo agli ospedali missionari.

Allora i responsabili di queste strutture sanitarie, dirette da cattolici o da protestanti, si incontrarono per vedere insieme le possibili soluzioni. Fu invitato un esperto a studiare, durante un intero anno, un piano strategico della durata di tre anni per far fronte alle nuove esigenze.

In questo tempo il vescovo di Padova, mons. Antonio Mattiazzo, venne a farci visita. Vedendo le nostre missioni ci invitò, tra l’altro, a creare con ogni mezzo posti di lavoro sul territorio, onde evitare o almeno diminuire il già grave fenomeno dell’urbanizzazione. La sua parola divenne per me motivo di ispirazione.

Avevo lavorato per 16 anni nella vicina Missione di Njabini, dove era nata una bella comunità animata dalla Parola di Dio e basata sull’amore reciproco. Fin dal mio arrivo in Kenya avevo capito che era importantissimo entrare nel cuore della gente. Il vescovo locale mi aveva detto: «Giovanni, conquistati il cuore della gente ed essi ti daranno tutto». Ma come riuscirvi? Ogni mese ci ritrovavamo insieme io ed un altro missionario, Giovanni Marconcini della Consolata, ed in un clima di fraternità ci scambiavamo le nostre esperienze alla luce del vangelo. Questo ci aiutava a ordinare le nostre attività, ad entrare sempre più nel cuore dei nostri parrocchiani e a fare poi le cose in comunione con loro. Il rapporto fraterno tra noi sacerdoti colpì i parrocchiani ed un giorno uno dei responsabili della comunità mi chiese quale era il segreto che ci legava. Penso che l’unità da noi vissuta sia stata la scintilla che ha acceso tutta la realtà di comunione nata e sviluppatasi a Njabini.

Partendo dall’unità

Quando giunsi all’ospedale, anche per la mia esperienza precedente, sapevo che il segreto della riuscita stava nel fare le cose insieme sia con i miei più diretti collaboratori, sia con i sacerdoti della missione. E questo per tante ragioni:

 – per rendere le persone del posto più coscienti e più responsabili dell’ospedale, come realtà loro. Avevo notato, infatti, che, quando le persone sono direttamente coinvolte, danno risultati impensati;

 – per studiare insieme iniziative e proposte utili a generare redditi per supplire il mancato contributo del governo;

 – per rispondere il più adeguatamente possibile alle esigenze del personale e degli ammalati;

 – per stabilire un rapporto giusto con i lavoratori dell’ospedale. All’inizio trovai molto difficile coniugare il fatto di essere sacerdote e amministratore, mettere insieme la comprensione e l’efficienza. Cercai di vedere tutte le persone che lavoravano all’ospedale sempre come Dio le vede, dimenticando gli screzi o gli errori del giorno precedente. Se qualcuno, per esempio, arrivava con ritardo, non lo rimproveravo ma chiedevo cosa le era successo. E spesso venivo a sapere che c’erano seri problemi in famiglia. Interessandomi del lavoratore prima che del lavoro, il rapporto tra loro e con me diventava più libero e anche l’efficienza lavorativa ne guadagnava.

Un dialogo schietto

Quando ho esposto loro il pensiero del vescovo di creare posti di lavoro ed ho presentato il problema del futuro finanziamento dell’ospedale, è nato subito un dialogo fattivo e schietto tra noi. In quel momento, inoltre, veniva a mancare anche l’appoggio e la collaborazione del CUAMM nell’invio dei medici qualificati ed era necessario reperire medici locali e suscitare dall’Italia altre forme di volontariato specialistico che poi si sono dimostrate particolarmente stimolanti e utili.

Nell’ambito di questa collaborazione c’è stato uno scambio di solidarietà anche con gruppi di amici italiani, che offrivano la loro competenza e conoscenza nel provvedere materiale e macchine non accessibili sul posto.

Sono state così realizzate tutte quelle strutture e attrezzature che servono per la costruzione dei vari edifici, per la loro manutenzione e per le varie attività produttive di mantenimento dell’ospedale stesso:

– Una falegnameria e un’officina meccanica che provvedono alle necessità dell’ospedale e anche assiste altri che lo desiderano, dando lavoro a dieci persone.

– Un frantoio per la produzione della ghiaia e la costruzione di blocchi di calcestruzzo che dà lavoro ad altre dieci-dodici persone. La ghiaia e i blocchetti servono per l’ospedale e per altri clienti e danno buone entrate.

– Un mulino e forno per il pane ad uso dell’ospedale e dei vicini. Attualmente produce circa 230 kg. di pane al giorno e vi lavorano quattro persone.

– Trattori per arare la terra anche per conto terzi. Vi lavorano altre otto persone.

– Autocarri per il trasporto e la commercializzazione dei manufatti e dei prodotti. Occupano cinque persone.

– Una fattoria per la coltivazione del terreno e la produzione di derrate alimentari: stalla per mucche, stie per conigli e pollaio per galline.

– Si è aperta una cava di pietre per il frantoio e per le costruzioni, dando nuovo incremento allo sviluppo del terreno adiacente all’ospedale, circa 40 ettari, e dando lavoro a otto persone.

– È stato costituito un gruppo di muratori e lavoratori del posto. Essi portano avanti le costruzioni che non sono più date in appalto a ditte della capitale.

«Ti abbiamo mai deluso?»

Quando si è trattato di fare le nuove costruzioni (sale operatorie, reparto medicina, pronto soccorso, laboratorio e amministrazione), la ditta con il preventivo più basso richiedeva il doppio dei soldi a disposizione per questo lavoro. Allora ho chiesto ai miei collaboratori più vicini: «Se il gruppo dei nostri muratori ci chiedesse di affidargli queste costruzioni, cosa dovremmo rispondere? Se diciamo di sì, non ci sarà il rischio di uno sciopero nel corso dei lavori e quindi il pericolo di un fallimento?». Un anziano, che lavora all’ospedale da più di vent’anni, ha risposto: «Padre, quante volte ti abbiamo fatto arrossire quando ci hai messo al corrente di un impegno e abbiamo preso una decisione assieme?». «In effetti mai», è stata la mia risposta. E l’anziano: «Ebbene, stai tranquillo, neppure questa volta. Se i nostri muratori ti chiedono, rispondi di sì e lascia fare a noi».

Siamo partiti con questo spirito, quando ci è venuta una conferma anche dall’estero: la Misereor approvava il nostro progetto globale e, senza sapere nulla della nostra decisione, ci raccomandava di servirci della mano d’opera locale. I lavori sono iniziati nell’ottobre 1994 e ormai sono quasi al termine.

Un anno fa c’è stato un aumento notevole dei prezzi. I nostri salari erano inferiori a quelli degli altri lavoratori, allora uno dei responsabili mi ha avvicinato e mi ha detto: «Padre, sto constatando che alcuni dei nostri operai ci hanno lasciato e sono andati a lavorare presso altri. Noi che abbiamo fatto ‘‘voto’’ di non chiedere aumento finché il progetto non è finito, non chiediamo nulla. Ma temiamo che se altri vanno via, possiamo compromettere i lavori. Io proporrei di vedere se le finanze permettono un piccolo aumento, in modo da poter dare loro un segno di apprezzamento. Io sono certo che se facciamo così, il loro morale darà frutti insperati». L’abbiamo fatto e c’è stato subito un notevole impegno da parte loro.

Gli animatori locali

Un gruppo di anziani, per saggezza e per presenza all’ospedale, ognuno con un ruolo preciso da svolgere, sono l’anima di ogni attività. Una loro nota caratteristica è la cordiale e aperta collaborazione con gli amici italiani.

Al gruppo del posto infatti si uniscono di tanto in tanto alcuni volontari italiani, che intendono donare un po’ delle loro ferie e del loro talento per lavorare assieme ai nostri operai. Questa collaborazione è splendida perché è di mutuo arricchimento. Si può dire che tanti italiani, venuti per la prima volta come turisti, sono tornati a casa missionari, perché ora si sono prodigati a cercare mezzi e aiuti presso amici e conoscenti, per cui l’ospedale può contare con una grande famiglia sia in Kenya che in Italia.

Un gruppo di medici ortopedici di Genova viene due volte all’anno per una serie di interventi su bambini handicappati, circa un centinaio ogni anno.

Un gruppo di dentisti e tecnici odontoiatri hanno aperto uno studio che è portato avanti, in loro assenza, da una persona specializzata del posto.

Un gruppo di oculisti viene due volte all’anno. Le persone che ne hanno bisogno sono cercate e preparate da un medico del posto. Ogni anno abbiamo circa 100-120 interventi.

Questi gemellaggi, questa collaborazione e il miglioramento delle strutture hanno suscitato un maggior impegno anche tra il personale dell’ospedale. Una commissione del governo in visita a nostra insaputa ha scelto e premiato il nostro come il miglior ospedale dell’anno per igiene e prevenzione.

L’amore genera amore

A pasqua di quest’anno uno dei nostri tecnici di laboratorio aveva bisogno di un grosso intervento al mento. Da qualche anno frequentava un ospedale di Nairobi, ma nessuno osava operarlo, perché tra l’altro era un intervento molto costoso, circa 7-8 milioni in lire. Si stava pensando di portarlo in Italia. Però prima abbiamo consultato uno specialista di Nairobi, che con un suo amico è venuto a vedere l’ospedale e constatando che era attrezzato molto bene, ha deciso di operarlo qui entro tre giorni. Tutta la comunità dell’ospedale pregava per il buon esito. Il personale della sala operatoria, pur essendo un fine settimana, era presente al completo. L’intervento è stato lungo ma ben riuscito con gioia di tutti.

Chiesi al medico operante quanto gli dovevamo, ma mi rispose che l’importante era che il malato guarisse e mi avrebbe detto tutto dopo due settimane. Quando vennero per il controllo i due chirurghi portarono anche le loro mogli, anch’esse desiderose di vedere con i propri occhi quanto avevano sentito dire dai loro mariti. Infatti erano stati impressionati di trovare in un luogo alquanto isolato una struttura ospedaliera ben attrezzata e dotata di «attività particolari». Le signore, dopo aver visto l’ospedale e le altre attività di sostegno, erano incantate.

Prima che partissero ho chiesto ancora una volta al medico quanto gli dovevamo. Egli, fissandomi negli occhi, mi ha detto: «Padre Giovanni, quanto ai soldi penso proprio che non deve darci nulla. Anzi siamo noi che dobbiamo ringraziare lei per averci dato un’opportunità di fare qualcosa per la nostra gente. Voi qui state facendo miracoli per noi. Chi potrà ripagarvi? Il nostro vuole essere un piccolo contributo. Ci sprona anche il pensiero che altri amici dall’Italia fanno quello che dovremmo fare noi. Anzi siamo pronti a venire ancora, quando avrete dei casi che richiedono un intervento specialistico».

Ma sinceramente i più contenti siamo stati noi perché vediamo che la carità si fa concreta e comincia proprio in casa, come dice un proverbio locale.

Spirito di famiglia

A volte vengono dall’Italia persone che si dicono senza fede, però non perdono la messa quotidiana della comunità e vivono e lavorano con instancabile sforzo e donazione. E dopo cena, quando ci si distende, aprono il loro cuore e fanno tante domande in un’atmosfera di sincerità e di apertura. E ripartono contente e con il desiderio di ritornare ancora.

In questo spirito di famiglia lo scambio diventa reciproco arricchimento tra chi viene per un breve periodo, e chi vi abita abitualmente.

Ricevendo anticipi o prestiti, la maggior parte dei lavoratori locali hanno migliorato visibilmente le loro condizioni: alcuni hanno comperato un pezzo di terreno per costruirvi la casa; altri hanno potuto pagare la quota richiesta dai genitori della moglie e così ottenere il permesso di fare il matrimonio; altri ancora hanno trasformato la casa di fango in pietra; altri hanno rifatto in lamiera il tetto dell’abitazione che era di paglia; e infine altri hanno fatto studiare i loro figli.

Alcuni lavoratori, nel frattempo, hanno espresso il desiderio di essere battezzati; qualche altro di farsi cattolico; altri invece, essendo cristiani protestanti, sono sorpresi di poter continuare a lavorare in una struttura diretta da cattolici, perché nessuno fa obiezione per la loro denominazione religiosa; tra tutti c’è una buona intesa, un clima di vera collaborazione.

Ovviamente non mancano i problemi, anzi certi giorni sembrano darsi appuntamento proprio all’ospedale, ma c’è fra tutti un costante impegno nel mantenere l’armonia. Se qualcuno non si comporta bene, prima di prendere misure disciplinari, c’è sempre un dialogo. E piano piano tra loro sta crescendo il rispetto e la cura per le attrezzature e il senso di responsabilità nell’usarle.

Di tanto in tanto si fanno momenti di verifica. Uno dei più anziani, ricordando l’impegno che ognuno deve mettere nel suo lavoro, diceva: «Ricordatevi che l’ospedale per noi tutti è come la Bata per Limuru». Limuru è una cittadina, dove c’è la Bata, una grossa fabbrica di scarpe, che dà lavoro a quasi tutta la popolazione. Questa osservazione ci ha dato gioia, non solo perchè tante persone non sono finite nelle periferie misere e disumane delle città, ma sopratutto perchè hanno scoperto e stanno mettendo in atto un nuovo tipo di convivenza basata su rapporti più fraterni e comunionali.

 

 

 

Giovanni dalla Longa